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La Federazione Russa e la strategia dei “conflitti congelati”

Aggiornamento: 5 dic 2020


La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata all’origine del caos politico, economico e sociale che dagli anni Novanta ha interessato l’Europa orientale, il Caucaso e l’Asia centrale. La Federazione Russa, nata come Stato successore dell’Unione sovietica, sotto la presidenza di Vladimir Putin sta ricostruendo il suo potere globale. Sulla base del modello euro-atlantico, infatti, la Russia ha cercato di riorganizzare il proprio spazio geopolitico attraverso la creazione di organizzazioni internazionali per garantirsi l’allineamento dei propri vicini. Già con la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO) e l’Unione economica eurasiatica (UEE) il Cremlino ha messo delle basi per l’integrazione politica, militare ed economica della vasta area su cui ha a lungo esercitato il proprio potere sovrano. Con un insieme di politiche energetiche[1], interventi militari e sostegno alle minoranze all’estero, l’aspetto più peculiare della geopolitica russa è la strategia dei “conflitti congelati”[2]. Questa fa uso della diffusa disaffezione allo status quo delle popolazioni russofile per garantire alla Russia un pesante potere di influenza sulla politica estera dei Paesi limitrofi.

La carta mostra lo spazio post-sovietico: in blu la Federazione Russa, in giallo gli attuali “conflitti congelati”

1. Transnistria

La Transnistria è una regione separatista della Moldavia, Paese i cui confini sono stati istituiti nel 1940 a seguito dell’annessione sovietica della Bessarabia. Per ragioni di equilibrio etnico, essa venne suddivisa tra le Repubbliche sovietiche ucraina e la neonata moldava, alla quale venne accorpato anche un lembo di terra sulla sponda opposta del fiume Dnestr, abitato principalmente da ucraini e alcune minoranze russe[3]. Fu proprio questo territorio che nel 1990 proclamò la propria indipendenza, anticipando di un anno quella della Moldavia e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel 1992 scoppiò dunque una guerra tra Moldavia e Transnistria, la quale venne sostenuta dalle truppe russe presenti nella regione sin dal 1940. Dopo pochi mesi di conflitto, la sua conclusione ha portato allo status quo attuale, con la Transnistria de facto indipendente, ma senza alcun riconoscimento internazionale. Nemmeno la Russia ha mai riconosciuto la Transnistria come Stato e ciò implica l’assenza di relazioni formali tra la Russia e i separatisti. Mosca conserva l’interesse per il mantenimento delle proprie truppe nell’area, che dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica non sono mai state ritirate dalla regione[4] (al pari di quanto avvenuto con le truppe russe in Crimea). Inoltre, il Cremlino ha messo in pratica una politica di “passaportizzazione” in favore degli abitanti della Transnistria, rendendo molto semplici le condizioni per ottenere la cittadinanza russa. Attualmente, si stima che poco meno della metà della popolazione della regione sia in possesso del passaporto russo, mentre la restante si divide tra quello moldavo e quello ucraino[5].

A seguito del travolgente successo in Crimea, nella sua annuale sessione di domande con i giornalisti del 2014, Vladimir Putin dette legittimità alla causa della Novorossiya, regione che venne storicamente annessa all’Impero russo da Caterina la Grande e che oggi corrisponde all’Ucraina sudorientale, estendendosi fino alla Transnistria[6]. L’intenzione di Mosca era di causare un’insurrezione delle popolazioni russofile della regione, per estendere i confini della Russia fino alla Transnistria. Questa politica si è dimostrata fallimentare, limitandosi all’insurrezione di Luhans’k e Donec’k, ma questo non significa che la Russia abbia rinunciato a esercitare la propria influenza nella regione, fondamentale per evitare qualunque velleità filoccidentale del governo moldavo. Infatti, Mosca provvede al finanziamento del 75% del budget della Transnistria non solo attraverso aiuti, ma anche con la mancata riscossione dei debiti per la fornitura di gas[7], per un totale di più di cinque miliardi di dollari (circa il 400% del PIL della Transnistria)[8]. L’assenza di riconoscimento della statualità della Transnistria da parte della Russia crea uno scenario peculiare, legittimando Mosca a esigere il pagamento di tali debiti alla Moldavia, esercitando una forte pressione sul Paese. Quest’ultimo non è infatti mai stato in grado di mettere in pratica un’efficace politica di diversificazione energetica, importando ancora oggi tutto il suo petrolio e gas naturale dalle stesse condutture sovietiche che transitano attraverso la Transnistria[9].

