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Quale identità per l’Europa sud-orientale?

Aggiornamento: 14 dic 2020

La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha causato la presenza di 25 milioni di russi etnici[1] e 36 milioni di russofoni[2] fuori dai confini della neonata Federazione Russa. Questi rappresentano tanto un elemento di instabilità per Paesi post-sovietici quanto una formidabile leva di influenza politica per Mosca. Se in precedenza abbiamo studiato il successo dell’integrazione euro-atlantica dei Paesi baltici, l’attenzione sarà ora rivolta all’Europa sud-orientale, regione che ha invece vissuto una storia di senso diametralmente opposto. Ucraina, Moldavia e Bielorussia sono infatti tra i Paesi che, anche a causa di inefficaci politiche di derussificazione e nation-building, hanno più sofferto l’eredità del loro passato sovietico[3].


Con la crescente ingerenza nella politica dei Paesi del suo vicinato, il Cremlino risponde alla necessità di invertire la tendenza che ha visto gli Stati post-sovietici emanciparsi dai loro legami con Mosca. Nella regione, la Russia post-sovietica ha cercato di ristabilire rapporti di forza che ne sancissero l’influenza politica sul proprio vicinato. È da questo potere che deriva infatti il riconoscimento come grande potenza globale, status che Mosca ha perso con la dissoluzione dell’Unione Sovietica[4]. Il recente passato e l’ingerenza russa rendono evidenti le difficoltà del Cremlino di trovare un equilibrio nella tutela degli interessi dei propri connazionali senza sollevare lo spettro di una restaurazione imperiale[5]. La paura che le popolazioni russe venissero usate come leva per rompere l’equilibrio geopolitico nello spazio post-sovietico hanno trovato definitiva manifestazione nelle escalation militari in Georgia e Ucraina, Paesi che hanno sofferto de facto ingenti perdite territoriali a vantaggio di Mosca[6].

Data per scontata l’impossibilità di difendere il proprio territorio con la forza militare per via dello strapotere russo, ciascuna delle repubbliche post-sovietiche ha cercato la propria indipendenza attraverso la creazione o modifica della narrazione della propria storia nazionale. A complicare questo processo, l’eredità sovietica ha lasciato ai nuovi Stati confini spesso irrispettosi delle demarcazioni etniche e culturali esistenti, spesso anche difficilmente identificabili vista la precedente appartenenza a un unico Stato. Per contrastare tale situazione, oltre che per emanciparsi dal passato russocentrico, i Paesi post-sovietici hanno adottato politiche di nation-building, che nei casi di Ucraina, Bielorussia e Moldavia scopriremo essere estremamente eterogenei.


Questa regione è oggi la polveriera europea, interessata dai conflitti in Ucraina, dalla difficile coesistenza tra Moldavia e Transnistria e dall’isolamento della Bielorussia. La crescente ingerenza russa e l’assenza di forti fattori di deterrenza (come l’appartenenza alla NATO) rendono il futuro di questi Paesi quanto mai conteso e incerto. Il presente contributo mira quindi a continuare la panoramica sulle principali dinamiche culturali e politiche che influenzano le relazioni internazionali dello spazio post-sovietico, concentrandoci questa volta sui Paesi dell’Europa sud-orientale.


1. Cenni storici


Contrariamente a quanto visto per i Paesi Baltici, la Russia condivide con Bielorussia e Ucraina una lunga storia comune. Nel corso del IX secolo, successivamente alla migrazione dalla Scandinavia verso la regione del fiume Dnepr, alcune tribù nordiche formarono la federazione dei Rus’ di Kiev, che raggiunse il suo apice due secoli più tardi, estendendosi dal mar Baltico al mar Nero e dalla Vistola fino a giungere quasi al Caucaso. Dopo due secoli di declino economico e militare, il colpo di grazia fu inferto nel XIII secolo dall’invasione mongola[7]. Da quel momento, il centro della storia russa divenne la Moscovia, tributaria dell’Orda d’Oro fino al 1480, che si rese protagonista di un’inarrestabile espansione territoriale. Dopo il completamento dell’“unione delle terre russe” ad opera di Ivan III, suo nipote, Ivan IV, detto “il Terribile”, si fece incoronare Zar di tutte le Russie nel 1547[8] ed estese i propri domini verso il fiume Dnepr, laddove l’idea stessa di “russo” aveva avuto origine.


Con la vittoria della guerra russo-polacca del 1654-1667, i Grandi Russi iniziarono la loro espansione verso i Russi Bianchi (bielorussi) e i Piccoli Russi (ucraini), conquistando i territori della riva sinistra del Dnepr, Kiev compresa[9]. Tale conflitto, scoppiato a causa del tentativo polacco di annettere i territori cosacchi, vide questi ultimi accolti sotto la protezione di Mosca con il trattato di Perejaslav (1654), il cui trecentesimo anniversario divenne la ragione della cessione della Crimea alla repubblica federativa ucraina[10]. L’ulteriore avanzata della Russia, nel frattempo divenuta Impero, avvenne con il completamento delle spartizioni della Confederazione polacco-lituana nel corso del XVIII secolo, che garantì a Mosca la conquista dell’odierna Bielorussia e di alcuni territori sulla sponda destra del Dnepr[11]. Sotto l’impero di Caterina II la Grande (1762-1796), le vittorie sugli ottomani permisero il graduale controllo della Novorossiya, regione storica comprendente la Crimea e l’Ucraina meridionale. Nel 1812 seguì il controllo della Bessarabia, strappata anch’essa alla Sublime Porta di Istanbul, che portò anche l’odierna Moldavia sotto il dominio di Mosca. Il movimento intensivo di coloni russi in direzione dei territori conquistati tra il XVIII e il XIX secolo causò una sensibile variazione etnica della regione[12].


