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In fuga dal passato: l’identità euro-atlantica dei Paesi baltici

Aggiornamento: 5 dic 2020

Lo spazio post-sovietico ha una rilevante dimensione culturale e geopolitica. L’ultimo censimento dell’Unione Sovietica, risalente al 1989, permette infatti di stimare che la sua dissoluzione abbia causato la presenza di 25 milioni di russi etnici[1] e 36 milioni di russofoni[2] fuori dai confini della neonata Federazione Russa. In aggiunta alle resistenze del Cremlino, la questione demografica ha creato difficoltà aggiuntive per i Paesi post-sovietici che hanno cercato di emanciparsi dal proprio passato. Lo scenario baltico rappresenta appieno l’intreccio tra aspetto culturale e geopolitico della diaspora russa nello spazio post-sovietico. I profondi legami storico-culturali con la Russia vengono lentamente erosi dall’esodo dei russi etnici e dalle politiche di derussificazione e nation-building promosse dalle élites post-sovietiche, anche precedentemente alla conquista della loro indipendenza[3].

La decisione dei Paesi baltici di celebrare nel 2018 il centenario della loro indipendenza è un chiaro esempio di politica atta alla delegittimazione del passato russo. L’annessione sovietica è illegittima e quindi nel 1991 la statualità è stata semplicemente restaurata[4]. Questo si traduce nell’arretramento della sfera di influenza del Cremlino che, nel frattempo, è però in grado di esercitare una forte ingerenza politica nei confronti dei propri compatrioti, definiti sootechestvenniki (Соотечественники), che comprendono sia i cittadini russi all’estero, sia coloro che possiedano importanti legami culturali o linguistici con la Russia.

Specularmente, 50 milioni di altri cittadini ex-sovietici non russi, dei quali 32 ospitati dalla sola Federazione Russa, vivono come minoranze etniche[5]. A differenza di questi ultimi, però, i russi sono il gruppo etnico più grande d’Europa che, dalla frammentazione dell’Impero mongolo, non ha mai subìto dominazioni straniere. A causa del recente passato, dello strapotere militare e dei recenti sviluppi di politica internazionale, sono evidenti le difficoltà della Russia nel tutelare gli interessi dei propri connazionali senza sollevare lo spettro di una restaurazione imperiale[6]. La principale paura dei suoi vicini, infatti, è quella dell’utilizzo delle popolazioni russe come leva per rompere l’equilibrio geopolitico nello spazio post-sovietico[7]. E non è un mistero che la presidenza di Vladimir Putin abbia reso il rafforzamento dell’influenza russa sul near abroad un elemento cardine per la ricostruzione del potere globale russo.

Tutte le nuove repubbliche, Russia compresa, hanno dovuto creare o modificare la narrazione della propria storia nazionale, in modo da poter legittimare l’indipendenza appena conquistata. A complicare questo processo, l’eredità sovietica ha lasciato ai nuovi Stati confini spesso irrispettosi delle demarcazioni etniche e culturali esistenti. Per contrastare tale situazione e per emanciparsi dal passato russocentrico, i Paesi post-sovietici hanno adottato politiche di nation-building, brillantemente definite dal politologo statunitense Rogers Brubaker come


"il nazionalismo 'nazionalizzante' [degli Stati di nuova indipendenza, che] implica affermazioni fatte in nome di una “nazione centrale”, definita in termini etnoculturali [e intesa come legittima proprietaria dello Stato], nettamente distinta dalla cittadinanza nel suo insieme […].

Nonostante possegga un proprio Stato, la nazione centrale è concepita come in una debole posizione culturale, economica o demografica all’interno dello Stato stesso. Ciò – visto come eredità della discriminazione subìta dalla nazione prima dell’indipendenza – giustifica il progetto 'correttivo' […] dell’uso del potere statale per la promozione degli interessi specifici […] della nazione centrale"[8].


