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Search and Rescue nel Mediterraneo: dall'obbligo di salvataggio in mare alla chiusura dei porti

Aggiornamento: 14 dic 2020

1. Introduzione

Nel corso degli ultimi anni, in corrispondenza con la progressiva intensificazione del fenomeno migratorio verso le coste italiane e, più in generale, verso l'Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, sono aumentate le controversie tra gli Stati europei di frontiera sul tema delle attività di ricerca e soccorso in mare (SAR, Search and Rescue) e degli sbarchi.

In Italia, i tentativi annunciati a più riprese attraverso i canali social da parte dell'attuale Ministro dell'Interno di chiudere i porti alle navi che effettuano operazioni di soccorso nel Mediterraneo hanno attirato l'attenzione mediatica, divenendo argomenti chiave del dibattito pubblico italiano ed europeo.

Al di là della portata mediatica del fenomeno, spesso strumentalizzato per fini puramente politici e propagandistici, le attività di ricerca e soccorso in mare rappresentano per gli Stati costieri un vero e proprio obbligo internazionale, che prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell'immigrazione clandestina.

Le scelte politiche dettate attraverso l'imposizione di specifici Codici di condotta, in accordo con le autorità libiche, o di decisioni impartite a livello ministeriale devono tenere conto della portata degli obblighi internazionali in materia di ricerca e soccorso in mare. Tali obblighi impongono di garantire, nel più breve tempo possibile, il soccorso delle persone in situazione di pericolo in mare e lo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro dove le operazioni di soccorso possano considerarsi a tutti gli effetti concluse.


2. Gli obblighi internazionali di soccorso in mare

L'obbligo di prestare soccorso in mare scaturisce da una molteplicità di fonti normative internazionali. La prima è la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), anche conosciuta come Convenzione di Montego Bay, del 10 dicembre 1983. Essa rappresenta la fronte primaria del diritto internazionale del mare e sancisce che ogni Stato contraente debba obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mezzo al mare ovvero a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto.

In particolare, l'art. 98 della Convenzione impone al comandante di una nave, nei limiti del possibile e senza che la nave, l'equipaggio e i suoi passeggeri siano esposti a gravi rischi:

a) di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare;

b) di procedere quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di assistenza e nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;

c) di prestare soccorso, in caso di collisione, all'altra nave, al suo equipaggio e ai passeggeri e, nella misura possibile, di indicare all'altra nave il nome e il porto di iscrizione e il primo porto del suo approdo.

Sempre all'art. 98, la Convenzione prevede inoltre l’obbligo, per gli Stati, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l’esecuzione di accordi multilaterali.

La seconda fonte normativa è la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Convenzione SOLAS – Safety of Life at Sea), firmata nel 1974. La Convenzione SOLAS obbliga il comandante di una nave “che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione” [Capitolo V, Regolamento 33(1)].

Da entrambe le Convenzioni emerge dunque un chiaro dovere di salvataggio in mare a tutela della vita umana, che riguarda sia i comandanti delle navi sia gli Stati contraenti. Rientra inoltre nell'obbligo di ricerca e soccorso in mare l'individuazione di un porto sicuro dove sbarcare le persone in pericolo di vita.

Tuttavia, è la Convenzione di Amburgo del 1979 a rappresentare il testo più rilevante in materia di obblighi di ricerca e soccorso in mare.


3. La Convenzione di Amburgo e le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare

La Convenzione di Amburgo, detta anche Convenzione SAR (Search and Rescue), è stata siglata ad Amburgo nel 1979 e stabilisce nel dettaglio gli obblighi, le procedure e le modalità organizzative che gli Stati contraenti devono seguire al fine di assicurare le attività di ricerca e soccorso in mare delle persone in pericolo. In particolare, il punto 2.1.9 di tale Convenzione stabilisce che nel caso in cui le Parti contraenti vengano informate che “una persona è in pericolo di mare, in una zona in cui una parte contraente assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e salvataggio, le autorità responsabili di detta parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l'assistenza possibile”. Gli Stati parte sono obbligati a “garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo di mare senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10) e a “fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro” (Capitolo 1.3.2).

