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Il Sudan: post-rivoluzione nella sua identità religiosa

Aggiornamento: 25 ott 2021

Ci hanno messo in prigione in nome della religione, ci hanno bruciato vivi in nome della religione, e sempre in suo nome ci hanno assassinati… Ma l’Islam è innocente. L’Islam ci sprona ad alzare la voce per combattere i tiranni...”

Con la “gloriosa rivoluzione” e la caduta di al-Bashir, dopo un trentennale processo di arabizzazione e di islamizzazione forzate, il Sudan non rinnega le sue radici culturali. L’islam non è il colpevole, lo è la sua strumentalizzazione. E è la strumentalizzazione che viene rinnegata, almeno in questa prima fase del post rivoluzione, in cui, nonostante le difficoltà e le sfide, sembra esserci molto ottimismo sia tra la società civile, che tra i membri del governo di transizione.[1]


1. Introduzione


Nell’aprile 2018, dopo circa quattro mesi di proteste, sulla falsa riga delle manifestazioni, che nel 1985 destituiscono Ja’far al-Nimeiry, al-Bashir viene spodestato e un nuovo governo, di transizione, si insedia.

Nel presente lavoro si cerca di esplorare il dato religioso nel post rivoluzione. Quale il suo ruolo politico in un paese che è stato plasmato da una trentennale campagna di arabizzazione e di islamizzazione forzate, pur affondando le sue radici culturali nell’Islam? Quale l’atteggiamento dei sudanesi che hanno fatto la rivoluzione nei confronti dell’Islam: pur avendo radici storico-culturali musulmane, ci si deve aspettare un atteggiamento di rifiuto?


Premesso che le sfide che deve affrontare il nuovo governo sono principalmente economiche e politiche, soprattutto nei confronti delle zone più destabilizzate[1]e nello smantellamento delle strutture erette dal regime spodestato, che posto occupa l’Islam in questo paese africano e musulmano?

Senza l'intenzione di fornire una visione bipolare e monolitica della rappresentanza religiosa si passano in rassegna solo alcuni dei protagonisti delle recenti vicende sudanesi.


Infine si è cercato di prestare attenzione alle definizioni che descrivono i movimenti islamisti con la consapevolezza che comunque si tratta di “etichette” di matrice occidentale.[2]


2.1. Breve quadro introduttivo



L’Islam fa la sua comparsa dopo il cristianesimo nel sec VII, e sin dal sec. XVI l’attuale Sudan è parte dell'impero ottomano. Si estende tra il Corno d’Africa, inteso anche come unità culturale, e il Ciad, paese di incontro tra due zone dove la religione islamica si è affermata attraverso vicende storiche molto differenti tra loro.[3] A sud il paese si affaccia sulle zone africane a maggioranza cristiana, senza dimenticare l’Etiopia a est, e il Mar Rosso.[4]


Ex colonia britannica enormemente influenzata dal confinante Egitto, acquisisce l’indipendenza nel 1956.

La sua storia politica è caratterizzata sin da subito dalla rivalità tra un nord a maggioranza musulmana e un sud in cui prevale il cristianesimo;[5] essa è segnata dall’avvicendarsi di diversi governi militari che spesso strumentalizzano l’Islam.


Negli anni '80 si assiste all’emergere di movimenti dell'attivismo islamico e a una islamizzazione del discorso pubblico, favoriti internamente da una forte crisi economica e dal conseguente enorme malcontento popolare; esternamente, dai finanziamenti emessi da “alcuni paesi della penisola arabica, in particolar modo l’Arabia Saudita”, che danno “un contributo fondamentale ad un generale processo di reislamizzazione della società in senso radicale, in questo caso wahhabita, tramite la rete delle banche islamiche”.[6] Il principale beneficiario di questi finanziamenti è il National Islamic Front, ramo sudanese dei Fratelli Musulmani,[7] guidato da Hasan al-Turābī (1932-2016). Grazie alle sue risorse, esso gioca un ruolo fondamentale nella conquista del potere da parte di al-Bashir a partire dagli anni ‘90.[8] Inoltre, con l’abolizione di tutti i partiti e dei sindacati, il NIF diviene unica fazione di stato, e imponendo la Shari'ah, declina il suo controllo in maniera capillare in tutto il paese.


