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Terrorismo di Stato e Settarismo: il caso degli Houthi

Aggiornamento: 3 ago 2022

Figura 1: Sostenitori del Movimento Houthi portano un finto razzo durante una manifestazione nella capitale Sana in denuncia di un attacco aereo compiuto dalla Coalizione a guida saudita – 21 gennaio 2022 (credit: Mohammed Huwais /AFP)

1. Introduzione


Date le complesse sovrapposizioni dei livelli interni, regionali e internazionali che caratterizzano l’area MENA è necessario ricorrere ad approcci teorici congiunti delle relazioni internazionali – realismo, costruttivismo, Foreign Policy Analysis – per poter analizzare i conflitti tuttora in corso [1]. All’interno di questa complessità si inseriscono i fenomeni di insorgenza armata, terrorismo e irredentismo che contraddistinguono specialmente i c.d. stati falliti; concetto spesso impiegato dai decisori per giustificare i loro interventi militari e difendere le loro ambizioni geopolitiche in stati terzi.


Negli ultimi anni, Iran e Arabia Saudita hanno sempre più strumentalizzato la categoria del “terrorista’’ per difendere i loro interessi geostrategici e controbilanciare l’influenza dei loro rispettivi rivali in diversi scenari di conflitto medio-orientali. A tal proposito, la guerra in Yemen richiama la nostra attenzione, in quanto ha molto da dirci su come tale etichetta possa essere strumentalizzata da attori di differente natura – forze locali, autorità statali, gruppi armati ecc. – per legittimare le proprie rivendicazioni politiche e massimizzare gli interessi economici.


Alla luce di tali premesse, questa analisi ha come obiettivo quello di analizzare il concetto di terrorismo di stato e di settarismo in relazione al Movimento degli Houthi in Yemen. A tale scopo, dopo una breve introduzione di tipo teorico-metodologico, viene offerta una contestualizzazione storico-politica del conflitto in Yemen, per poi passare ad un’analisi sull’identità del Movimento degli Houthi e sul loro rapporto con Teheran all’interno del più ampio contesto della cosiddetta Nuova Guerra Fredda Araba.


2. Precisazioni teorico-metodologiche


Gli studiosi delle relazioni internazionali sottolineano spesso come l’area MENA sia un mosaico di stati territoriali piuttosto che di stati-nazionali, in cui la sovranità e l’unità statale sono talvolta contestate da attori sub-statali e trans-statali. Secondo questo punto di vista, la debole legittimità interna che caratterizza la maggior parte dei paesi dell’area (a cui talvolta ci si riferisce come i c.d. stati arabi falliti), è sintomatico della debolezza endemica che caratterizza il potere statale in quest’area. Hinnebush spiega tale situazione sulla base del fatto che ‘l’imperialismo occidentale’, attraverso la delimitazione arbitraria dei confini territoriali nell’area MENA realizzata all’indomani della Prima guerra mondiale, ha causato un’incongruenza incolmabile tra identità nazionale e territorio statale in gran parte degli stati della regione; il che giustifica la forte presenza di forze irredentiste e fenomeni di insorgenza armata al livello locale e regionale [1].


Una serie di fattori di carattere storico – l’invasione statunitense dell’Iraq, la Rivoluzione Iraniana e la c.d. Primavera Araba – hanno contribuito alla polarizzazione della macroregione medio-orientale tra forze tradizionali e riformiste. In conseguenza di ciò, i conflitti locali si sono regionalizzati sulla base dei contesti specifici, legati alle identità etnico-confessionali delle varie aree. Questo insieme di elementi ha favorito negli ultimi due decenni la mobilitazione politica, militare e ideologica delle due comunità confessionali principali dell’Islam, Sunna e Shia, e la loro strumentalizzazione politica da parte di attori di differente natura.