A seguito delle guerre napoleoniche, l’Impero russo ottenne anche la Polonia che perse, un secolo più tardi, insieme a Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Bessarabia a causa della pace di Brest-Litovsk. I confini tracciati da tale trattato e i disordini interni alla Russia, giustificarono le pretese indipendentiste delle Repubbliche Popolari di Bielorussia[13] e Ucraina[14], la cui storia fu però breve, in quanto immediatamente riconquistate dall’Armata Rossa e federate nell’Unione Sovietica. Oltre alla riannessione dei Paesi baltici, il patto Molotov-Ribbentrop garantì all’Unione Sovietica i territori dell’attuale Bielorussia occidentale (dalla Polonia), la Transcarpazia (dalla Cecoslovacchia), la Bucovina e la Bessarabia (dalla Romania). Infine, la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato alla situazione odierna, con Ucraina, Bielorussia e Moldavia indipendenti, ma con la regione che rappresenta un focolaio di tensioni a causa dei conflitti in Transnistria, Crimea e nel Donbass.


2. Evoluzione demografica e russificazione


L’eredità lasciata ai tre Stati della regione dal dominio russo-sovietico risulta essere eterogenea. In Bielorussia, infatti, la discrepanza tra composizione etnica e linguistica fa del Paese un caso unico. Infatti, a fronte della presenza estremamente ridotta di russi etnici nel Paese (8% della popolazione totale[15]; figura 3), la penetrazione linguistico-culturale russa è stata senza precedenti (figura 1). La popolazione russofona, infatti, è largamente maggioritaria a livello nazionale, tanto da rappresentare il 62% di quella totale[16] e da garantire al russo, insieme al bielorusso, lo status di lingua ufficiale del Paese. In Ucraina, invece, a seguito della russificazione, i russi etnici sono presenti nell’area sud-orientale del Paese (figura 2), specialmente nelle oblasti (“regioni”) separatiste di Luhans’k e Donec’k che, insieme alla Crimea, hanno subìto le conseguenze delle tensioni etniche e culturali con la Russia. Infatti, secondo l’ultimo censimento ucraino (2001), la popolazione russa etnica del Donbass si attesta al 39% di quella totale[17] (figura 8). In Crimea, la cui composizione etnica è stata completamente stravolta dalle politiche di colonizzazione e deportazione sovietiche[18], il censimento russo del 2014, ha mostrato una presenza di russi etnici pari al 65% della popolazione totale (contro il 58% di quello ucraino del 2001; figura 9)[19].

In relazione alla Moldavia, invece, i suoi confini sono figli delle decisioni sovietiche che, per ragioni di equilibrio etnico, nel 1940 decretarono la divisione della Bessarabia rumena tra la repubblica federativa ucraina e la neonata repubblica federativa moldava. A questa venne anche accorpato un lembo di terra sulla sponda opposta del fiume Dnestr, nel quale si concentravano ucraini e alcune minoranze russe[20] e che sarà all’origine dei maggiori problemi della Moldavia indipendente. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e la proclamazione di indipendenza della Transnistria furono alla base dello scoppio di un conflitto che, nel 1992, sancì l’indipendenza de facto della regione. Pur non riconoscendola, la Russia spinge per garantire uno status speciale alla regione, nell’interesse di mantenere le proprie truppe nell’area[21], come avveniva con Sebastopoli prima dell’annessione della Crimea. La storia recente della Transnistria ha favorito la crescita della popolazione russa e la riduzione di quella moldava (figura 10), con i russi etnici che si concentrano nel sud della regione, fino a raggiungere il 42% della popolazione totale della “capitale” Tiraspol[22] (figura 2). A seguito del travolgente successo in Crimea e dello scoppio delle rivolte filorusse nell’Ucraina orientale, il sogno di ricongiungere i Grandi Russi con quelli della Crimea e della Transnistria parve realizzabile[23]. Fu così che Putin, nella sua annuale sessione di domande con i giornalisti del 2014, dette legittimità alla causa della Novorossiya [24], senza però ottenere il risultato sperato. Dopo un referendum che nel 2006 ha mostrato oltre il 90% di voti favorevoli, nel 2016 Tiraspol è tornata a chiedere l’annessione alla Russia attraverso una dichiarazione, poi rimossa, pubblicata sul sito ufficiale della Presidenza della Transnistria[25].









3. La continuità del Nation-building bielorusso


A differenza dei Paesi baltici, Bielorussia, Ucraina e Moldavia non ebbero dei confini internazionalmente riconosciuti prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nonostante le demarcazioni territoriali attuali siano figlie delle decisioni di Mosca, gli Stati post-sovietici hanno dato maggiore importanza alla loro storia prezarista e presovietica nella costruzione delle nuove narrative nazionali. Infatti, in quanto Stati postcoloniali, essi hanno vissuto un lungo periodo di transizione politica, sociale ed economica con l’obiettivo di consolidarsi come entità indipendenti e di emanciparsi dalla ex-metropoli. Questa politica ha eroso la narrativa sovietica che, per settant’anni, ha insegnato ai popoli non russi a desiderare l’unione con il “fratello maggiore” russo[26].