Il processo di ricostruzione nazionale intrapreso da Mosca è iniziato con l’immediato riconoscimento della cittadinanza russa a tutti i residenti di epoca sovietica, indipendentemente dalla propria etnia[9]. Contemporaneamente è stato però adottato un modello di cittadinanza basato sullo ius sanguinis, contrastando la tradizione di epoca sovietica, che permetteva a chiunque di acquisirla perorando la causa comunista, indipendentemente dalla propria etnia[10]. La scomparsa dell’obiettivo ideologico e la rinascita delle narrative nazionali travolsero anche i Paesi dello spazio post-sovietico, che hanno adottato politiche di nation-building estremamente eterogenee[11]. Identificare e comprendere i fattori culturali ed emotivi delle rivendicazioni geopolitiche russe (affective geopolitics) nello spazio post-sovietico è un esercizio che richiederebbe uno studio approfondito che trascende lo scopo di questo saggio. Tuttavia, seppur non esaustivo, il presente contributo fornisce al lettore un’analisi omnicomprensiva dei fattori che caratterizzano la dimensione emotiva delle dinamiche politiche e diplomatiche che animano i rapporti tra Mosca e le capitali baltiche.


1. Cenni storici

Nel corso del Medioevo, gran parte dello spazio post-sovietico fu interessato dall’inarrestabile espansione dell’Impero mongolo. Nel corso del XII e XIII secolo, la sua frammentazione permise al Granducato di Lituania di conquistare molti degli antichi territori dei Rus’ di Kiev, popolazione scandinava migrata secoli prima fino a colonizzare gran parte dell’Europa slava orientale. Nel 1386 il Granducato entrò in un’unione personale con il Regno di Polonia, divenuta poi permanente con la nascita della Confederazione polacco-lituana[12]. Nel frattempo, il resto della regione baltica venne presa delle mire espansionistiche di Svezia e Russia, con la prima che nel corso del XVI e XVII secolo conquistò la Livonia, l’Estonia e i territori del golfo di Finlandia.

Tuttavia, la vittoria della coalizione anti-svedese nella grande guerra del nord (1700-1721) vide Pietro il Grande estendere il proprio dominio verso il litorale del Baltico, strappando alla Svezia anche il controllo dell’Ingria[13], regione nella quale fonderà San Pietroburgo. L’espansione russa nell’area si completò nel 1795 con la terza spartizione della Confederazione polacco-lituana, che cessò quindi di esistere. Se da un lato il dominio russo nell’Ottocento favorì lo sviluppo economico della regione – con Riga, Tallinn e Paldiski che divennero porti di crescente importanza –, dall’altro implicò le prime politiche di russificazione forzata. L’insofferenza delle popolazioni locali favorì l’ascesa dello spirito nazionalista dei popoli baltici, che fu alla base della nascita delle repubbliche indipendenti dopo il primo conflitto mondiale[14].

I nuovi stati ebbero però vita breve, dato che l’applicazione del patto Molotov-Ribbentrop del 1939 vide l’Europa orientale spartita tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica[15]. Al termine della seconda guerra mondiale, i confini della regione baltica vennero completamente ridisegnati. La Prussia orientale, culla della storia moderna tedesca, subì la divisione tra Unione Sovietica e Polonia, l’epurazione della popolazione autoctona e la modifica dei toponimi (l’antica capitale prussiana Königsberg fu rinominata “Kaliningrad” in onore di Michail Ivanovič Kalinin, bolscevico della prima ora e capo di Stato dell’Unione Sovietica per oltre vent’anni, morto pochi mesi dopo la conquista della città[16]). Estonia, Lettonia e Lituania vennero incorporate come repubbliche federative sovietiche e, al pari di altri territori dell’Unione Sovietica, furono oggetto di violente politiche di repressione nazionale e russificazione. La cittadinanza degli abitanti dei Paesi baltici fu sostituita con quella sovietica e, fino al 1991, l’unico documento che certificasse l’etnia del cittadino fu il passaporto interno dell’Unione Sovietica[17].


2. Evoluzione demografica e russificazione

La profonda russificazione sofferta da Estonia e Lettonia durante l’età sovietica, che invece risparmiò la Lituania, lascia ancora oggi profondi segni. I russi etnici che vivono in Estonia sono concentrati principalmente tra la contea di frontiera con la Russia di Ida-Virumaa (dove rappresenta il 73% della popolazione totale) e in quella di Harjumaa (31%), nella quale si distribuiscono principalmente tra la capitale Tallinn (37%) e le sue periferie[18]. In Lettonia, i russi etnici sono diffusamente presenti nella regione storica della Letgallia, nonché nella capitale Riga (37%). In entrambi i Paesi la russificazione è stata particolarmente profonda, tanto che al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica i russi etnici divennero un terzo della loro popolazione[19]. A seguito delle politiche di nazionalizzazione estoni e lettoni e al successivo arrestarsi delle migrazioni verso la Russia, la presenza di russi etnici si è stabilizzata intorno a un quarto della popolazione totale di entrambi i Paesi (figure 2 e 3). In Lituania, invece, le uniche concentrazioni degne di nota sono il comune di Visaginas (52%) e la città portuale di Klaipėda (20%), un tempo importante insediamento prussiano con il nome di Memel. A livello nazionale, la popolazione russa etnica si attesta solo al 6% di quella totale[20] (figura 4).