Quando i membri di una data comunità sentono minacciata la loro esistenza in quanto gruppo, tendono a ripiegare sul fattore identitario per difendere la loro sopravvivenza e legittimare le loro rivendicazioni politiche. Tuttavia, alla luce del fatto che la rilevanza politica e sociale delle identità primarie è in costante cambiamento, è evidente che le divisioni etnico-confessionali non devono essere viste come un elemento ontologico e strutturante della regione o dell’Islam stesso, bensì come un fattore che, in specifiche congiunture storico-politiche, se politicizzato, può contribuire a fomentare le instabilità interne dei singoli paesi.


3. Il contesto yemenita: un conflitto in uno Stato fallito


Dalla seconda metà del XX secolo i movimenti insurrezionali e irredentisti yemeniti, già da tempo attivi sul territorio, hanno trovato la loro guida in Hussein Badreddin al-Houthi, membro del Parlamento tra il 1993 e il 1997. Negli anni Novanta, egli godeva di un ampio sostegno da parte delle comunità residenti nelle regioni montuose dello Yemen settentrionale, sottoposte a discriminazioni sistematiche da parte del governo filo-saudita di Ali Abd Allah Saleh al potere dal 1978 al 2012. Quest’ultimo, a sua volta, accusava le tribù del Nord di voler rovesciare il governo centrale per instaurare un emirato di stampo sciita [3].


A partire dall’assassinio di al-Houthi, ordinato nel 2004 dalle autorità statali yemenite, i ribelli del Nord hanno condotto diverse campagne militari tese alla conquista della capitale Sana’a. Nel corso degli anni, il loro malcontento è sempre più cresciuto in ragione dell’insufficiente rappresentanza politica loro concessa da parte dello Stato. In seguito, approfittando dell’instabile contesto interno e regionale – scoppio della Primavera araba, rafforzarsi del ramo yemenita di Al-Qaeda –, i ribelli Houthi sono riusciti ad occupare Sana’a nel luglio 2014, hanno sciolto il Parlamento e spinto il presidente Hadi alla fuga.

Figura 2: Credit: Al-Jazeera

A partire dall’inizio della c.d. War on Terror, il concetto di Stato fallito è stato spesso impiegato in Occidente dai decisori politici per giustificare politiche di ingerenza in ambito militare e della sicurezza negli Stati considerati istituzionalmente più deboli. Nel 2014, secondo questo punto di vista, lo Yemen appariva come uno Stato fallito a tutti gli effetti: un rifugio sicuro per il terrorismo, in particolare per al-Qa’ida nella Penisola Araba (AQAP), in cui un gruppo ribelle sciita, gli Houthi, minacciava l’esistenza dello Stato stesso. Tali contingenze, pertanto, hanno giustificato l’intervento militare dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti nel 2015, finalizzato al ristabilimento dell’ordine e al rafforzamento delle istituzioni statali. Tuttavia, questa chiave di lettura non basta per comprendere la natura e le dinamiche del conflitto tuttora in corso.


Diversi studiosi sottolineano come la situazione in Yemen non sia una mera guerra civile tra il governo centrale e i ribelli Houthi, in quanto si inserisce nel più ampio contesto della c.d. Nuova Guerra Fredda Araba (New Middle East Cold) [4]. Si parla di Guerra Fredda poiché i due poli, Iran e Arabia Saudita in questo caso, sono coinvolti in una lotta per l'egemonia regionale in Medio Oriente che si svolge nei sistemi politici interni degli Stati più deboli – come Libano, Siria, Yemen – piuttosto che sotto forma di confronto militare diretto. Nel caso dello Yemen, Teheran sostiene il Movimento Houthi mentre l’Arabia Saudita il governo centrale, ognuno con i suoi alleati e i suoi interessi geostrategici specifici.