Pur non avendo una grande rilevanza economica, la Transnistria è politicamente importante tanto per la Russia quanto per l’Occidente. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Moldavia ha a lungo cercato la riunificazione con la Romania, la quale ha a sua volta permesso la naturalizzazione dei cittadini moldavi imponendo pochissimi requisiti[10]. Inoltre, la membership romena nell'Unione europea ha reso i suoi passaporti ancora più appetibili per una popolazione così povera e isolata come quella moldava. L’Unione europea, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e la Banca europea per gli investimenti stanno fornendo circa 105 milioni di dollari di finanziamento per un gasdotto che colleghi la Romania alla Moldavia nella speranza di romperne l’isolamento[11]. Tuttavia, a discapito dell’ascesa dei partiti pro-russi delle ultime elezioni, avvenute lo scorso febbraio, gli scarsi passi in avanti nelle riforme richieste dall’Unione europea e l’ottenimento da parte della Moldavia dello status di osservatore presso l’Unione economica eurasiatica hanno raffreddato le relazioni del Paese con l’Occidente[12]. L’incapacità della Moldavia di adottare efficaci politiche energetiche e lo strapotere russo in materia, hanno inesorabilmente spinto la Moldavia nuovamente verso Mosca. Minando l’integrità territoriale del Paese, il Cremlino continuerà ad impedire che le istituzioni euro-atlantiche si avvicinino ancora più verso i propri confini.


2. Abcasia e Ossezia del Sud


Separatismo nel Caucaso

A seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, le repubbliche federative georgiana, armena e azera si sono costituite come Stati indipendenti. Tuttavia, anche nel Caucaso il separatismo ha avuto un ruolo fondamentale nell’instabilità politica della regione. In questa fase non tratteremo della Repubblica filo-armena dell’Artsakh (autoproclamatasi nella regione del Nagorno-Karabakh), ma solo del separatismo di Abcasia e Ossezia del Sud, che vede un importante coinvolgimento della Federazione Russa. A seguito dell’indipendenza della Georgia, le istanze indipendentiste abcase causarono lo scoppio di un conflitto armato durato dal 1991 al 1993 e conclusosi con l’indipendenza de facto dell’Abcasia, ottenuta anche grazie al sostegno dei militari russi. Allo stesso modo, tra il 1991 e il 1992 le forze russe combatterono al fianco dell’Ossezia del Sud, portando allo stesso catastrofico risultato per le forze georgiane. Sempre nel 1992, la Georgia fu colpita dalla violenza scatenata dal colpo di stato per deporre il Presidente Zviad Gamsakhurdia e dalla sua lotta per riprendere il potere. Per tentare di porre soluzione al caos nel Paese, le truppe russe intervennero ponendo le basi per la pace e la successiva Presidenza di Eduard Shevardnadze. Già Ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica sotto Gorbačëv, egli veniva percepito come figura ideale per il mantenimento di buone relazioni con Mosca, con la quale Tbilisi era entrata in conflitto[13].