La Convenzione SAR impone dunque un preciso obbligo di ricerca e soccorso delle persone in pericolo in mare e sancisce il dovere di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro, indipendentemente dalla nazionalità e dallo status giuridico della persona in pericolo. A tal proposito, la Convenzione fornisce una definizione ben precisa dei concetti di “salvataggio” e di “pericolo in mare”. Per “salvataggio” si intende un'operazione finalizzata al recupero di persone in pericolo in mare, provvedendo alla loro iniziale assistenza medica o ad altre esigenze e trasportandoli, nel più breve tempo possibile, in un luogo sicuro. Per “pericolo in mare” si intende invece la particolare situazione in cui vi è la ragionevole certezza che una persona, una nave o altra imbarcazione è minacciata da grave e imminente pericolo e richiede, pertanto, immediata assistenza.

La Convenzione SAR si basa sul principio della cooperazione internazionale, prevedendo la definizione di zone di ricerca e soccorso in mare a copertura delle acque extraterritoriali e la collaborazione con gli Stati limitrofi nell'identificazione di un luogo sicuro dove sbarcare i naufraghi. Proprio per far fronte ai problemi legati all'ottenimento del consenso di uno Stato allo sbarco delle persone soccorse, gli Stati membri dell'Organizzazione marittima internazionale (IMO, International Maritime Organization) hanno adottato, nel 2004, emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR.

Allo scopo di preservare l'integrità dei servizi di ricerca e soccorso, garantendo che le persone in pericolo in mare vengano assistite e, allo stesso tempo, che vengano ridotti al minimo gli inconvenienti per la nave che presta assistenza, tali emendamenti richiedono agli Stati e alle Parti contraenti di:

a) coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in difficoltà in mare siano sollevati dai propri obblighi con una minima ulteriore deviazione rispetto alla rotta prevista dalla nave;

b) organizzare lo sbarco al più presto, per quanto praticabile.

Gli Stati devono dunque coordinarsi e cooperare nelle operazioni di soccorso, prendere in carico i naufraghi e individuare e fornire al più presto la disponibilità di luogo sicuro (POS, Place of Safety), che deve essere inteso come un luogo in cui le operazioni di soccorso e assistenza si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita.

Al fine di fornire una guida dettagliata alle autorità di governo e ai comandanti che si trovano a dover applicare gli emendamenti, il Comitato marittimo per la sicurezza dell'IMO ha elaborato delle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, attraverso le quali viene precisato che:

a) “il governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito” (para. 2.5);

b) “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata, le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale” (para. 6.12);

c) “sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative” (para. 6.13);

d) “lo sbarco di richiedenti asilo e rifugiati recuperati in mare in territori nei quali la loro vita e la loro libertà sarebbero minacciate dovrebbe essere evitato” (para. 6.17);

e) “ogni operazione e procedura, come l'identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco” (para. 6.20).


4. La zone SAR nel Mediterraneo e le controversie sull'identificazione di un porto sicuro

Tutti gli Stati costieri del Mediterraneo sono tenuti, alla luce della Convenzione di Amburgo che hanno ratificato, a mantenere un servizio di ricerca e soccorso. Al fine di coordinare meglio le attività di salvataggio in quest'area, nel corso della Conferenza dell'IMO tenutasi a Valencia nel 1997 è stato adottato un General Agreement on a Provisional SAR Plan attraverso il quale in Mar Mediterraneo è stato suddiviso in diverse zone SAR di competenza e sono stati stabiliti i limiti di tali zone, quale punto di partenza per favorire la conclusione di specifici accordi bilaterali e regionali.

Nonostante ciò, una serie di controversie permangono in relazione alla capacità di intervento degli Stati mediterranei e soprattutto alla questione dell'identificazione del porto sicuro.

In primo luogo, occorre evidenziare la particolarità della zona SAR maltese. Malta è responsabile di una zona SAR che si estende per circa 250 mila chilometri quadrati. La considerevole estensione di tale area ha notevoli ripercussioni sulle effettive capacità da parte dello Stato maltese di intervenire e ciò non sembra rispettare quanto stabilito dal paragrafo 2.1.8 della Convenzione di Amburgo, secondo il quale gli Stati costieri devono assegnarsi una zona SAR di estensione tale da garantire una pronta risposta alle chiamate di emergenza.

Pur essendo parte delle Convenzioni SAR e SOLAS, Malta non ha ratificato gli emendamenti del 2004, i quali prevedono che lo sbarco in un luogo sicuro debba avvenire nel Paese che ha coordinato i soccorsi. Non avendo sottoscritto tali modifiche, il governo maltese rifiuta di fatto di fornire lo sbarco in un porto sicuro anche quando il soccorso è avvenuto nella sua zona SAR.