4. Il Movimento Houthi: un’identità in continua evoluzione


Gli Houthi fanno parte di un gruppo di confessione sciita proveniente dalle regioni a nord dello Yemen dove si professa lo Zaydismo. Ad oggi, le comunità zaydite si trovano in numero significativo solo nello Yemen settentrionale, dove un Imamato di stampo sciita aveva governato per circa mille anni fino ad essere deposto nel 1962 per fare spazio alla neonata Repubblica Araba Yemenita. In seguito a tale evento, in Yemen si è assistito ad un progressivo aumento dell’infiltrazione wahhabita, una dottrina sunnita radicale nata in Arabia Saudita sotto la spinta della famiglia Saud. In risposta, le comunità Houthi hanno ripiegato sempre più sulla religione; sia perché lo Zaydismo consentiva ai ribelli di consolidare l’identità del Movimento sia perché la diffusione del wahhabismo minacciava la loro esistenza in quanto comunità. Questo perché tale corrente rigorista critica fortemente tutti coloro che si allontanano dalla tradizione, ossia la Sunna, giudicandoli come miscredenti.


Il carattere militante del Movimento Houthi è emerso con maggiore evidenza con la salita al potere del presidente Ali Abdullah Saleh, il quale si faceva promotore della nuova alleanza Sanaa-Washington, considerata dai ribelli del nord un focolaio di corruzione e una svendita dei principi yemeniti. D’altra parte, gli Houthi venivano visti dalle autorità statali come una forte minaccia alla sicurezza dello Stato per la loro vicinanza ideologico-religiosa a Teheran.


Con l’evolversi della guerra civile in Yemen, i rapporti tra il Movimento Houthi e Teheran sono diventanti sempre più forti. I ribelli, infatti, condividono con l’Iran post-rivoluzionario gli stessi speech acts per la creazione della minaccia regionale, identificata con Israele e con gli USA, accusati entrambi di cospirare per l’instabilità del Medio Oriente. Ciò è evidente nel motto adottato dal Movimento Houthi nel 2003, il quale recita: “Dio è Sommo, morte all'America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria per l'Islam’’.

Figura 3: Motto adottato dagli Houthi nel 2003

Dal 2014 in poi, gli Houthi hanno approfittato del debole contesto interno e regionale per avanzare i propri obiettivi politici e presentarsi come garanti della stabilità e dell’ordine in Yemen, sostituendosi così al debole governo centrale. A questo riguardo, sono significative le parole pronunciate da un beduino in un’intervista realizzata da International Crisis Group nel 2014: “Huthis provide security where none existed before. They work honestly with the people [...] In the north of Yemen, the most important thing is to solve problems between people, like revenge killings, and to provide security. These are the two things that people want most and the Huthis are providing it[5]. Tale dichiarazione è riprova del fatto che i ribelli Houthi, ad oggi, si mostrano agli occhi della popolazione yemenita come un attore più capace e credibile delle autorità statali nel gestire il paese e risolvere le controversie interne.


Con l’evolversi della guerra civile yemenita, gli Houthi hanno sviluppato una identità sempre inclusiva e nazionalista, meno vincolata all’aspetto religioso. Basti pensare che la denominazione del gruppo, modificata nel 2014 in Ansar Allah (i partigiani di Dio), racchiude in sé diverse correnti, talvolta anche in contrasto. La condanna alla corruzione, l’importanza della stirpe profetica e dell’unità musulmana coesistono, infatti, con il forte rispetto per i valori che guidano la teocrazia iraniana e il suo messaggio rivoluzionario universale.


5. Il ruolo di Teheran nel conflitto yemenita


I rapporti tra la Repubblica Islamica e gli Houthi hanno iniziato a consolidarsi negli anni Novanta, ma è solo a partire dalle campagne militari condotte dal governo di Saleh contro gli Houthi (2004-2011) che ha iniziato a diffondersi la retorica secondo cui l’attuale movimento Ansar Allah fosse parte della strategia iraniana dell’Asse di Resistenza [6]. Il governo yemenita ha da sempre accusato l’Iran di supportare, soprattutto militarmente, i ribelli Houthi. Lo stesso hanno fatto l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, i quali hanno regolarmente etichettato gli Houthi come proxy iraniani. Questo punto di vista accredita un’interpretazione del conflitto yemenita come parte della c.d. Nuova Guerra Fredda Araba, la quale vede forze pro-status-quo, l’Arabia Saudita e le monarchie petrolifere, contrapporsi alla Repubblica Islamica e i suoi partner, statali e no, in diversi scenari di conflitto medio-orientali.