Lo stravolgimento etnico causato dai conflitti – che ha visto la popolazione georgiana abbandonare i territori secessionisti – e le continue interferenze russe nella regione – soprattutto da quando il Paese ha cercato di avvicinarsi alla NATO e all’Unione europea – hanno reso impossibile per la politica georgiana l’inclusione delle regioni separatiste. Oggi, infatti, Abcasia e Ossezia del Sud e sono importanti avamposti per la presenza militare russa nel Caucaso, allo scopo di prevenire la volontà di Tbilisi di integrarsi nelle istituzioni euro-atlantiche. La Georgia denuncia l’occupazione di Abcasia e Ossezia del Sud da parte russa, costruendo la falsa percezione che gli abitanti di tali regioni vogliano tornare georgiani. L’Ossezia del Sud, etnicamente omogenea, desidera l’unificazione alla repubblica russa dell’Ossezia Settentrionale-Alania. L’Abcasia, invece, si trova più incerta tra le opzioni di piena indipendenza e incorporazione alla Russia, ma in ogni caso è certo che non voglia tornare sotto il governo di Tbilisi[14].

Nel 2008 la decisione del Presidente georgiano Mikheil Saak’ashvili di invadere l’Ossezia del Sud causò lo scoppio della guerra russo-georgiana. Dopo la vittoria di Mosca e la firma nel 2008 di un Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza con entrambe le repubbliche secessioniste[15], nel 2014 la Russia ha concluso un Trattato di alleanza e partenariato strategico con l’Abcasia[16] e, l’anno successivo, un Trattato di alleanza e integrazione con l’Ossezia del Sud[17]. Le autorità abcase e ossete hanno accolto questi nuovi trattati come un importante passo verso l’annessione alla Russia, ma molti osservatori hanno fatto notare che gli stessi, che pure hanno riportato l’attenzione sul tema, nella pratica non abbiano cambiato nulla rispetto alla situazione precedente[18]. Anche in questo caso la Federazione Russa ha adottato una politica di “passaportizzazione” a favore degli abitanti di Abcasia e Ossezia del Sud. Come accertato dalla Missione d’inchiesta internazionale promossa dal Parlamento europeo sul conflitto in Georgia (Commissione Tagliavini), la pressoché assenza di requisiti necessari per la concessione della cittadinanza ad abcasi e osseti[19], è qualificabile come una politica di naturalizzazione collettiva e, in quanto tale, una violazione della sovranità georgiana e del diritto internazionale[20].

Nel percorso della Georgia verso le istituzioni euro-atlantiche, le problematiche legate all’integrità territoriale e alle tensioni con la Russia sono state fino ad ora insormontabili. Ciò nonostante, il Paese cerca di essere costantemente coinvolta nelle iniziative euro-atlantiche, tanto che dal 2015, insieme ad altri Paesi non membri della NATO quali Svezia, Finlandia e Ucraina, contribuisce alla NATO Response Force (la forza di reazione rapida della NATO)[21]. La Georgia ha inoltre partecipato all’esercitazione Noble Partner 2018 insieme ad altri tredici Paesi sotto guida statunitense[22]. Dopo aver lavorato per anni nel quadro del partenariato orientale dell’Unione europea, nel 2017 la Georgia ha compiuto un ulteriore passo verso l’integrazione europea grazie alla liberalizzazione del regime dei visti per l’area Schengen[23]. Tuttavia, fintanto che l’integrità territoriale della Georgia non sarà ripristinata è impensabile vedere il Paese come membro dell’Unione europea e della NATO.

Sebbene Abcasia e Ossezia del Sud abbiano una storia molto simile, la loro situazione politica, economica e istituzionale è differente. La prima riceve infatti aiuti principalmente per la costruzione di infrastrutture, mentre la seconda dipende dalla Russia anche per il pagamento degli stipendi, la fornitura di servizi di base e per tutte le altre esigenze di bilancio. Si stima che questi aiuti finanziari, economici e militari costino al Cremlino solo lo 0,016% del suo bilancio federale[24]. Attraverso finanziamenti diretti gratuiti, la Russia ha sostenuto il 60% del fabbisogno abcaso (con circa 35 milioni di dollari)[25] e circa l’86% del bilancio annuale osseto (con circa 112 milioni di dollari)[26]. L’impegno russo nella regione risulta quindi ridotto dal punto di vista economico, ma è molto rilevante dal punto di vista politico.