Nonostante le fasi di allontanamento, che tra la fine degli anni '90 e i 2000 vedono la fondazione, o meglio, la trasformazione del NIF in Popular National Congress Party (PNC)[10] il regime non smette di avvalersi dell’Islam e della sua legge come strumento di controllo.


Con la morte di al-Turābī nel 2016 è evidente l’assenza di giovani figure che possano prenderne il posto. Si assiste a un’ulteriore svolta pragmatica del regime al-Bashir, volta principalmente a mantenersi in vita.

Le proteste che esplodono nel dicembre del 2018 sono da ricondursi a diversi fattori economici, politici e sociali. Dalla città di Damazine, nello stato del Blue Nile e a seguire da Atbara, dove la sede del partito al potere viene data alle fiamme, si chiede a gran voce la rimozione di al-Bashir e del suo regime monopartitico.


Il perno delle manifestazioni è rappresentato dal National Front for Change (NFC), un’alleanza di partiti di opposizione, associazioni professionali e sindacati. La Sudanese Professionals Association (SPA), attraverso il suo linguaggio inclusivo “ha guidato le proteste sin dagli inizi, in coordinamento con il movimento giovanile Girifna, costituito nel 2009 da studenti universitari.” È interessante notare che la retorica della SPA si ispira ampiamente all’eredità del nazionalismo effendiya, l’ideologia tipica della classe operaia sudanese con un’istruzione maggiormente musulmana e araba. Residente principalmente nelle zone riverine nel cuore del paese, rappresenta gli impiegati amministrativi sotto il governo coloniale anglo-egiziano che poi eredita lo stato coloniale. Ad integrare il fronte d’opposizione altre fazioni [11], incluso il Sudan Call[12] di cui fa parte il National Umma Party (NUP), che affonda le sue radici nel sufismo mahdista protagonista di varie vicende storiche, tra cui quella del raggiungimento dell’indipendenza sudanese nel 1956.

Ad oggi due dei suoi ex esponenti, il farmacista quarantacinquenne Mohamed Hassan Altaishi e l’avvocato ottantenne Hassan Idriss, sono parte del nuovo governo di transizione. Annunciato, dopo alcune difficoltà,[13] nell’agosto del 2019 dal primo ministro Abdallah Hamdok, esso è frutto dell’accordo politico stipulato a luglio tra il Transitional Military Council (TMC) e le Forces for Freedom and Change FFC della società civile, rappresentato dal Consiglio Sovrano che resterà in carica per 3 anni e 3 mesi.[14] (per ulteriori approfondimenti sulle vicende che portano al rovesciamento di al-Bashir si rimanda al lavoro di E. Chiara.


2.2. Alcune voci del post rivoluzione


Il governo di transizione ha la grande responsabilità di preparare il terreno per le future elezioni democratiche. Dalle sue scelte necessarie dipendono la stabilità delle zone periferiche e lo smantellamento delle strutture del regime.

Infatti “Per molti sudanesi la rivoluzione non è completa finché “lo stato parallelo”[15] che gli islamisti hanno creato nel trentennio al-Bashir, non viene smantellato completamente. Inoltre Il fatto che gran parte dei movimenti di protesta è composto da giovani entro i trenta anni nati e cresciuti nella propaganda islamista del regime, è un duro colpo per i movimenti dell’attivismo islamico. I sudanesi li associano a corruzione e a dispotismo portati avanti in nome della religione. Ad oggi i gruppi islamisti hanno perso credibilità. Ad esempio hanno annunciato dimostrazioni, che però non hanno mai avuto luogo, e i sudanesi non sono più ricettivi nei confronti di quel tipo di discorso religioso, nonostante siano diffusamente molto praticanti.[16]


Significative sono le proteste all’insegna dello slogan “No agli islamisti!” contro quei politici che si sono presentati come kezain[17] in occasione di un incontro del NPC a Kartoum nel maggio 2019. I movimenti islamisti oltre ad essere indeboliti da frammentazioni interne, sono disorientati dalle reazioni dei manifestanti, ma al contempo non vogliono essere esclusi dai negoziati. Durante il meeting il segretario generale di partito, Ali al-Haj, ha dichiarato che il NPC non è vincolato da alcun accordo in cui non viene coinvolto, e che esso non accetta alcun patto che escluda le altre forze politiche. Uno dei membri della fazione aggiunge che “I partiti dell’Islam politico rimarranno in Sudan, in quanto esso è un paese musulmano”.[18]


È di novembre l’approvazione di una legge che prevede lo scioglimento del National Congress Party , il quale si difende accusando il governo "illegale" di confiscare i beni del partito perché non sa come risolvere la crisi economica del paese.

