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Conflitti interistituzionali, autogolpe, proteste e repressione in Perù

Figure 1: H. Curotto, Associated Press

1. Introduzione


Il 7 dicembre dello scorso anno, Pedro Castillo, presidente in carica da poco più di 16 mesi, ha tentato di sciogliere il Parlamento, formare un governo d’emergenza e convocare le elezioni di un Congresso costituente per redigere un nuovo testo costituzionale. Nell’arco della stessa giornata, si sarebbe dovuta tenere la terza mozione di impeachment nei suoi confronti per “incapacità morale”. Nonostante l’esito del voto di destituzione non apparisse affatto scontato, l’oggi ex presidente si era evidentemente convinto di non avere via di scampo. Dalle dichiarazioni dei suoi ministri e dei suoi avvocati tutti erano all’oscuro di questo piano.


Si sono opposti la vicepresidente di Castillo, parte dei ministri, la maggioranza dei parlamentari e le forze armate. Dato che al Presidente è permesso costituzionalmente sciogliere il Parlamento solo nel caso quest’ultimo non approvi per due volte consecutive il consiglio dei ministri, quello di Castillo si configura come un vero e proprio autogolpe.


Castillo è stato arrestato il giorno stesso per tradimento e ribellione contro lo Stato, mentre stava cercando di raggiungere l’ambasciata messicana e chiedere rifugio politico, insieme alla sua famiglia[1]. Attualmente sta scontando 18 mesi di detenzione preventiva, dato il pericolo di fuga e di intralcio alla giustizia. Quattro ore dopo il suo annuncio, Dina Boluarte, la vicepresidente, ha assunto il suo incarico, diventando così la prima donna presidente e il sesto capo del governo negli ultimi cinque anni.


Il tentativo golpista sarebbe stata una reazione disperata e scellerata rispetto ai ripetuti sforzi dei partiti di destra, maggioritari nel Congresso, di estrometterlo dal potere. L’epilogo di un lungo braccio di ferro istituzionale tra Presidenza e Congresso, iniziato all’indomani delle elezioni del 2021. I risultati delle urne sono stati infatti contestati da gruppi riunitisi intorno all’altra candidata presidenziale al ballottaggio Keiko Fujimori, figlia del dittatore Alberto[2], dai cui crimini non ha mai preso davvero le distanze. I sostenitori di Fujimori si erano mobilitati per le strade della capitale gridando senza basi solide al broglio elettorale.


2. Pedro Castillo e Dina Boluarte


Castillo è un maestro rurale della regione andina di Cajamarca, della cui cultura si presenta come fiero appartenente, con un passato da rondero, ovvero membro di pattuglie contadine autonome, e un percorso politico all’interno del mondo sindacale della scuola. Percepito come un outsider della politica peruviana, in opposizione all’élite meticcia, o “più bianca” della Lima metropolitana, Castillo è stato di continuo tacciato di ignorante, impreparato, e terrorista. Gli avversari politici hanno insistito per mesi che sotto la sua guida il Perù si sarebbe convertito in un nuovo Venezuela, con una forte eco sui media nazionali.


Una volta insediatosi, Castillo ha subito due tentativi di rimozione per impeachment, sulla base delle accuse di corruzione. Il presidente che doveva segnare una discontinuità con il sistema e per la prima volta mettere al centro gli interessi delle regioni e delle popolazioni più povere e marginalizzate, ha ampiamente deluso le aspettative dei suoi elettori.

Castillo, Boluarte
Figure 2: Boluarte e Castillo con elementi dei costumi tradizionali delle regioni di Apurimac e Cajamarca, MIDIS Ministerio de Desarrollo e Inclusión Social

Non ha lavorato seriamente a nessuna delle azioni che aveva promesso al suo elettorato, come il completamento della riforma agraria, una riforma tributaria più equa e passi in avanti verso un processo costituente per liberarsi del testo neoliberista adottato all’epoca di Fujimori. Si è dimostrato più simile del previsto ai suoi predecessori, mano a mano che si rilevavano elementi delle indagini per corruzione.