In Bielorussia, ad esempio, prima dell’avvento di Aljaksandr Lukašenka nel 1994, si era timidamente intrapreso un percorso di costruzione nazionale, presentando la Russia come un secolare oppressore dal quale ci si era finalmente liberati. Non è un caso che, al pari dei Paesi baltici, anche le autorità bielorusse avessero iniziato a mettere in mostra i legami storici della propria nazione con l’Europa centrale. Ad esempio, sottolineando l’eredità lasciata dal Granducato di Lituania, fino al 1995 la Bielorussia ha utilizzato come emblema di Stato quello del Granducato stesso, rimuovendo qualunque simbolo che ricordasse l’oppressione da parte della Russia imperiale e sovietica. Una svolta in senso opposto fu imposta a partire dall’elezione nel 1994 di Lukašenka – che avvenne attraverso le uniche libere elezioni nel Paese –, il quale si affrettò a ritirare tutti i libri di storia pubblicati dopo il 1991 e ad adottare simboli che diffondessero nella popolazione la visione pan-orientale russofila del Presidente[27].


Dall’avvento di Lukašenka, la narrazione nazionale bielorussa è tornata a legare il passato del Paese alle popolazioni slave orientali, minimizzando i legami con l’Europa centrale e il Granducato di Lituania. Al contrario, ignorando gli effetti della repressione e della russificazione, si sottolineano i vantaggi, principalmente di natura economica, che venivano dalla partecipazione della Bielorussia all’Unione Sovietica. Per questa ragione, Lukašenka ha reintrodotto il simbolismo sovietico e ha abbracciato il russo come principale lingua delle istituzioni del Paese (pur mantenendo lo status di coufficiale con il bielorusso)[28]. Quello della lingua è stato un tema molto confuso in Bielorussia e, dall’indipendenza, è diventato anche un problema politico. Sebbene la diffusione di russi etnici nel Paese non sia comparabile a quella di Estonia, Lettonia e Kazakistan, si è venuto a creare il paradosso per cui la lingua di una etnia assolutamente minoritaria costituisca il principale mezzo di comunicazione di gran parte della popolazione[29].


Lukašenka ha dato coerenza a queste politiche di “restaurazione” sostenendo di essere stato l’unico deputato bielorusso a votare contro la dissoluzione dell’Unione Sovietica[30]. Da quel momento è iniziato un rapido accentramento dei poteri nella figura del Presidente. Senza rompere con la Russia, Lukašenka fu però costretto a cercare il sostegno finanziario europeo, promettendo in cambio che la campagna elettorale del 2010 si sarebbe svolta in un clima democratico. Tuttavia, la repressione della manifestazione di opposizione nel giorno delle elezioni e la condanna di numerose personalità per crimini contro lo Stato[31], hanno portato al raffreddamento delle relazioni con l’Unione europea[32]. La Bielorussia si trova quindi a essere completamente isolata, con un solo – e più potente – alleato su cui contare. L’integrazione tra Mosca e Minsk si basa sulla partecipazione di entrambi alla Comunità degli Stati Indipendenti, all’Unione eurasiatica e all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva. I due Paesi sono inoltre legati dal 1997 dal trattato istituente l’“Unione Russia-Bielorussia” che, pur rimanendo un’entità vaga, ha l’obiettivo dichiarato di favorire l’integrazione politica, sociale ed economica tra i due Paesi[33].


Nonostante la “restaurazione” voluta da Lukašenka, la politica di cittadinanza bielorussa non ha subìto modifiche sostanziali. Infatti, al momento dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, si è optato per il riconoscimento della cittadinanza a tutti i residenti in epoca sovietica, istituendo contemporaneamente un sistema basato sullo ius sanguinis. La naturalizzazione è possibile per chi abbia risieduto per almeno sette anni in Bielorussia, che conosca a un livello sufficiente almeno una delle due lingue di Stato (russo o bielorusso), che possieda una fonte di reddito in Bielorussia e che abbia rinunciato alla propria cittadinanza precedente. Tuttavia, è previsto un trattamento preferenziale per i bielorussi etnici e i loro discendenti nati all’estero, per i quali la naturalizzazione prevede un periodo minimo di residenza che può essere ridotto[34].


4. L’Ucraina e il costo della discontinuità


Dopo l’indipendenza, anche la storiografia dell’Ucraina ha modificato la propria narrazione, rompendo con il discorso unionista e panslavista sovietico. In questo senso, il trattato di Perejaslav, considerato dalla dottrina sovietica come un simbolo dell’unione dei popoli russo e ucraino sotto un solo Zar, viene ora considerato come il risultato di un’alleanza obbligata dalle minacce polacco-lituane, che si è poi tradotta nell’oppressione del dominio zarista, cui è seguita la distruzione causata dallo stalinismo. La nuova narrativa ucraina, inoltre, sostiene anche che i Rus’ di Kiev fossero un’arcaica forma di statualità ucraina, entrando in contrasto con la storiografia russa che, invece, considera gli stessi come il primo stadio della formazione del popolo russo. Inoltre, l’Ucraina viene descritta come un Paese vittima di guerre, invasioni e scelte politiche che ne hanno impedito l’indipendenza e il manifestarsi della propria tradizione europea e democratica. Tramite l’utilizzo di questa nuova narrazione, l’obiettivo delle autorità ucraine era quello di creare un forte sentimento di unità nazionale che legittimasse territorialmente la nazione ucraina e che contrastasse le rivendicazioni straniere – principalmente russe – su porzioni di territorio ucraino. Per tale ragione, l’insegnamento della storia fu uniformato in tutta l’Ucraina, senza alcuna variante in riconoscimento delle specifiche realtà locali (si pensi alla Crimea)[35].