3. Donbass

Lo scenario che si è più prestato all’attenzione della cronaca moderna è senza dubbio quello ucraino. Uno dei principali aspetti dell’eredità sovietica è la profonda russificazione dell’area sud-orientale del Paese, specialmente nelle regioni separatiste di Luhans’k e Donec’k che, insieme alla Crimea, hanno subìto le conseguenze delle tensioni etniche e culturali con la Russia. Infatti, secondo l’ultimo censimento ucraino (2001), la popolazione russa etnica del Donbass si attesta al 39% del totale[27]. In Crimea, la cui composizione etnica è stata completamente stravolta dalle politiche di colonizzazione e deportazione zariste e sovietiche[28], il censimento condotto immediatamente dopo l’annessione della penisola alla Federazione Russa, ha mostrato una presenza di russi etnici pari al 65% della popolazione totale (contro il 58% di quello ucraino del 2001)[29].

Per fomentare la destabilizzazione dell’Ucraina e costruire il consenso per le proprie politiche, il Cremlino dipinge da anni il Paese come un sottoprodotto della politica imperiale e sovietica, che ha accorpato in un unico Stato territori privi di soggettività storica o nazionale. Di conseguenza, l’Ucraina viene descritta come uno Stato “nazionalizzante” che non garantisce uguali diritti alla popolazione di lingua russa[30]. Le divisioni sorte all’interno della società ucraina non possono essere ridotte alla mera questione linguistica, visto che le statistiche non mostrano correlazioni tra russofonia e idee filorusse, mentre sono i russi etnici a dichiararsi più propensi a sostenere le cause separatiste[31]. In un sondaggio condotto nelle otto oblasti rivendicate dai separatisti della Novorossiya, solo l’11% degli intervistati ha manifestato il proprio appoggio per tale causa mentre il 74% si è detto contrario. Persino nelle oblasti ribelli di Luhans’k e Donec’k, devastate dalla guerra, il consenso al progetto separatista si è limitato al 19% della popolazione totale, con oltre la metà della stessa contraria alla presenza di truppe russe nel territorio[32].

A seguito della guerra in Crimea, l’insurrezione di Luhans’k e Donec’k ha causato lo scoppio del conflitto nel Donbass, attualmente in corso. Le autoproclamate Repubbliche Popolari di Luhans’k e Donec’k hanno cercato di ricostruire la Novorossiya, non riuscendo però a estendere le rivolte al resto dell’Ucraina, aggiungendo queste entità separatiste al novero delle dipendenze della Russia. Il sostegno alle forze secessioniste del Donbass costa al Cremlino almeno lo 0,6% del proprio budget federale annuo (pari a circa un miliardo di dollari), al netto delle forniture di viveri, materie prime e gas (difficilmente stimabili)[33]. In questo contesto, la politica russa pare avere definitivamente spinto l’Ucraina verso le istituzioni euro-atlantiche. Tuttavia, è proprio il separatismo, in aggiunta alle oggettive difficoltà politiche del Paese, che rende poco probabile nel breve termine un suo ingresso nelle istituzioni occidentali.

L’Ucraina è infatti al centro di un gigantesco dilemma geopolitico. La Federazione Russa ha tutto l’interesse di mantenere allineato il proprio vicinato, ma è ormai difficile credere che Kiev possa tornare verso Mosca. Al Paese non resta quindi che intraprendere la via euro-atlantica, in un percorso che si presenta però irto di ostacoli. La NATO non potrà infatti procedere all’ammissione dell’Ucraina fino a quando la sua integrità territoriale non sarà ripristinata. Kiev si contraddistingue inoltre per una serie di politiche incompatibili con i valori sanciti dai Trattati dell’Unione europea, dimostrando incapacità nell’accoglimento delle richieste occidentali. Le politiche filo-ucraine dei governi occidentali rispondono quindi più a istanze strategiche e antirusse che alla reale volontà di includere Kiev nel processo di integrazione euro-atlantica.