Il sopraggiungere della vicepresidente non è stato visto come un fattore di discontinuità e una garanzia di un superamento della crisi politica. Al contrario, già dalla prima settimana di governo, Boluarte ha registrato una disapprovazione dell’84% secondo l’INEI. Probabilmente il primo errore della nuova presidente è stato l’aver inizialmente annunciato di voler terminare il mandato presidenziale regolarmente, con nuove elezioni nel 2026. Da quel momento al malcontento verso il Congresso si è aggiunto il rifiuto anche verso la sua persona.


Nata a Chalhuanca, nella regione di Apurimac, nel sud del Paese, Boluarte è avvocata e nel 2018 si presentò come candidata a sindaco per Surquillo, nella provincia di Lima, ottenendo solo 2.040 preferenze. Poi, per più di un anno, è stata ministra di Sviluppo e Inclusione Sociale con Castillo.


Bisogna considerare che Boluarte non gode del sostegno diretto di alcuna forza politica, dato che nel gennaio 2022 era stata espulsa dal suo partito Perù Libre, per alcune dichiarazioni fatte alla stampa in cui aveva affermato di non averne mai sostenuto l’insieme di valori.


Il governo Boluarte ha, come previsto dalla Costituzione, lasciato al Congresso la facoltà di approvare un progetto di legge per anticipare le elezioni. Due tentativi di anticipare le elezioni al 2023 su proposta delle parlamentari Digna Calle e Susel Paredes non hanno ottenuto il numero minimo di voti, il progetto di legge approvato ha invece anticipato le prossime elezioni generali solo all’aprile del 2024, data che tuttavia sembra ancora troppo lontana per molti cittadini.


3. Il malcontento cresce dal sud del Paese fino a Lima


Forti proteste a livello nazionale hanno avuto inizio in dicembre, all’indomani del golpe, organizzate soprattutto da gruppi studenteschi, associazioni indigene e contadine e sindacati e si sono concentrate nelle regioni meridionali. Le proteste sono riprese il 4 gennaio dopo una interruzione in coincidenza delle feste natalizie, senza un coordinamento centrale ma con dinamiche simili nelle varie regioni. Infine, varie delegazioni di manifestanti si sono recate a Lima per riunirsi in una grande marcia nazionale il 19 gennaio, la “Marcia de los 4 Suyos”, in riferimento alle quattro parti che formavano il Tahuantinsuyo, ovvero l’Impero Inca.


Al 2 febbraio si registrano 58 morti e più di 1.200 feriti, durante le manifestazioni, a causa della repressione operata dalla polizia e dall’esercito, mobilitato dopo la dichiarazione di stato d’emergenza in diverse regioni del Sud. La maggioranza delle vittime è morta per ferite di arma da fuoco e sono stati documentati innumerevoli casi di violenza verso persone disarmate, anche già a terra. Organizzazioni nazionali ed internazionali per la tutela dei diritti umani denunciano sin da dicembre l’uso non necessario e sproporzionato della forza contro la popolazione civile, nel tentativo di forzare i blocchi stradali dei manifestanti e proteggere strutture strategiche come gli aeroporti.

Figure 3: M.Mejia, AP/La presse

I manifestanti chiedono la rinuncia di Boluarte e la convocazione di nuove elezioni generali il più presto possibile. Il centro della protesta sono le regioni meridionali di Ayacucho, Apurimac, Arequipa, Cusco, Puno e Tacna. Regioni dove si registra una volontà di cambiare la situazione socio-economica attuale e una forte insofferenza per il sistema centralistico di Lima. Non a caso queste regioni corrispondono alle aree che hanno votato in massa per Castillo, un maestro di un’area rurale andina, con il quale potersi identificare.


Storicamente in Peru le opposizioni più dure al centralismo di Lima, e alla élite metropolitana sono sempre venute dalle regioni meridionali. Esempi recenti sono le proteste del 2002 in Arequipa contro la privatizzazione di due imprese pubbliche dell’energia da parte del presidente Alejandro Toledo, chiamate l’“Arequipazo” e le proteste della popolazione aymara nel 2011 contro le concessioni minerarie del governo di Alan Garcia a imprese canadesi, chiamate l’“Aymarazo”. Tra i manifestanti di Puno quest’anno si è lanciata addirittura l’idea di creare una repubblica indipendente nel sud del Perù.