Tuttavia, il tentativo delle élites di Kiev di far considerare l’Ucraina nel novero dei Paesi della nuova Europa centrale post-comunista è stato mortificato dal rifiuto da parte di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria di accettare l’ex-repubblica sovietica nel gruppo di Visegrád. Nato nel 1991, esso ambiva a favorire la cooperazione militare, culturale, economica ed energetica tra i suoi membri e per promuovere la loro integrazione nell’Unione Europea. Il rifiuto della partecipazione ucraina venne giustificato dalla paura di vedere rallentato il processo di integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche per colpa di un Paese che faticava ad adottare le riforme necessarie per lasciarsi alle spalle il sistema economico sovietico. Inoltre, il rifiuto si può anche ricondurre al timore di offendere la Russia che, seppure in difficoltà, guardava con sospetto a qualsiasi tentativo degli europei di allargare le proprie istituzioni nel proprio near abroad[36]. Tuttavia, non bisogna pensare che questa nuova narrazione abbia portato ad uno scontro frontale con la Russia. Al contrario, la Presidenza di Leonid Kučma (1994-2005) accolse con favore l’idea di mantenere strette relazioni con Mosca, opponendosi però sia alle ingerenze del Cremlino verso i territori abitati dai russi etnici, sia all’introduzione della doppia cittadinanza russa[37].

All’interno della politica ucraina, ci fu un violento scontro ideologico sulla natura della cittadinanza post-sovietica. I socialisti e i comunisti, legati all’esperienza sovietica, abbracciavano l’idea che i popoli slavi orientali fossero membri di un’unica nazione, mentre la destra si opponeva lottando per riconoscere l’unicità della popolazione ucraina. Adottata nel 1991, la prima legge in materia fu il risultato di un compromesso, conferendo la cittadinanza a tutti i residenti permanenti in territorio ucraino, ai nati e ai discendenti di nati nel territorio del Paese. Lo scontro si è esteso anche sul tema della doppia cittadinanza, ma in questo caso è stata la destra ucraina a trionfare, rifiutando la sua introduzione per paura delle interferenze russe negli affari interni dell’Ucraina[38]. Tuttavia, al sorgere delle tensioni con la Russia, sono emerse tutte le problematiche di un Paese multietnico che ha faticato a maturare una propria identità.

Per fomentare la destabilizzazione dell’Ucraina e costruire il consenso per le proprie politiche, il Cremlino dipinge da anni il Paese come un sottoprodotto della politica imperiale e sovietica, che ha accorpato in un unico Stato territori privi di soggettività storica o nazionale. Di conseguenza, l’Ucraina viene descritta come uno Stato “nazionalizzante” che non garantisce uguali diritti alla popolazione di lingua russa[39]. Le divisioni sorte all’interno della società ucraina, non possono essere ridotte alla mera questione linguistica, visto che le statistiche non mostrano una correlazione tra russofonia e idee filorusse, mentre sono coloro che si dichiarano russi etnici a essere più propensi a sostenere le cause separatiste[40].

Infatti, sondaggi condotti nelle sei oblasti dell’Ucraina sud-orientale, quella in cui vivono la maggior parte dei russi etnici e dei russofoni, hanno mostrato che il 22% degli intervistati si è dichiarato etnicamente e linguisticamente ucraino, il 41% ucraino e russofono, il 17% ucraino e bilingue, e l’11% etnicamente e linguisticamente russo. A fronte di tale composizione etnolinguistica, solo il 9% degli intervistati ha manifestato approvazione per le politiche di Putin, con il 65% contrario all’annessione della Crimea alla Russia. Condotto nella penisola, lo stesso sondaggio ha mostrato risultati opposti, con il 64% degli intervistati dichiaratisi russi etnici e solo il 20% ucraini, con un grado di approvazione per le politiche di Putin e per l’annessione della Crimea pari, rispettivamente all’87% e all’83%[41]. In un successivo sondaggio condotto nelle otto oblasti rivendicate dai separatisti della Novorossiya, solo l’11% degli intervistati ha manifestato il proprio appoggio per tale causa mentre il 74% si è detto contrario. Persino nelle oblasti ribelli di Luhans’k e Donec’k, devastate dalla guerra, il consenso al progetto separatista si è limitato al 19% della loro popolazione totale, con oltre la metà della stessa contraria alla presenza di truppe russe nel territorio[42]. Resta da dire che, comunque, la politica ucraina di considerare il territorio del Donbass sotto occupazione militare russa, ignorando la diffusa disaffezione della popolazione locale verso il governo di Kiev, non risulta certo il modo più efficace di riunire un Paese che si dimostra socialmente diviso[43].

Nonostante le differenze nell’orientamento verso la Russia, Bielorussia e Ucraina risultano piuttosto simili nelle loro politiche sulla doppia cittadinanza. In Bielorussia, infatti, il diritto alla doppia cittadinanza è riconosciuto solo ai minori che vivono nel Paese, i quali sono chiamati, al momento del raggiungimento della maggiore età, a decidere se mantenere la cittadinanza bielorussa o rinunciarvici in favore di quella di un altro Paese. Tuttavia, nel caso in cui un cittadino bielorusso dovesse ottenere la cittadinanza di un altro Stato che non obbliga a rinunciare alla prima, la legislazione bielorussa non si esprime, limitandosi a continuare a riconoscere l’individuo come solo cittadino bielorusso, senza imporre alcuna rinuncia[44]. In Ucraina, sebbene la Costituzione affermi che per un cittadino è possibile detenere esclusivamente la cittadinanza del Paese, la legislazione non prevede la perdita automatica della stessa nel caso dell’acquisizione di una cittadinanza straniera. Infatti, tale disposizione entrerebbe in conflitto con la Convenzione europea sulla nazionalità del Consiglio d’Europa, ratificata dall’Ucraina, che permette ai bambini nati da genitori di Paesi diversi di mantenere due cittadinanze[45]. Tuttavia, lo straniero che volesse ottenere la cittadinanza ucraina dovrebbe rinunciare a quella detenuta in precedenza entro due anni dal conseguimento di quella ucraina[46].