Contrariamente alle repubbliche baltiche, dopo la divisione della Prussia orientale con la Polonia, la regione di Kaliningrad venne integrata come oblast’ della repubblica federativa sovietica russa. La popolazione tedesca venne epurata e la regione ripopolata da coloni russi, tanto che oggi l’82% della popolazione è etnicamente russa, dato in linea con la media della Russia europea[21] (figura 1). Ad eccezione dell’Ingria e dell’oblast’ di Kaliningrad, oggi pienamente russificate, gli altri territori baltici abitati da grandi comunità russe devono fare i conti con il proprio passato. La travagliata storia della regione e la sua complessa demografia offrono quindi un valido appoggio alle rivendicazioni dell’affective geopolitics russa.

Figura 1: Distribuzione dei russi etnici nei territori baltici

Figura 2: Storico della presenza russa etnica nel territorio estone

Figura 3: Storico della presenza russa etnica nel territorio lettone

Figura 4: Storico della presenza russa etnica nel territorio lituano

3. Nation-building

Al momento dell’indipendenza da Mosca, riconosciuta ufficialmente dopo il fallito golpe del 1991, i Paesi baltici hanno optato per la via della continuità storica, dichiarando la propria indipendenza restaurata ex iniuria ius non oritur. L’indipendenza interbellica, dunque, viene utilizzata come giustificazione giuridica per la restaurazione della propria statualità, tanto che nel 2018 le tre repubbliche non hanno celebrato il ventisettesimo anniversario dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, bensì il centenario di quella dall’Impero russo[22]. La storia delle tre repubbliche baltiche spiega perché la loro narrativa nazionale si basi sul comune rigetto del passato russo, risaltando invece i loro legami storici, culturali e religiosi con l’Europa centrale e scandinava, rappresentando la propria civiltà come avamposto di quella europea occidentale[23]. A seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, infatti, i Paesi baltici non aderirono alla Comunità degli Stati Indipendenti, ma adottarono una linea di totale distacco dalla Russia, integrandosi rapidamente nelle istituzioni euro-atlantiche, al pari di numerosi altri Paesi dell’Europa orientale liberatisi dal Patto di Varsavia[24].

Per analizzare il nation-building dei Paesi baltici, è innanzitutto necessario comprendere chi sia stato incluso dalle élites post-sovietiche all’interno della nuova nazione. Seguendo lo stesso principio di continuità storica, Estonia e Lettonia hanno restaurato la legge di cittadinanza presovietica, permettendo agli ex-cittadini estoni e lettoni e ai rispettivi discendenti di ottenere immediatamente la nuova cittadinanza. Vennero invece esclusi tutti coloro che si erano trasferiti in Estonia e in Lettonia dopo il 1940 – principalmente russi etnici – che dovettero passare per la procedura di naturalizzazione[25], resa particolarmente complicata dalla necessità di conoscere la lingua locale e dalle limitazioni quantitative imposte al rilascio di nuove cittadinanze[26].

Questa politica, interpretabile come una reazione delle autorità contro la russificazione sovietica, è anche la principale causa di tensioni interetniche in Estonia e Lettonia. Nell’immediato dell’indipendenza, la sua applicazione ha infatti comportato l’esclusione dalla vita politica di un terzo della popolazione delle repubbliche, garantendo ai cittadini estoni e lettoni il pieno controllo delle istituzioni dei rispettivi Paesi[27]. Al contrario, la grande omogeneità etnica e culturale della Lituania ha permesso al Paese di adottare una politica molto più liberale, consentendo anche ai residenti di epoca sovietica di ottenere la cittadinanza lituana[28].

L’apolidia di massa causata dalle politiche estoni e lettoni ha sollevato forti critiche da parte di Nazioni Unite e Unione europea, che hanno ricordato la necessità di rispettare gli strumenti internazionali sui diritti umani dei quali i Paesi si erano resi firmatari[29]. Queste pressioni si sono dimostrate efficaci, ma il numero di apolidi nei due Paesi rimane ancora elevato, attestandosi nel 2018 al 6% della popolazione estone[30] e all’11% di quella lettone[31]. Ad oggi è solo la Russia che continua a manifestare il proprio malcontento in direzione delle due repubbliche baltiche, che con l’ingresso nell’Unione europea paiono aver trovato la definitiva approvazione internazionale alle rispettive politiche di cittadinanza[32].