Regioni, Peru
Figure 4: Le regioni con proteste in gennaio, ISPI

Solo tra luglio 2021 e dicembre 2022 si sono registrate 1624 proteste nelle regioni meridionali. Già molto tempo prima del tentativo di golpe quindi si registrava un forte malcontento e una crisi politica era già in atto. Secondo sondaggi nazionali, nell’arco del mandato si è passati da un 56% a un 86% di tasso di disapprovazione dei cittadini per il Congresso, cifra che riferita alla gestione Castillo è passata dal 32 al 52%.


4. Le questioni irrisolte scoppiano nelle proteste


Le regioni meridionali, protagoniste dell’ondata di proteste e manifestazioni, sono tra le regioni più povere del Paese. Aree che soffrono carenze infrastrutturali a livello di opere pubbliche, scuole, ospedali, ecc. Si tratta di aree prevalentemente rurali, con una forte presenza di popolazioni quechua e aymara, con una propria forte identità e cultura andina, storicamente escluse e vittime di razzismo.


Sono regioni i cui abitanti vedono Lima e il governo centrale come lontani e disinteressati alla loro sorte. Allo stesso tempo, però, compagnie straniere sfruttano le ampie ricchezze minerarie, concentrate proprio in questa parte del Paese, senza migliorarne le condizioni di vita e le opportunità, ma traendo i ricchi guadagni altrove. Il lavoro informale, come la vendita di alimenti e/o oggetti per strada, è comune in tutto il Paese, ma ancora più diffusa nel Sud, dove viene affiancata anche dall’estrazione mineraria artigianale o appunto informale, senza protezioni né tutele.


Il malcontento è forte non solo per il potere centrale, ma anche le autorità regionali, che si caratterizzano generalmente per mala gestione, corruzione, fondi non spesi per mancanza di figure professionali necessarie e/o inazione.

Figure 4: Le regioni con proteste in gennaio, ISPI

5. Repressioni poliziesche nelle piazze, terruqueo sui media


Le forze dell’ordine hanno commesso attacchi indiscriminati contro i manifestanti. Dopo i 17 morti in un solo giorno, negli scontri tra protestanti e forze dell’ordine a Juliaca, Puno, il procuratore generale di Stato ha annunciato l’inizio di un’indagine preliminare contro la presidente Dina Boluarte, il primo ministro, il ministro dell’interno e il ministro della difesa per delitti di genocidio, omicidio colposo e lesioni gravi. A Lima migliaia di persone hanno protestato contro il nuovo governo urlando “Dina asesina!”. Ha suscitato moltissima indignazione l’irruzione di un ‘utoblindo della polizia all’interno dell’Università Nazionale di San Marcos, a Lima, con l’arresto di quasi 200 persone. Si trattava di manifestanti, sia studenti sia adulti venuti da altre aree del Paese che dormivano dal 18 gennaio nell’edificio per partecipare alle mobilitazioni. La maggioranza degli arrestati ha tra i 23 e i 30 anni. Finora la polizia non ha permesso né alla Defensoría del Pueblo né ad altri legali di entrare e fare chiarezza sui fatti.


Boluarte sostiene che queste manifestazioni non siano spontanee ma siano orchestrate. Il discorso dominante sui media nazionali è che le manifestazioni sono il risultato di uno sforzo congiunto di forze esterne, di volta in volta identificati con narcotrafficanti, terroristi e cittadini boliviani infiltrati. Secondo questa narrativa le persone che protestano, lo fanno perché costretti da rappresentanti locali di queste forze.


Dagli anni ’80, ovvero dal conflitto interno tra Stato e Sendero Luminoso, una parte della popolazione soprattutto urbana e della costa attiva meccanismi mentali di false corrispondenze tra peruviani del sud e terroristi, o con persone di sinistra e terroristi, con pregiudizi duri a morire. Si tratta della pratica del “terruqueo”, ovvero attribuire agli avversari politici di sinistra, o in questo caso ai manifestanti, connotazioni da terrorista, con quello che ne consegue in termini di stigmatizzazione e strumentalizzazione della giustizia. Si minaccia di processare per atti di terrorismo i protestanti, per spingere verso la paura e l’autocensura dei cittadini e si fa ampio ricorso alle parole “criminale” e “terrorista” nel riportare le notizie di attualità relative alla protesta.