Per limitare ulteriormente gli interventi nella propria area di competenza, lo Stato maltese si avvale spesso della cooperazione italiana per il pattugliamento della sua zona di responsabilità. Inoltre, il Centro di Coordinamento nazionale SAR di Malta non risponde alle imbarcazioni che lo contattano oppure non interviene quando interpellato dal Centro di Coordinamento nazionale SAR dell'Italia.

La mancata risposta del Centro di Coordinamento maltese non esonera comunque l'imbarcazione che ha avvistato le persone in pericolo dal prestare soccorso. Di conseguenza, la mancata risposta di Malta si traduce, nella maggior parte dei casi, in una richiesta di intervento all'Italia, che è tenuta a coordinare le operazioni di soccorso e a identificare e comunicare il luogo sicuro di sbarco sul proprio territorio nel rispetto della normativa internazionale.

Un secondo elemento da tenere in considerazione quando si fa riferimento alle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo riguarda la controversa esistenza di una “zona SAR libica”. Nel 2005 la Libia ha ratificato la Convenzione SAR e nel 2008 ha sottoscritto un Memorandum of understanding con Malta in materia di cooperazione, coordinamento e supporto delle operazioni di salvataggio in mare. Tuttavia, ad oggi non risulta istituita formalmente una zona di ricerca e soccorso di competenza dello Stato libico.

Il caso libico appare ulteriormente rilevante se si considera la situazione in cui versa il Paese. La Convenzione SAR specifica che, per essere efficace, il servizio di ricerca e soccorso deve essere gestito e sostenuto adeguatamente, oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo. Essa chiarisce inoltre che l'istituzione di una zona SAR è intrinsecamente subordinata alla circostanza che lo Stato contraente sia in grado di garantire l'operatività continua ed efficace dei servizi SAR nella propria area di competenza.

Di fatto, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez al-Sarraj, riconosciuto a livello internazionale, non ha la piena giurisdizione sulle coste libiche e alcune milizie locali che si oppongono al governo stesso hanno rapporti diretti con le unità della Guardia costiera libica. Di conseguenza, non è chiaro come la Libia, Paese privo di un'unica autorità di governo e di un'unica Centrale di Coordinamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali, possa identificare una zona SAR di propria competenza e assumersi la responsabilità di rispettare gli obblighi di salvataggio in mare e di sbarco in un luogo sicuro sul proprio territorio.


5. Le violazioni degli obblighi di soccorso in mare da parte dell'Italia

L'Italia ha ratificato tutte le Convenzioni internazionali che regolano il soccorso in mare e ha definito la propria zona SAR di competenza, la quale si estende per 500 chilometri quadrati, coprendo circa un quinto dell'intero Mediterraneo.

Le norme di diritto italiano relative all'obbligo di soccorso in mare si trovano innanzitutto all'interno del Codice di navigazione, il quale all'art. 69 stabilisce che “l'autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire”.

Vi sono poi i principi contenuti nella Costituzione dai quali si fa derivare l'obbligo di salvare vite umane in pericolo in mare, in particolare l'art. 2, che tutela i diritti inviolabili dell'uomo come il diritto alla vita e che richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, e l'art. 10, che impone allo Stato italiano di conformare il proprio ordinamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra cui quelle che riguardano il salvataggio in mare dei naufraghi e il riconoscimento del diritto di asilo allo straniero al quale nel suo Paese di origine sia impedito l'esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.

Negli ultimi mesi, in Italia si sono riscontrate gravi violazioni delle norme internazionali vigenti in materia di salvataggio in mare e diritto di asilo. Tali illeciti sono stati spesso perpetrati senza l'adozione di provvedimenti formali, ma solo attraverso l'utilizzo di comunicazioni sui canali social da parte dell'attuale Ministro dell'Interno italiano.

Si ricorda in particolare il caso della nave Aquarius che, nella notte tra il 9 e il 10 giugno 2018, aveva prestato soccorso a 629 persone, tra cui vi erano minori non accompagnati e donne incinte, operando sotto il coordinamento del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, il quale rappresenta il Centro di Coordinamento nazionale delle attività di ricerca e soccorso in mare per lo Stato italiano. Nonostante le attività di salvataggio fossero dunque avvenute sotto il coordinamento dell'Italia, il governo italiano aveva successivamente negato un porto sicuro alle persone soccorse, in totale violazione delle norme di diritto internazionale secondo cui le persone soccorse in mare devono essere trasportate nel porto sicuro più vicino alla zona di salvataggio e tale porto deve essere identificato dallo Stato che coordina le operazioni di salvataggio.