A ricordare che la tensione interetnica è sempre pronta a esplodere, gli scontri legati al memoriale sovietico del “Soldato di bronzo” di Tallinn sono da considerare con particolare attenzione. Tale monumento, costruito in memoria della vittoria sovietica della seconda guerra mondiale, era percepito dagli estoni come simbolo dell’oppressione sovietica, mentre per i russi simboleggiava l’unità perduta e ciò che rimaneva della grandezza del passato. Nel 2007, poche settimane prima dell’anniversario della sconfitta della Germania nazista, il governo estone spostò il memoriale dal centro di Tallinn alla periferia, dove si trova tutt’oggi. Questa decisione, vissuta come un affronto da parte dei russi, ha causato disordini sfociati nell’arresto di oltre 1.000 manifestanti. In una vera e propria rappresaglia, la Russia decise quindi di colpire l’Estonia con la temporanea interruzione delle forniture di petrolio[33], mostrando la fragilità dell’Europa intera dall’eccessiva dipendenza energetica dalla Russia.


4. Il peso elettorale delle minoranze russe

La legislazione sulla cittadinanza accomuna Estonia e Lettonia anche per il trattamento degli apolidi post-sovietici. In Estonia, infatti, è stata istituita la figura della “cittadinanza indefinita”, status che permette ai possessori di richiedere un permesso di residenza a lungo termine, ma non di votare alle elezioni[34]. Questo permette inoltre l’ottenimento del “passaporto alieno”, di colorazione grigia, che consente di viaggiare nei Paesi dell’area Schengen senza visto per un massimo di 90 giorni[35]. Parallelamente, la Lettonia ha creato la figura del “non-cittadino” che dà il diritto di risiedere in territorio lettone senza poter essere espulsi. Inoltre, essi possono richiedere un apposito passaporto, anch’esso riconosciuto dall’Unione europea per i viaggi senza visto fino a 90 giorni[36]. Oltre a sottolineare il carattere temporaneo dello status di non-cittadino, le autorità di Riga hanno affermato che i loro possessori non possono considerarsi come apolidi, in quanto appartengono alla Lettonia, godono della piena protezione del Paese, della libertà di movimento nell’Unione europea, di tutti i diritti sociali e della maggior parte dei diritti politici, fatta eccezione per quello di voto[37].

Guardando invece alla popolazione di origine straniera non naturalizzata, in Estonia essa è composta dal 48% di cittadini russi e dal 46% di cittadini “indefiniti”[38]. In Lettonia, invece, sebbene il 64% dei russi etnici abbia optato per l’acquisizione della cittadinanza lettone, gli altri rappresentano il 66% dei non-cittadini del Paese[39]. Inoltre, il passaporto lettone per i non-cittadini garantisce ai possessori il diritto alla protezione consolare da parte delle autorità del Paese[40], mentre in Estonia ciò non avviene, obbligando il non-cittadino a ricorrere alle autorità dello Stato di cittadinanza[41], ammesso che ne abbia uno[42]. Pur non possedendo un accordo sull’esenzione dall’obbligo del visto con l’Unione europea, la Federazione Russa riconosce ai possessori dei passaporti per non-cittadini di Estonia e Lettonia la possibilità di viaggiare nel Paese senza visto, anche in questo caso per un massimo di 90 giorni[43].

Le elezioni politiche nei due Paesi mostrano chiaramente la spaccatura esistente tra il gruppo nazionale maggioritario e quello russo. Tenutasi nel marzo del 2019, l’ultima tornata parlamentare estone ha mostrato un’affluenza al voto molto più bassa tra i russi etnici in confronto alla media nazionale (50% con il 64%). Ciononostante, nel Paese non esiste alcuna forza politica rilevante che si faccia carico esclusivamente delle istanze della minoranza russa. Il voto di quest’ultima, che comunque richiede all’elettore il possesso della cittadinanza estone, si concentra però principalmente a vantaggio del Partito di Centro (Keskerakond), che partecipa nel gruppo parlamentare europeo Renew Europe (successore di ALDE) e che guida il Paese come membro di maggioranza del governo[44] (ha ottenuto il 25,3% dei voti nel 2019, giungendo secondo).