Il cuore dello spirito della “rivoluzione gloriosa” sembra incarnarsi nelle parole della ventiduenne studentessa di ingegneria Alaa Salah che canta davanti alla folla. I comizi portati avanti da alcune donne[19] si legano ad una antica tradizione oratoria femminile di lamenti e poemi dedicati ai defunti, atti a sollevare il morale dei guerrieri, o a screditare leader spietati. Nelle sue parole le radici culturali musulmane del Sudan occupano un posto ben preciso nella società accanto alla consapevolezza della strumentalizzazione dell’Islam messa in atto dal regime: “Ci hanno messo in prigione in nome della religione, ci hanno bruciato vivi in nome della religione, e sempre in suo nome ci hanno assassinati… Ma l’Islam è innocente. L’Islam ci invita a far sentire la nostra voce per combattere i tiranni. Le pallottole non uccidono. Ciò che uccide è il silenzio delle persone”.


Religione e identità araba sono state ampiamente strumentalizzate dall'élite sudanese al potere con lo scopo di sopprimere il dissenso dei vari gruppi, soprattutto nelle aree più periferiche.


Le parole del ministro per gli Affari Religiosi Nusraddin Mufreh sembrano fare eco a quelle del primo ministro Hamdok “Stiamo cercando di mettere fine alla guerra per una pace sostenibile”. Nella sua intervista rilasciata al giornale pan-arabo Asharq Al-Awsat, egli nega l’esistenza di cellule ISIS in Sudan, ma specifica che sono presenti molti attivisti dei movimenti islamisti, eredità del regime precedente, che scalpitano per non uscire di scena. Dai suoi commenti emerge la consapevolezza e la volontà del nuovo governo di costruire una società fondata sulle libertà delle varie componenti sudanesi. Puntualizza che il suo ministero farà di tutto per combattere l’estremismo e il terrorismo. Ha in programma il rinnovamento dei programmi educativi nelle scuole con lo scopo di formare persone che rappresentino vere risorse per la comunità tutta.

Le parole del ministro sono parole di inclusione che mettono l’accento sul rafforzamento del ruolo dei giovani, sul valorizzare il loro spirito creativo ed innovativo per realizzare un progetto nazionale. I diritti religiosi delle donne verranno massimizzati per la costruzione di una società all’insegna della pace. Invita i sudanesi della diaspora, inclusi gli ebrei, a ricongiungersi al loro paese e a partecipare alla sua ricostruzione attraverso il loro valore sociale, economico, commerciale, civile, e con la loro eccellente istruzione.

“Nell’ambito di un nuovo stato civile, e alla luce della rivoluzione gloriosa, la cittadinanza è la base per preservare diritti e doveri. Ho invitato tutti i sudanesi residenti all’estero, inclusi gli ebrei, a tornare per vivere in Sudan”. Inoltre il ministro degli affari religiosi non considera i cristiani una minoranza: “Essi sono sudanesi e la religione che professano, con i suoi valori e le sue credenze è manifestazione di Dio. Anche i cristiani hanno subito persecuzioni e torture durante il precedente regime. Le proprietà a loro espropriate vanno restituite giuridicamente. I cristiani e tutti gli appartenenti ad altre fedi hanno la libertà di culto”.

3. Conclusioni


Nonostante l’eterogeneità dei gruppi manifestanti, uniti dalla comune aspirazione ad assicurare discontinuità politica a un Paese fondato sulla repressione del dissenso, sia la società civile che i membri del governo di transizione sono ben consapevoli da una parte delle proprie radici culturali, dall’altra della strumentalizzazione che il regime di al-Bashir ha fatto dell’Islam.