Al pari di altri Paesi dello spazio post-sovietico, anche l’Ucraina aveva riproposto sul piano elettorale le stesse divisioni tra forze europeiste e filorusse. Nonostante i risultati della rivoluzione arancione del 2004, la vittoria elettorale del filorusso Viktor Janukovyč del 2010 non aveva impresso una chiara direzione alla politica ucraina. Tuttavia, sul finale del 2013, la decisione del Presidente di non firmare gli accordi con l’Unione europea in favore di quelli per l’Unione eurasiatica, ha portato alle conseguenze che il Paese sta soffrendo ancora oggi. Questo ha però anche causato un crollo del peso elettorale delle forze filorusse, con i successi elettorali di Petro Porošenko nel 2014 e di Volodymyr Zelens'kyj nel 2019 che sono stati garantiti da programmi fortemente europeisti e in totale rottura con il passato. Tuttavia, l’Ucraina si trova ancora oggi a dover affrontare le divisioni identitarie ed etniche nella sua regione di Luhans’k e Donec’k, che continuano a essere occupate dalle forze ribelli filorusse.


5. La Moldavia tra riunificazione e separatismi


I risultati delle politiche sovietiche sono evidenti anche nella regione storica della Bessarabia. Popolata da rumeni e persa dall’Impero russo con la prima guerra mondiale, essa è stata riconquistata dall’Unione Sovietica in applicazione del patto Molotov-Ribbentrop ed è stata suddivisa territorialmente tra l’Ucraina e la nuova repubblica sovietica di Moldavia. Se durante il periodo interbellico l’identità rumena della regione fosse indubbia[47], le successive politiche sovietiche l’hanno stravolta. Iniziando con l’accorpamento alla Moldavia della Transnistria – abitata principalmente da ucraini e da alcune minoranze russe –, le autorità sovietiche hanno tentato di sviluppare un’identità moldava distinta da quella rumena. Ad esempio, fu adottato l’alfabeto cirillico per la scrittura della lingua moldava – che è rumena – e la storiografia mirò a minimizzare i legami storici della Bessarabia con la Romania, esaltando invece quelli con il mondo slavo. L’obiettivo di queste politiche di Mosca era quello legittimare il dominio sovietico e, conseguentemente, delegittimare le rivendicazioni di Bucarest[48].

Non sorprende che il principale problema che il Paese ha ereditato dall’età sovietica sia stato quello legato ai confini tracciati dal Cremlino al momento dell’annessione della regione. Gagauzia e Transnistria, addirittura, hanno dichiarato la propria indipendenza dall’Unione Sovietica con anticipo rispetto alle autorità moldave. Se però la prima ha deciso di formare parte integrante della Repubblica di Moldavia in cambio del riconoscimento di una grande autonomia, la seconda, forte anche del sostegno russo, ha instaurato un regime de facto indipendente da quello di Chișinău. Questo, unito al chiaro orientamento filorusso della Transnistria, ha indebolito la struttura statale moldava e polarizzato il dibattito pubblico sull’orientamento internazionale del Paese, visto che le posizioni filorusse di Tiraspol trovano eco nelle idee della sinistra filorussa moldava, incarnate dal Partito Socialista, che vede un proprio esponente, Igor Dodon, a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica[49]. Il legame con la Russia è stato confermato con le lezioni parlamentari del 2019, che hanno portato alla vittoria del partito del Presidente, seppur senza maggioranza assoluta. Le vicissitudini della crisi costituzionale moldava del 2019 (durante la quale la Corte Costituzionale moldava annullò i risultati delle elezioni parlamentari dello stesso anno, salvo tornare sui suoi passi a causa delle proteste popolari) hanno infine portato alla formazione di un governo di minoranza guidato da Ion Chicu, figura indipendente ma sostenuta dal solo partito socialista.

A completare il dilemma identitario moldavo, vi è principalmente la questione delle relazioni con la Romania. Storicamente, infatti, non è mai esistita un’identità moldava, visto che gli abitanti della regione sono rumeni etnici e parlano tale lingua. La Romania, infatti, che già aveva iniziato la propria costruzione nazionale sotto l’Impero ottomano, ottenne l’indipendenza nel 1859 e iniziò un rapido processo di espansione che, dopo la prima guerra mondiale, la portò alla massima estensione, includendo anche la Bessarabia, strappata all’Impero russo[50], che poi perse, insieme alla Bucovina settentrionale, a vantaggio dell’Unione Sovietica. Fu così che dopo il rovesciamento del regime comunista, la Romania riconobbe il diritto alla riacquisizione della nazionalità non solo ai perseguitati politici e alle vittime del regime comunista, ma anche a tutti gli ex-cittadini e ai loro discendenti, indipendentemente dal momento della perdita della cittadinanza rumena. Ciò ha permesso a molti cittadini moldavi, divenuti tali a causa della sostituzione della cittadinanza romena con quella sovietica, di ottenere la cittadinanza rumena[51].