Il partito che in Lettonia concentra la maggioranza dei voti delle minoranze russe è Armonia (Saskaņa), che ci contraddistingue per un orientamento socialdemocratico ed europeista. Questa forza politica è riuscita negli anni a catalizzare il voto dei russi etnici, divenendo dal 2011 il partito con maggior consenso in Lettonia (20% dei consensi nelle elezioni parlamentari del 2018). Ciononostante, Armonia non ha mai fatto parte di alcuna coalizione di governo, con le forze nazionaliste che hanno sempre raggiunto un accordo per escluderlo dal potere. La consapevolezza degli elettori russi che il proprio partito di riferimento venga sistematicamente escluso dalle coalizioni di governo contribuisce ad affliggere la loro partecipazione elettorale, che riduce ulteriormente la già bassa affluenza nazionale (54% nelle lezioni parlamentari del 2018)[45].

La mancanza di una profonda russificazione e di tensioni interetniche, invece, ha permesso alla Lituania di adottare una posizione decisamente più liberale rispetto alle altre repubbliche baltiche. La cittadinanza è stata infatti concessa a chi potesse dimostrare di essere nato in territorio lituano, o discendente di una persona con la medesima caratteristica. Gli altri residenti permanenti hanno inoltre ottenuto la cittadinanza dopo avere prestato giuramento di fedeltà allo Stato, senza la richiesta di alcuna competenza linguistica, necessaria invece per tutti coloro che volessero intraprendere un normale percorso di naturalizzazione. Questa politica ha quindi permesso alla maggior parte degli abitanti ex-sovietici di acquisire la cittadinanza lituana[46], risparmiando il Paese dalle critiche degli osservatori internazionali[47].


Conclusioni

Dopo la breve indipendenza del periodo interbellico, i Paesi baltici paiono aver definitivamente trovato la propria collocazione politica, economica e sociale nello scenario politico europeo. Nell’evoluzione dello spazio post-sovietico, lo scenario baltico è peculiare, in quanto l’unico capace di integrarsi rapidamente nelle istituzioni euro-atlantiche, voltando completamente le spalle a Mosca. Ad aver trionfato è stata quindi la narrazione che identifica l’origine dei popoli baltici nella cultura scandinava e centroeuropea, slegandola da quella dell’est slavo e russofilo. Tuttavia, la grande presenza di russi etnici in Estonia e Lettonia rimane un tema politico centrale tanto dei Paesi europei, quanto della Federazione Russa, che potrebbe utilizzarli come testa di ponte per la destabilizzazione della regione baltica. La Russia è infatti consapevole che tali politiche di influenza non sono solo possibili, ma anche convenienti in termini di consenso interno. Se il conflitto ucraino ha avuto pesanti conseguenze sulla Russia, un’escalation del Baltico potrebbe portare a uno scenario peggiore. Nonostante l’ingerenza politica e militare del Cremlino nella regione sia in netta crescita, l’appartenenza dei Paesi baltici all’Unione europea e alla NATO ha finora rappresentato un fondamentale elemento di deterrenza. Tuttavia, a fronte del crescente disimpegno statunitense sullo scenario internazionale e dell’irrigidimento delle relazioni tra Washington e i Paesi europei, la credibilità dell’art. 5 del Patto Atlantico rimane un punto su cui interrogarsi.

Note

[1] Censimento dell’Unione Sovietica del 1989, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database. (http://pop-stat.mashke.org/ussr-ethnic1989.htm)

[2] Toal G., Near abroad. Putin, the West and the contest over Ukraine and the Caucasus, Oxford University Press, 2017, p. 6.

[3] Brubaker R., Nationalizing States Revisited: Projects and Processes of Nationalization in Post-Soviet States, University of California, Los Angeles, 2011, pp. 5-6.

[5] Censimento della Federazione Russa del 2010, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database.

[6] Trenin D., The End of Eurasia: Russia on the Border Between Geopolitics and Globalization, Carnegie Moscow Center, Washington DC, 2001, pp. 260-261.

[7] Cfr. Chawryło K., Russian nationalists on the Kremlin’s policy in Ukraine, OSW Commentary, 29 dicembre 2014.

[8] Brubaker R., Nationalism reframed – Nationhood and the national question in the New Europe, Cambridge University Press, 1996, pp. 4-5.

[9] Salenko A., Country Report: Russia, Eudo Citizenship Observatory, 2012, pp. 10-11.