L'Italia non poteva dunque negare lo sbarco in un proprio porto, dal momento che tale operazione sarebbe stata essenziale al fine di completare le operazioni di salvataggio di cui lo Stato italiano si era assunto la responsabilità.

Il caso dell'Aquarius, risolto solo dopo che la Spagna di Pedro Sánchez aveva accettato di aprire i propri porti alla nave dopo diversi giorni di stallo, ha inoltre evidenziato il rischio di gravi violazioni dei diritti delle persone costrette a restare a bordo della nave in attesa dello sbarco. Tali violazioni riguardano in particolare il diritto di asilo e le garanzie sancite dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). In primo luogo, molti passeggeri dell'Aquarius erano presumibilmente rifugiati o richiedenti asilo, per cui la chiusura dei porti italiani configurava una violazione dell'art. 33 della Convenzione di Ginevra e dell'art. 4 del quarto protocollo della CEDU, che vietano i respingimenti in mare in nome del principio del non-refoulement e impongono allo Stato competente di esperire le procedure per l'ottenimento della protezione internazionale. In secondo luogo, le persone costrette a rimanere sulla nave, soprattutto i soggetti più vulnerabili, apparivano in evidente necessità di cure mediche e di cibo, acqua e medicinali. Le condizioni alle quali i naufraghi sono stati esposti in seguito alla chiusura dei porti da parte dell'Italia potevano dunque costituire trattamenti inumani e degradanti, in contrasto con l'art. 3 della CEDU, e un serio rischio per la loro vita, in violazione dell'art. 2 della CEDU.

Il caso della nave Diciotti ha invece messo in luce un problema di competenza nell'adozione della decisione di chiudere i porti. La Diciotti, nave appartenente alla Guardia Costiera italiana, era stata bloccata in mare dal Ministro dell'Interno, in attesa dell'indicazione di un porto sicuro dove sbarcare, dopo aver preso a bordo 67 persone, tra cui minori e donne in grave stato di salute, dalla nave mercantile Vos Thalassa, da cui tali persone erano state precedentemente soccorse.

In base alla Convenzione di Montego Bay, ratificata dall'Italia nel 1994, uno Stato sovrano può decidere di negare l'attracco a una nave che batte bandiera straniera se sussiste il sospetto che a bordo ci sia stata una violazione delle norme giuridiche nazionali e che lo sbarco della nave arrechi pregiudizio alla pace e alla sicurezza dello Stato costiero. Nel caso della nave Diciotti, si è trattato tuttavia di un mezzo militare italiano e non di una nave battente bandiera straniera. Di conseguenza, lo sbarco in un porto italiano non poteva essere vietato in via di principio.

Inoltre, va ricordato che il Ministero dell'Interno non ha competenza in materia di chiusura dei porti alle navi che prestano soccorso in mare, dal momento che tale compito spetta alla Capitaneria di Porto della Guardia Costiera che, su tale materia, fa capo al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Il caso della nave Asso 28 ha infine rilevato le problematiche relative all'identificazione del porto sicuro. Il 30 luglio 2018, la Asso 28, nave commerciale battente bandiera italiana, aveva soccorso 108 migranti partiti dalla Libia a bordo di un gommone. La nave era stata precedentemente contattata dalla Guardia Costiera libica per soccorrere l'imbarcazione, che in quel momento si trovava in acque internazionali, ma quasi sicuramente all'interno di una non meglio definita “zona SAR libica” che, come abbiamo visto in precedenza, non risulta ad oggi formalmente istituita.

Dopo aver soccorso i migranti, la Asso 28 aveva ricevuto l'ordine da parte del Centro di Coordinamento italiano di riportare i migranti in Libia. Tuttavia, la circostanza che le unità libiche abbiano, nel caso di specie, partecipato ai soccorsi, effettuati sotto il coordinamento della Marina militare italiana, non esime le autorità italiane dall'individuazione di un porto sicuro di sbarco, che in ogni caso non può essere un porto libico.

Alla luce dei numerosi rapporti internazionali sulla situazione in Libia, nessun porto libico può essere infatti qualificato come luogo sicuro di sbarco, non avendo il Governo di Tripoli ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato ed essendo la situazione dei migranti in Libia caratterizzata da sistematiche violazioni dei diritti umani.

In questo senso, il respingimento in Libia delle persone soccorse in mare rappresenterebbe una gravissima violazione della normativa internazionale, europea e nazionale, con riferimento sia al diritto del mare sia alle norme in materia di diritti umani e protezione di richiedenti asilo e rifugiati.

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