Questa politica di restituzione della cittadinanza veniva giustificata dalla Romania con il principio ex iniuria ius non oritur che, pur non permettendo a Bucarest di annettere la Moldavia, garantiva il diritto alle autorità rumene di riparare agli effetti dell’invasione sovietica del 1940. Tuttavia, questa politica ha permesso a persone senza alcuna conoscenza della società e della legislazione rumena di ottenere la cittadinanza del Paese e ciò ha portato a tensioni con gli Stati confinanti, che hanno accusato la Romania di utilizzare la doppia cittadinanza per aumentare la propria influenza nella regione. Se inizialmente la restituzione della cittadinanza rumena è avvenuta rapidamente, da quando nel 2001 i rumeni hanno ottenuto la possibilità di viaggiare senza visto nell’area Schengen, il processo è stato rallentato a causa delle troppe richieste di naturalizzazione. L’Unione europea, che ha sempre riconosciuto la competenza nazionale in materia di cittadinanza, ha però manifestato la preoccupazione che la politica rumena si trasformi in una porta d’accesso incontrollabile all’area Schengen di cittadini non comunitari[52]. Questa pressione ha spinto la Romania a interrompere la sua politica di restituzione della cittadinanza, trasformandola in una naturalizzazione dei rumeni etnici che fossero tornati a vivere in Romania [53].

In Moldavia, invece, al momento dell’indipendenza, la cittadinanza venne riconosciuta a tutti i residenti permanenti di epoca sovietica. La legislazione moldava, inoltre, prevede un modello basato sullo ius sanguinis, limitando la naturalizzazione a chi abbia vissuto in Moldavia per almeno dieci anni, possieda una fonte di reddito e che dimostri la conoscenza della Costituzione e della lingua locale[54]. A causa dello stretto rapporto della popolazione moldava con la Romania e del riconoscimento della doppia cittadinanza da parte di Chișinău, si stima che circa 500.000 moldavi abbiano ottenuto il passaporto rumeno (circa il 18% dell’attuale popolazione della Moldavia)[55]. Recentemente, ha fatto scalpore la legge fortemente voluta dal Presidente filorusso Igor Dodon, che prevede facilitazioni per l’ottenimento della cittadinanza per chi abbia investito almeno 250.000 euro per cinque anni in obbligazioni immobiliari o governative o che abbia prestato almeno 100.000 euro al fondo pubblico di investimento del Paese. Ciò permette l’eliminazione dei requisiti temporali e di residenza altrimenti necessari, ma non toglie che il soggetto richiedente debba rispettarne degli altri, quali la conoscenza della Costituzione moldava[56]. A complicare l’equilibrio del Paese, la Russia ha messo in pratica una politica di “passaportizzazione” in favore degli abitanti della Transnistria, rendendo molto semplici le condizioni per ottenere la cittadinanza russa. Attualmente, si stima che poco meno della metà della popolazione della regione sia in possesso del passaporto russo, mentre la restante si divide tra quello moldavo e quello ucraino[57].

Se all’inizio degli anni Novanta le relazioni diplomatiche tra Romania e Moldavia sembravano procedere verso una possibile riunificazione, i conflitti secessionisti e le intromissioni della Russia che tormentano Chișinău hanno presto affossato il processo unionista. Al contempo, allo scopo di consolidare la stabilità della nuova repubblica, le autorità moldave hanno intrapreso un percorso di costruzione identitaria nazionale basato esclusivamente sulla Moldavia stessa, legittimando la sua esistenza a seguito della breve esperienza della Repubblica Democratica Moldava, esistita a cavallo tra le ultime fasi del primo conflitto mondiale e l’unificazione con la Romania. Il sistema di istruzione moldavo, dunque, è stato riformato per favorire lo sviluppo di un’identità nazionale che, ribaltando la narrativa sovietica, esaltasse i legami con l’Europa, ma mettesse anche in luce le specificità della cultura moldava[58], distinguendola da quella rumena.

Nonostante tale narrazione nazionale e la possibilità dei cittadini moldavi di ottenere il passaporto romeni, la politica del Paese è divisa sul processo di integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche. Dopo l’indipendenza, la classe politica moldava era quasi unanime del volere la riunificazione con la Romania. Quest’ultima, vista l’estrema arretratezza della Moldavia, ha però deciso di abbandonare l’idea in favore di un più rapido processo di integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche. Mantenendo la propria indipendenza, la Moldavia ha quindi cercato di seguire la stessa strada della Romania, ma senza successo. Nel corso della sua breve storia, il Paese ha infatti avuto principalmente governi europeisti, i quali sono stati però coinvolti in importanti scandali di corruzione. Questo ha portato alla paradossale situazione per cui la Russia, che sostiene de facto l’indipendenza della Transnistria e che tiene in pugno l’economia (tramite gli approvvigionamenti energetici) e l’informazione (vasto uso della propaganda filorussa) del Paese, abbia un vasto consenso all’interno della classe politica moldava. Le forze politiche filorusse hanno infatti la maggioranza relativa in Parlamento e il controllo delle cariche di Presidente della Repubblica e Primo Ministro[59]. Dal 2017 la Moldavia è inoltre membro osservatore dell’Unione eurasiatica, complicando quindi le possibilità del Paese di proseguire nell’integrazione euro-atlantica[60].