Il linguaggio inclusivo delle nuove istituzioni è sicuramente positivo, ma è necessario concretizzarlo. Le sfide da sostenere sono molte, in particolare su un piano religioso, la più grande forse è proprio quella di considerare la componente dei movimenti dell’attivismo islamico. Nonostante indeboliti e odiati, essi non sono disposti a uscire di scena. Dunque è una parte con cui il governo di transizione deve fare i conti, tenendo in considerazione anche pressioni esterne di quei paesi che in Sudan hanno interessi geostrategici.[20]


Note


[1] Immagine di copertina Arts of Sudan Revolution https://www.bbc.com/news/world-africa-48126363

[2] Ci si riferisce alle zone limitrofe del Darfur, del Blue Nile ed del Sud Kordofan

[3] Per una trattazione completa ed un approfondimento specifico cfr M. CAMPANINI, Islam e Politica, Il Mulino, Bologna, 2015, e R. REDAELLI, Fondamentalismo Islamico, Giunti, Milano, 2007

[4] Fondamentalmente l’Islam ad ovest si afferma tramite imperi, ad est tramite commercio. Per ulteriori chiarimenti sui contesti musulmani in Africa Subsahariana si rimanda ai precedenti articoli. Seguono link. https://www.amistades.info/post/l-islam-nell-africa-subsahariana-focus-storico-ad-ovest https://www.amistades.info/post/l-islam-nell-africa-subsahariana-contemporanea-focus-ad-est

[5] L’affaccio sul mar Rosso rende il Sudan un paese di interesse geostrategico.

[6] Il Sud Sudan diviene uno stato a sé stante con capitale Juba nel 2011, dopo diverse lotte.

[7] Per approfondire cfr M. ALONE, Ascesa e Declino dell’Islam Radicale in Sudan (1989-2004), Oriente Moderno, 2005

[8] La Fratellanza Musulmana nasce in Egitto con al-Banna nel 1928

[9] Infatti il NIF non viene coinvolto sin dall’inizio nel governo militare di al-Bashir

[10] Per alcuni “rinomina il NIF” cfr M. A. M. ASSAL, Sudan’s popular uprising and the demise of Islamism, 2019

[11] Il Sudanese Congress Party (SCP), il Sudan’s People Liberation Movement-North (SPLM-N), il Justice and Equality Movement (JEM) e il Sudan Liberation Movement,

[12] L'alleanza Sudan Call viene creata nel 2014 ad Addis Abeba come piattaforma di opposizione che consente al Partito Umma di Sadiq al-Mahdi e altri attori politici non armati di collaborare con i movimenti armati del Sudan Revolutionary Front (SRF)

[13] Nel giugno del 2019 il Sudan è stato sospeso dall’Unione Africana finché non avesse trovato accordi politici risolutivi https://au.int/en/articles/sudan-suspended-african-union

[15] M. A. M. ASSAL, Sudan’s popular uprising and the demise of Islamism, Sudan Brief, 2019

[16] M. A. M. ASSAL, op. cit.

[17] Termine sudanese che evoca l’immagine degli islamisti come dei recipienti ai quali i fedeli si dissetano di Islam. La metafora viene usata dai sudanesi in senso dispregiativo.

[18] Non è scopo della presente trattazione esplorare gli interessi geostrategici di paesi altri, ma è importante tener conto del fatto che esistono e che i movimenti dell’attivismo islamico potrebbero trovare rifugio e aiuto da parte di paesi come Emirati, Arabia Saudita, Qatar, Turchia.

[19] Categoria particolarmente colpita dalle politiche di al-Bashir, rappresentata dalla Sudanese Womens’s Union (SWU).

[20] Cfr. nota 18


Bibliografia

  • M. ALONE, Ascesa e Declino dell’Islam Radicale in Sudan (1989-2004), Oriente Moderno, 24 (85), no. 2/3, 2005

  • M. A. M. ASSAL, Sudan’s popular uprising and the demise of Islamism, Sudan Brief, n° 3, CHR Michelsen Institute, Bergen, 2019

  • M. CAMPANINI, Islam e Politica, Il Mulino, Bologna, 2015

  • E. CHIARA, Il Sudan e la Rivoluzione di Velluto, AMIStaDeS, 2019

  • A. GORI, Islam in Africa Orientale, Crisi Islamica e/o Crisi dell’Islam?, Africa: Rivista Trimestrale Di Studi e Documentazione Dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, vol. 62, no. 3, 2007

  • R. REDAELLI, Fondamentalismo Islamico, Giunti, Milano, 2007


Sitografia

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