Conclusioni

La strategia dei “conflitti congelati” si configura come un investimento della Federazione Russa per la conservazione dell’influenza nello spazio post-sovietico, regione nella quale Mosca un tempo esercitava il proprio potere sovrano. Il sostegno alle forze separatiste in Transnistria, Ossezia del Sud, Abcasia e Donbass conferisce al Cremlino un potere di veto all’allargamento dell’Unione europea e della NATO verso i propri confini [34], visto che entrambe richiedono stabilità politica e integrità territoriale come elementi per ambire alla membership. Embarghi, sussidi, differenziazioni sui prezzi energetici e cancellazione dei debiti sono le principali armi della Russia. Ma a quale costo? Non si tratta di cifre spropositate, visto che il loro totale annuo ammonta a poco meno di un miliardo e mezzo di dollari (circa lo 0,1% del PIL russo).

Per l’economia russa è quindi un impegno sostenibile, ma bisogna ricordare che le conseguenze più gravi sono quelle provocate dalle sanzioni occidentali. Spinte dalle preoccupazioni dei Paesi dell’Europa orientale che ne fanno parte, le istituzioni euro-atlantiche hanno reagito duramente alle aggressive politiche del Cremlino, con il conflitto in Ucraina che rappresenta solo l’ultimo atto di un costante riacutizzarsi delle tensioni tra Oriente e Occidente. La crescente affinità filorussa di alcuni importanti esponenti della politica europea non ha però impedito il maturare dello scenario attuale. Le misure di restrizione che la Russia ha sofferto a seguito della crisi in Crimea hanno avuto degli effetti disastrosi sulla sua economia. Congiuntamente all’abbassamento del prezzo del petrolio e alla dilagante crisi finanziaria che colpì la Russia tra il 2014 e il 2017, il valore del rublo è crollato.

La chiusura europea ha spinto il Paese a cercare nuovi mercati e ciò le ha permesso di mantenere stabili le proprie esportazioni reali, dimezzatesi però in termini nominali proprio a causa della svalutazione della propria valuta[35]. Inoltre, la minor presenza economica in Europa centrale e orientale [36] per la Russia significa perdere un altro importante strumento di influenza politica verso i Paesi di questa regione. Non si tratta quindi di stabilire se la strategia dei conflitti congelati sia sostenibile in termini di costi, ma se sia conveniente nel lungo termine a livello strategico, politico ed economico. Certamente, ciò ha impedito all’Unione europea e alla NATO di espandersi ulteriormente verso Oriente, ma le tensioni con l’Occidente stanno spingendo sempre più la Federazione Russa tra le braccia della Cina, che nel suo emergere come potenza globale potrebbe divenire il rivale del futuro.


Riferimenti

[1] Per approfondimenti vedi G. Zunino, Nord Stream 2 – From Russia with love (and gas), AMIStaDeS, 18 aprile 2019.

[2] R. Orttung, C. Walker, Putin’s Frozen Conflicts, in “Foreign Policy”, 13 febbraio 2015.

[3] Cfr. P. Kolstø, A. Edemsky, N. Kalashnikova, The Dniester Conflict: Between Irredentism and Separatism, in Europe-Asia Studies, vol. 45, n. 6, Taylor & Francis Ltd., JSTOR, 1993, pp. 973-1000.

[4] Cfr. S. Wolff, The Transnistrian Issue: Moving Beyond The Status-Quo, UK Directorate-General for External Policies of the Union, University of Birmingham, 2012, pp. 4-42.

[5] S. Fischer, Not Frozen! The Unresolved Conflicts over Transnistria, Abkhazia, South Ossetia and Nagorno-Karabakh in Light of the Crisis over Ukraine, Stiftung Wissenschaft und Politik, Berlino, 2016, pp. 19-21.

[6] C. Caryl, Novorossiya Is Back From the Dead, in “Foreign Policy”, 17 aprile 2014.

[7] N. Popescu, L. Litra, Transnistria: a bottom-up solution, European Council on Foreign Relations, Londra, 2012.

[8] A. Tabachnik, The Transnistrian challenge: Why tensions are escalating between Russia and Moldova, EUROPP: European Politics and Policy, The London School of Economics and Political Science.