Nel 2017 un alto ufficiale iraniano ha comunicato a Reuters che un centinaio di militari, appartenenti alla Forza Quds, una unità di forza speciale del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, erano in Yemen per addestrare gli Houthi e decine di consiglieri militari. Inoltre, secondo lo stesso ufficiale, circa un centinaio di membri del Movimento Houthi si sono recati lo stesso anno in Iran per ricevere addestramento da parte delle Guardie della Rivoluzione [9]. Inoltre, secondo un report pubblicato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel gennaio del 2019, l’Iran ha fornito mensilmente ai ribelli Houthi carburante dal valore di 30 milioni di dollari [8].


Nonostante Teheran abbia più volte negato il suo coinvolgimento nel conflitto yemenita, ci sarebbero prove circa l’addestramento militare che questa ultima ha fornito ai ribelli Houthi, anche se le autorità statali yemenite non sono mai state in grado di fornire prove al riguardo. Dal suo canto l’Ayatollah Khamenei, il Capo Supremo della Repubblica Islamica, ha più volte giustificato le interferenze di Teheran in Yemen, come in altri contesti medio-orientali, in questi termini “this influence is given to us by God” [10]. La Repubblica Islamica, di fatto, legittima il suo intervento in Stati terzi sulla base dall’articolo 154 della Costituzione il quale giustifica le sue azioni politiche e i suoi interventi militari in difesa dei popoli oppressi del mondo in tali termini “The Islamic Republic of Iran supports the just struggles of the mustad’afun against the mustakbirun in every corner of the globe”.

Figura 4: Il leader supremo iraniano, l'Ayatollah Ali Khamenei (a destra), incontra Mohammed Abdul-Salam (a sinistra), portavoce dei ribelli Houthi a Teheran, il 13 agosto 2019 a Teheran (credit: AFP)

6. Geopolitica, settarismo e antiterrorismo


Il governo centrale yemenita ha sempre sostenuto che gli Houthi, sia sulle base delle credenze religiose sia per il supporto logistico e finanziario ricevuto da Teheran, sia un gruppo terroristico che minaccia la sicurezza e l’unita dello Yemen. Dello stesso avviso sono i membri della Coalizione a guida Saudita, tra cui Abu Dhabi e Washington, i quali dal 2015 bombardano le postazioni degli Houthi presenti in Yemen. D’altra parte, i ribelli del nord ritengono di agire in nome dell’intero popolo yemenita e inquadrano la loro espansione al di fuori di Sana’a, tuttora in corso, come una campagna antiterrorismo contro il governo centrale e i suoi alleati regionali.


I disordini contemporanei in Yemen sono il prodotto di una complessa rete di conflitti radicati nella storia del paese, esacerbati da programmi e strategie locali, regionali e internazionali tra di loro in conflitto. In questo difficile contesto, l’“antiterrorismo” rimane una comoda giustificazione per tutte le parti coinvolte per legittimare le loro azioni e rivendicazioni, come dimostrano le dichiarazioni riportate da ambo le fazioni. Le reali intenzioni di Teheran in Yemen sono riprova di ciò. Infatti, nonostante quest’ultima si trovi in una posizione geostrategica nel Mar Rosso utile per contrastare la potenza saudita, gli interessi della Repubblica Islamica sono limitati in Yemen rispetto ad altre aree mediorientali, come ad esempio la Siria e il Libano, nonostante la forte vicinanza ideologica del Movimento Houthi ai valori della Repubblica Islamica.