Conclusioni


A differenza dei Paesi baltici, la dissoluzione dell’Unione Sovietica non ha lasciato a Bielorussia, Ucraina e Moldavia una chiara via da percorrere. I tre Paesi si sono infatti affacciati per la prima volta come totalmente indipendenti sulla scena internazionale e hanno quindi dovuto reinterpretare la loro storia per costruire una narrazione nazionale che ne giustificasse l’indipendenza. Nel caso di Bielorussia e Ucraina è indubbiamente difficile scindere la storia con quella della Russia, visti soprattutto i numerosi secoli che hanno visto i tre Paesi, e i rispettivi popoli, sotto la stessa bandiera. La Bielorussia ha rapidamente abbandonato ogni velleità filoccidentale, optando per una restaurazione della politica sovietica con elementi di nazionalismo. Questa scelta ha però portato il Paese al totale isolamento internazionale, dipendendo interamente dalla Russia e quindi essendo totalmente esposta alle scelte politiche del Cremlino.

L’Ucraina ha invece cercato di integrarsi nel gruppo di Visegrad che, nonostante sia oggi celebre per i suoi contrasti con Bruxelles, è nato a seguito del crollo del blocco orientale per favorire l’accesso di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria nelle istituzioni europee. Il tentativo ucraino è però fallito, lasciando il Paese nel limbo delle tensioni interne tra Occidente e Oriente, divenute violente con le rivoluzioni del 2004 e del 2014, nonché con le crisi di Crimea e Donbass. L’escalation sembra però aver dato la definitiva spinta all’Ucraina per avvicinarsi alle istituzioni euro-atlantiche. Ciononostante, è difficile immaginare una sua membership considerata la delicata situazione politica ed economica attraversata dal Paese.

Al momento dell’indipendenza, infine, la Moldavia sembrava chiaramente orientata alla riunificazione con la Romania. Tuttavia, la politica di entrambi i Paesi ha rapidamente affossato l’idea, soprattutto a causa dell’arretratezza economica moldava e delle tensioni in Transnistria. In questo caso, infatti, la guerra del 1992 sancì l’indipendenza de facto della Transnistria, che continua a esistere ancora oggi. Il paradosso venutosi a creare è che nonostante Mosca sostenga direttamente le forze separatiste, i continui scandali che hanno interessato le forze europeiste della politica moldava hanno dato forza alle idee filorusse, i cui esponenti controllano ora le istituzioni.

Tuttavia, quello che è certo è che niente è certo: la regione è attualmente la polveriera d’Europa. Come per le crisi in Crimea e nel Donbass, è difficile immaginare un’escalation o una rottura violenta dello status quo. Ciononostante, le difficoltà del nation-building di Ucraina e Moldavia condannano il loro futuro all’incertezza. La Russia ha aperto le sue porte per estendere la propria influenza. Al contrario, le istituzioni euro-atlantiche, che pure possiedono chiari interessi, non sono disposte ad aprire incondizionatamente le loro porte a nuovi membri che potrebbero minare la loro (già precaria) stabilità.