Figure 6: Lucho Rossell

In Perù il crimine di attività terroristica è definito penalmente in una accezione così ampia da poter coprire perfino la partecipazione a una marcia, la raccolta di denaro per sostenere le spese sanitarie per i manifestanti feriti o la realizzazione di discussioni pubbliche. Indagare un manifestante per terrorismo significa limitarne i diritti e le garanzie processuali, ad esempio un fermo che normalmente ha durata massimo di 72 ore con accusa di terrorismo può arrivare anche a 15 giorni.


Le organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani ovviamente condannano questo discorso abusivo ed esprimono la necessità e l’urgenza di indagare seriamente le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla polizia, ricorrendo a periti esterni, non degli stessi corpi armati e svincolare i reati contro la proprietà privata avvenuti durante le proteste dalle indagini delle procure antiterrorismo, ricorrendo a esperti in diritti umani per le indagini.

Figure 7: Virgen de la sanguinaria. Alvaro Portalez

6. Conclusioni


Le proteste vengono da una richiesta e una necessità di rappresentazione di un’ampia area del Paese, una vera e propria “questione meridionale peruviana” che non ha trovato posto finora nel discorso politico nazionale, al di fuori delle promesse elettorali di Castillo.


La repressione poliziesca delle proteste, con il sostegno dell’attuale governo, che ha dichiarato “immacolata” la condotta delle forze armate, dimostra ancora una volta la persistenza di un razzismo strutturale, in cui per molti la vita di un cittadino del sud del Paese non è comparabile con quella di un cittadino della capitale.


C’è una disaffezione diffusa e generale verso l’intera classe politica peruviana. I congressisti sono visti come latori solo di interessi personali e l’ex presidente Castillo l’ennesima delusione dopo le speranze di un cambio rigenerante nella politica peruviana. Per questo il rifiuto è totale e la richiesta è fare tabula rasa con elezioni generali d’emergenza il più presto possibile. Le proteste sono la prova di una distanza incolmabile tra la classe politica e i cittadini, tra l’élite della capitale, più meticcia e più bianca e i cittadini delle aree rurali.


L’unica opzione per fermare le proteste sembra la convocazione delle elezioni anticipate nel corso di quest’anno, mediante un voto del Congresso. Di sicuro un elemento che esaspera i manifestanti è la quasi assoluta mancanza di empatia della presidente e del suo governo per chi si sta mobilitando e per le vittime della repressione. Il governo infatti ha più volte difeso a spada tratta le forze armate e ribadito che i manifestanti sono una minoranza, che non rappresenta l’intero Perù.


Dato che Boluarte non ha rinunciato al suo incarico a dicembre, all’inizio delle proteste, e con le prime vittime, sembra poco probabile che lo faccia nelle settimane a venire, ma si auspica almeno un doveroso cambio nell’atteggiamento e nella comunicazione officiale.

Figure 8: Lima a dicembre, persone che si nascondono dalla polizia, , S. Castaneda, Routers.

Si prospetta una situazione di crisi prolungata, con ondate di proteste più o meno regolari nel corso delle prossime settimane e forse mesi. L’esecutivo conta sulla stanchezza dei manifestanti, ma l’indignazione per il trattamento riservato a chi protesta e al numero di morti in aumento, è finora il motore delle nuove delegazioni che in questi giorni stanno continuando a raggiungere Lima per sopportare la mobilitazione nazionale.


La speranza è che la destra conservatrice che ha la maggioranza al Congresso, accetti infine la richiesta di elezioni anticipate da parte della cittadinanza, anche perché il governo attuale che è costituzionalmente regolare, non gode affatto di quel sostegno minimo da parte del Paese che è necessario per un governo transitorio. Non accettare l’anticipo delle elezioni significa congelare il Paese ancora una volta in una situazione di stallo, dovuta al prevalere degli interessi dei singoli parlamentari, e la vittoria del razzismo e del classismo di Stato, senza affrontare le radici profonde del malcontento di una parte importante del Paese.


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Note

[1] Rifugio politico concesso alla moglie e ai figli minorenni di Castillo, che hanno raggiunto il Messico insieme all’espulso ambasciatore messicano in Perù Pablo Monroy Conesa. [2] Alberto Fujimori, eletto democraticamente nel 1990, attuò un autogolpe due anni dopo rimanendo al potere fino al 17 novembre del 2000. È stato condannato a 25 anni di carcere per crimini contro l’umanità.


Bibliografia/Sitografia






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