[10] Shevel O., The Politics of Citizenship Policy in New States, in “Comparative Politics”, vol. 41, n. 3, City University of New York, JSTOR, 2009, pp. 276-277.

[11] Ivi, p. 273.

[12] Roucek J. S., The Geopolitics of the Baltic States, in The American Journal of Economics and Sociology, vol. 8, n. 2, JSTOR, 1949, p. 173.

[13] Secondo le disposizioni del Trattato di Nystad del 1721.

[14] Roucek J. S., The Geopolitics of the Baltic States, in The American Journal of Economics and Sociology, vol. 8, n. 2, JSTOR, 1949, p. 174.

[15] Ibidem.

[16] De Bonis M., Kaliningrad, prima difesa della Russia, in “Limes – Lo stato del mondo”, n. 4, 2018.

[17] Järve P., “Estonian citizenship: Between ethnic preferences and democratic obligations”, in Bauböck R., Perchinig B., Sievers W., Citizenship Policies in the New Europe, IMISCORE Research, Amsterdam University Press, 2009, pp. 45-46.

[21] Censimento della Federazione Russa del 2010, cit.

[23] Roucek J. S., The Geopolitics of the Baltic States, cit., pp. 171-172.

[24] Studzińska Z., How Russia, Step by Step, Wants to Regain an Imperial Role in the Global and European Security System, in “Connections”, vol. 14, n. 4, Partnership for Peace Consortium of Defense Academies and Security Studies Institutes, JSTOR, 2015, pp. 21-22.

[25] Shevel O., The Politics of Citizenship Policy in New States, cit., p. 278.

[26] Bauböck R., Perchinig B., Sievers W., Citizenship Policies in the New Europe, IMISCORE Research, Amsterdam University Press, 2009, pp. 47 e 70.

[27] Järve P., “Estonian citizenship: Between ethnic preferences and democratic obligations”, cit., pp. 46-47.

[28] Krūma K., “Lithuanian nationality: Trump card to independence and its current challenges”, in Bauböck R., Perchinig B., Sievers W., Citizenship Policies in the New Europe, cit., pp. 98-99.

[29] Su tutti, la Convenzione sullo status degli apolidi (1954), Convenzione sulla riduzione dell’apolidia (1961), la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (1966), Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1969) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla nazionalità (1997).

[30] Censimento della Repubblica d’Estonia del 2011, cit.

[32] Järve P., “Estonian citizenship: Between ethnic preferences and democratic obligations”, cit., p. 55 e Krūma K., “Checks and balances in Latvian nationality policies: National agendas and international frameworks”, cit., p. 73.

[33] Duncan P. J. S., Review of The Politics of Energy and memory between the Baltic States and Russia by A. Grigas, in The Slavonic and East European Review, vol. 92, n. 2, 2014, pp. 388-389.

[36] Paesi nei quali i titolari di passaporto lettone possono entrare senza visto, Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Lettonia (vedi link).

[37] Paparinskis M., Political and Electoral Rights of Noncitizen Residents in Latvia and Estonia: Current Situation and Perspectives, Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Parlamento europeo, 2018, pp. 3-4.

[38] Informazioni ottenibili dalle statistiche di Eesti statistika, vedi link.

[39] Population by citizenship and ethnicity at the beginning of the year, Latvijas statistika, cit.

[40] Paparinskis M., Political and Electoral Rights of Noncitizen Residents in Latvia and Estonia: Current Situation and Perspectives, cit., pp. 3-4.

[41] Toots L., European Union Citizenship or Status of Long-Term Resident: A Dilemma for Third-Country Nationals in Estonia, in “Baltic Journal of European Studies”, vol. 2, n. 1, Tallinn University of Technology, 2011, p. 77.

[42] Krūma K., “Checks and balances in Latvian nationality policies: National agendas and international frameworks”, cit., p. 73.

[43] Informazioni sul visto per non-cittadini estoni, ReisiTargalt, cit. e Countries to which Latvian passport holders may enter without visa, Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Lettonia, cit.

[44] Toots A., 2019 Parliamentary elections in Estonia, Friedrich Ebert Stiftung, 2019.

[45] Ijabs I., 2018 Parliamentary Elections in Latvia, Friedrich Ebert Stiftung, 2018.

[46] Egidijus K., Country Report: Lithuania, Eudo Citizenship Observatory, 2010, p. 3.

[47] Krūma K., “Lithuanian nationality: Trump card to independence and its current challenges”, cit., p. 97.

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