Note [1] Censimento dell’Unione Sovietica del 1989, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database. [2] Toal G., Near abroad. Putin, the West and the contest over Ukraine and the Caucasus, Oxford University Press, 2017, p. 6. [3] Brubaker R., Nationalizing States Revisited: Projects and Processes of Nationalization in Post-Soviet States, University of California, Los Angeles, 2011, pp. 5-6. [4] Fischer S., Not Frozen! The Unresolved Conflicts over Transnistria, Abkhazia, South Ossetia and Nagorno-Karabakh in Light of the Crisis over Ukraine, Stiftung Wissenschaft und Politik, Berlino, 2016, pp. 19-21. [5] Trenin D., The End of Eurasia The End of Eurasia: Russia on the Border Between Geopolitics and Globalization, Carnegie Moscow Center, Washington DC, 2001, pp. 260-261. [6] Cfr. Chawryło K., Russian nationalists on the Kremlin’s policy in Ukraine, OSW Commentary, 29 dicembre 2014. [7] Dolukhanov M. P., The Early Slavs - Eastern Europe from the Initial Settlement to the Kievan Rus, Routledge, Taylor & Francis Ltd., New York, 1996, p. 197. [8] Cfr. Toumanoff C., Moscow the Third Rome: Genesis and Significance of a Politico-Religious Idea, in “The Catholic Historical Review”, vol. 40, n. 4, Catholic University of America Press, JSTOR, 1955, pp. 438-442. [9] Cfr. Witzenrath C., Cossacks and the Russian Empire, 1598–1725, Routledge, Taylor & Francis Ltd., New York, 2007, pp. 24-25. [10] Ingelevič-Citak M., Crimean conflict – from the perspectives of Russia, Ukraine, and public international law, in “International and Comparative Law Review”, vol. 15, n. 2, Palacky University, 2015, pp. 24-25. [11] Cfr. Backus O. P., The Problem of Unity in the Polish-Lithuanian State, in “Slavic Review”, vol. 22, n. 3, Cambridge University Press, JSTOR, 1963, p. 430. [12] Cfr. Saunders D., Regional Diversity in the Later Russian Empire, in “Transactions of the Royal Historical Society”, vol. 10, Cambridge University Press, JSTOR, 2000, pp. 143-163. [13] Ioffe G., Understanding Belarus: Belarusian Identity, in “Europe-Asia Studies”, vol. 55, n. 8, Taylor & Francis Ltd., JSTOR, 2003, pp. 1254-1259. [14] Cfr. Sullivant R. S., Soviet Politics and the Ukraine 1917-1957, Columbia University Press, New York, 1962, pp. 20-29. [15] National Statistical Committee of the Republic of Belarus: http://www.belstat.gov.by/en/ [16] Censimento della Repubblica di Bielorussia del 2009, “Ethnic composition of the population of the Republic of Belarus”, Volume III, Minsk, 2011, p. 355. [17] Censimento dell’Ucraina del 2001, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database. [18] Cfr. Williams B. G., The Crimean Tatar exile in Central Asia: A case study in group destruction and survival, in Central Asian Survey, vol. 17, n. 2, Routledge, Taylor & Francis Ltd., New York, 1998, pp. 285-317. [19] Censimento della Federazione Russia in Crimea del 2014, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database. [20] Cfr. Kolstø P., Edemsky A., Kalashnikova N., The Dniester Conflict: Between Irredentism and Separatism, in Europe-Asia Studies, vol. 45, n. 6, Taylor & Francis Ltd., JSTOR, 1993, pp. 973-1000. [21] Cfr. Wolff S., The Transnistrian Issue: Moving Beyond The Status-Quo, UK Directorate-General for External Policies of the Union, University of Birmingham, 2012, pp. 4-42. [22] Censimento della Transnistria del 2014, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database. [23] Cfr. Laruelle M., The three colors of Novorossiya, or the Russian nationalist mythmaking of the Ukrainian crisis, in Post-Soviet Affairs, vol. 32, n. 1, Routledge, Taylor & Francis Ltd., New York, 2016, pp. 55-74. [24] Caryl C., Novorossiya Is Back From the Dead, in “Foreign Policy”, 17 aprile 2014. [25] Sharkov D., Moldova’s Transnistrian separatists urge Russia annexation, Newsweek, 9 settembre 2016. [26] Kurzio T., History, memory and nation building in the post-soviet colonial space, in “Nationalities Papers”, vol. 30, n. 2, Routledge, Taylor & Francis Ltd., New York, 2002, pp. 249-250. [27] Kurzio T., History, memory and nation building in the post-soviet colonial space, cit., pp. 254-255. [28] Kurzio T., History, memory and nation building in the post-soviet colonial space, cit., p. 255. [29] Ioffe G., Understanding Belarus: Questions of Language, cit., pp. 1019-1024. [30] Maheshwari V., A tale of two Slavic strongmen, in “Politico”, 17 aprile 2017. [31] Besemeres J., “Russia and its western neighbours: A watershed moment”, in A Difficult Neighbourhood – Essays on Russia and East-Central Europe since World War II, ANU Press, JSTOR, 2016, pp. 181-182. [32] Belarus and the EU, Delegazione dell’Unione europea in Bielorussia. [33] Cfr. Deyermond R., The State of the Union: Military Success, Economic and Political Failure in the Russia-Belarus Union, in “Europe-Asia Studies”, vol. 56, n. 8, Taylor & Francis, Ltd., JSTOR, 2014, pp. 1191-1205. [34] Legge sulla cittadinanza della Repubblica di Bielorussia, UNHCR Refworld, 2002. [35] Kurzio T., History, memory and nation building in the post-soviet colonial space, cit., pp. 251-254. [36] Burant S. R., Foreign Policy and National Identity: A Comparison of Ukraine and Belarus, in “Europe-Asia Studies”, vol. 47, n. 7, Taylor & Francis Ltd., JSTOR, 1995, pp. 1128-1129. [37] Ivi, pp. 1138-1139. [38] Shevel O., The Politics of Citizenship Policy in New States, in “Comparative Politics”, vol. 41, n. 3, City University of New York, JSTOR, 2009, pp. 279-283. [39] Portnov A., Post-Maidan Europe and the New Ukrainian Studies, in “Slavic Review”, vol. 74, n. 4, Cambridge University Press, JSTOR, 2015, p. 723-725. [40] Ivi, pp.756-757. [41] Toal G., Near abroad, cit., p. 233-236. [42] Ivi, p. 262. [43] Bertolasi E., L’Ucraina adotta una legge sulla reintegrazione del Donbass, in “Opinioni”, AnalisiDifesa, 1° febbraio 2018. [44] Legge sulla cittadinanza della Repubblica di Bielorussia, cit. [45] Dual Citizenship, Chetcuti Cauchi Advocates. [46] Legge sulla cittadinanza dell’Ucraina e Decreto Presidenziale del 27 marzo 2001, Verchovna Rada, 2001. [47] Cfr. Van Meurs W., Carving a Moldavian identity out of history, in “Nationalities Papers”, vol. 26, n. 1, Radboud Universiteit Nijmegen, 1998, pp. 39-56. [48] Kurzio T., History, memory and nation building in the post-soviet colonial space, cit., p. 257. [49] Ivi, p. 257. [50] Iordachi C., “Politics of citizenship in post-communist Romania: Legal traditions, restitution of nationality and multiple memberships”, in Bauböck R., Perchinig B., Sievers W., Citizenship Policies in the New Europe, IMISCORE Research, Amsterdam University Press, 2009, pp. 178-179. [51] Ivi, pp. 189-190. [52] Ivi, pp. 192-203. [53] Legge sulla cittadinanza della Romania, Refworld, 2010. [54] Legge sulla cittadinanza della Repubblica di Moldavia, Parlamentul, 2000. Diponibile su: [55] Jaroszewicz M., Całus K., Moldova: a year after the introduction of the visa-free regime, Ośrodek Studiów Wschodnich, 2015. [56] Global Citizenship Investment. Disponibile a questo link. [57] Fischer S., Not Frozen! The Unresolved Conflicts over Transnistria, Abkhazia, South Ossetia and Nagorno-Karabakh in Light of the Crisis over Ukraine, cit., pp. 19-21. [58] Kurzio T., History, memory and nation building in the post-soviet colonial space, cit., pp. 255-257. [59] Ivi, pp. 170-171.

[60] Morgan S., Moldova granted observer status in Eurasian Union, Euractiv, 19 aprile 2017.

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