Da un punto di vista prettamente geopolitico, il supporto fornito da Teheran ai ribelli Houthi, piuttosto che un mezzo per raggiungere un’influenza a breve termine in Yemen, risponde a una strategia ben precisa: aprire canali di comunicazione proficui nel Mar Rosso e costruire relazioni più solide con le comunità locali in funzione di contrasto all’egemonia saudita e dei suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Gli Houthi non costituiscono una priorità della politica estera iraniana in quanto rappresentano un movimento sorto per questioni inerenti alla politica interna yemenita, sebbene abbiano istituito sin dalla loro nascita una forte co-dipendenza ideologica con Teheran.

7. Conclusione


Il termine terrorismo, di cui ad oggi manca una definizione univoca secondo il diritto internazionale, si riferisce solitamente alle azioni di gruppi di insorgenza armata che minacciano civili, obiettivi stranieri e/o governi. Alcuni studiosi hanno esteso questa definizione parlando di terrorismo di Stato nel caso in cui sia quest’ultimo a compiere atti di violenza contro i target sopra menzionati o supporti, apertamente o meno, le azioni di un’organizzazione terroristica. D’altra parte, i governi possono essere in disaccordo nel definire un gruppo o un’organizzazione come un’entità terroristica in quanto, sulla base della vicinanza ideologico-confessionale o per ragioni di politica estera, questi possono offrire sostegno logistico-finanziario a individui classificati da altri decisori politici come terroristi sulla base di rivalità geopolitiche o differenti percezioni della minaccia.


Il caso del Movimento Houthi in Yemen dimostra che la categoria del ‘terrorista’ sia uno strumento che può essere impiegato da attori di diversa natura – statali e non – per legittimare le loro agende politiche, demonizzare i propri rivali e difendere i loro interessi geostrategici in un contesto di forte sovrapposizione tra i livelli interni, regionali e internazionali in cui la mobilitazione delle identità primarie, settarie o di altra natura, è uno strumento al servizio della geopolitica.


La vicinanza ideologico-religiosa esistente tra il Movimento Houthi e la Repubblica Islamica dell’Iran, baluardo degli sciiti nel mondo, pertanto, da sola non è sufficiente per comprendere le complesse dinamiche del conflitto yemenita, l’evoluzione che il Movimento Houthi ha avuto nel corso degli anni e la natura delle sue rivendicazioni storico-politiche, le quali si ascrivono alle specificità del contesto interno yemenita e, allo stesso tempo, sono parte della c.d. Nuova Guerra Fredda Araba.


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Bibliografia


[1] Hinnebusch R., The international politics of the Middle East, Manchester University Press, 2015 [2] Bassel F. Salloukh, Overlapping Contests and Middle East International Relations: The Return of the Weak Arab State, Political Science and Politics, 50(03), 2017, pp.660-663 [3] https://borgenproject.org/tag/poverty-in-yemen [4] Lo zaidismo (Zaydiyyah) è una scuola di pensiero all'interno dell'Islam sciita la quale prende il nome dall' Imam Zaydi Bin Ali [5] Maria-Louise Clausen, Understanding the Crisis in Yemen: Evaluating Competing Narratives, The EU’s Wider Neighbourhood in Turmoil, 50(03), 2015, pp.16-29 [6] Intervista fatta da Crisis Group a un membro di una tribù di Jawf, Sanaa, febbraio 2014 https://arabcenterdc.org/resource/a-timeline-of-the-yemen-crisis-from-the-1990s-to-the-present/ [7] riguardo qusto tema vd. https://www.amistades.info/post/agency-dei-proxy-iraniani-nelle-citta-sante-irachene [8] ibidem [9] ‘’Iran Providing Yemen with Advisory Assistance: IRGC Commander”, Tasnim News Agency, 2017 [10] Thomas Juneau, Iran's policy towards the Houthis in Yemen: a limited return on a modest investment, International Affairs (Royal Institute of International Affairs 1944-) Vol. 92, No. 3 [11] http://english.khamenei.ir/news/4280/Iran-s-influence-in-Yemen-is-God-given

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