[9] Moldavia, Agenzia internazionale dell’energia (https://www.eu4energy.iea.org/countries/moldova

[10] Jaroszewicz M., Całus K., Moldova: a year after the introduction of the visa-free regime, Ośrodek Studiów Wschodnich, 2015. Disponibile su: https://www.osw.waw.pl/en/publikacje/analyses/2015-05-06/ moldova-a-year-after-introduction-visa-free-regime

[11] Najarian M., Moldova’s Reliance On Russia, Transdniester For Energy Seen As Risky, cit.

[12] Kofner Y., Moldova received EAEU observer status. What next?, cit.

[13] A. Petersen, The 1992-93 Georgia-Abkhazia war: a forgotten conflict, in “Caucasian Review of International Affairs”, vol. 2, n. 4, 2008, pp. 9-21.

[14] G. Toal, Near abroad. Putin, the West and the contest over Ukraine and the Caucasus, Oxford University Press, 2017, pp. 283-286.

[16] Informazioni dal sito ufficiale della Presidenza della Repubblica di Abcasia.

[18] S. Saari, The New Alliance and Integration Treaty between Russia and South Ossetia - When does integration turn into annexation?, in “Fiia Comment”, n. 9, The Finnish Institute of International Affairs, 2015.

[19] S. Fischer, Not Frozen! The Unresolved Conflicts over Transnistria, Abkhazia, South Ossetia and Nagorno-Karabakh in Light of the Crisis over Ukraine, cit., pp. 19-21.

[21] Relations with Ukraine, NATO, 2018. Disponibile su: https://www.nato.int/cps/su/natohq/topics_377 50.htm#

[22] Oltre alla Georgia, hanno partecipato sotto la guida degli Stati Uniti: Armenia, Azerbaigian, Estonia, Francia, Germania Lituania, Norvegia, Polonia, Regno Unito, Turchia e Ucraina. Vedi Noble Partner 2018 launches, Ministero della Difesa della Georgia, 1° agosto 2018. Disponibile su: https://mod.gov.ge/en/ news/read/6748/noble-partner-2018-launches

[23] Relazioni dell’UE con la Georgia, Consiglio dell’Unione europea. Disponibile su: http://www.consilium.europa.eu/it/policies/eastern-partnership/georgia/

[24] W. M. A. Gerrits, M. Bader, Russian patronage over Abkhazia and South Ossetia: implications for conflict resolution, in “East European Politics” vol. 32, n. 3, 2016, pp. 297-313.

[25] Dati dal sito ufficiale della Presidenza della Repubblica di Abcasia.

[27] Censimento dell’Ucraina del 2001, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database.

[28] Cfr. B. G. Williams, The Crimean Tatar exile in Central Asia: A case study in group destruction and survival, in Central Asian Survey, vol. 17, n. 2, Routledge, Taylor & Francis Ltd., New York, 1998, pp. 285-317.

[29] Censimento della Federazione Russia in Crimea del 2014, Population statistics of Eastern Europe & former USSR Database.

[30] A. Portnov, Post-Maidan Europe and the New Ukrainian Studies, in “Slavic Review”, vol. 74, n. 4, Cambridge University Press, JSTOR, 2015, p. 723-725.

[31] Ivi, pp.756-757.

[32] Ivi, p. 262.

[33] J. Röpcke, How Russia finances the Ukrainian rebel territories, Bild, 16 gennaio 2016.

[34] D. Matsaberidze, Russia vs. EU/US through Georgia and Ukraine, in “Connections”, vol. 14, n. 2, Partnership for Peace Consortium of Defense Academies and Security Studies Institutes, JSTOR, 2015, pp. 85-86.

[35] Valore delle esportazioni della Federazione Russa, The World Bank: https://data.worldbank.org/indicator/NE.EXP.GNFS.CD?locations=RU

[36] N. Megaw, “Russian trade hit by sanctions and commodity crisis”, in Financial Times, 14 febbraio 2016.

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