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La sovra-estensione turca e il ritorno (forse) a più miti consigli di Erdoğan

Aggiornamento: 7 set 2021

Parte 1. Sovra-estensione e isolamento


Negli ultimi 5 anni, a partire dall’ormai ‘lontano’ 15 luglio 2016 - giorno del tentato e fallito golpe ai danni del leader turco Recep Tayyip Erdoğan e data centrale per comprendere l’accelerazione nella svolta autoritaria erdoğaniana alla politica turca – la comunità internazionale ha dovuto fare i conti con l’emergere di un nuovo attore incline all’esercizio di una politica estera assertiva, bellicosa e marcata da una forte impronta ideologica. In questo lasso di tempo, infatti, la ‘nuova Turchia’ (yeni Türkiye) di Erdoğan si è affermata sullo scenario internazionale grazie ad un forte slancio e nuovo protagonismo all’interno di molteplici aree di crisi latenti. Ciò che ha colpito maggiormente non è stata tanto la politica pro-attiva in sé e per sé, quanto i mezzi, le modalità e la retorica con cui si è manifestato tale attivismo. È infatti dai primi anni Duemila che le iniziative in politica estera di Ankara sono andate ampliandosi - nei mezzi, negli scopi e nel raggio d’azione – parallelamente alla sua notevole crescita economica interna. Ciò che è vistosamente mutato negli ultimi anni è il progressivo alienamento di Ankara rispetto alle direttrici politico-strategiche e valoriali dei tradizionali partner occidentali. Quello che una volta veniva caratterizzato come “il soft-power turco” al servizio di una politica volta allo “zero problemi con i vicini” si è tramutato nell’ultimo decennio in un crescente interventismo militare dettato principalmente, se non esclusivamente, da un interesse nazionale costruito e interpretato dal leader turco, e che ha comportato un sostanziale isolamento della Turchia nella regione.


1. Assertività e crisi multiple


Agli occhi di molti, negli ultimi anni Ankara è sembrata davvero voler metter a ferro e fuoco il suo vicinato, l’area mediterranea e riorientare la propria politica verso un improbabile asse sino-russo. Il leader turco ha fatto parlare di sé e portato la Turchia al centro di accesi dibattiti mediatici: dalle molteplici operazioni militari in terra siriana ai costanti bombardamenti nel Kurdistan iracheno attraverso i porosi confini; dalle schermaglie crescenti con la Grecia, sempre più cariche di tensione e condite di una retorica infiammata nelle acque dell’Egeo e lungo i confini terrestri, alle interferenze nel Mediterraneo Orientale di legittime esplorazioni dei fondali marini condotte da navi battenti bandiera alleata.

Fino ad arrivare all’invio di mercenari, consiglieri e personale d’addestramento, mezzi e forniture militari in Libia e in Nagorno-Karabakh. È facile constatare come Erdoğan abbia spinto la Turchia verso un coinvolgimento attivo in tutta una serie di crisi - alcune fresche e ancora aperte (Siria, Libia), altre latenti e sedimentate da decenni (Cipro-Nagorno) - che de facto hanno posto Ankara in rotta di collisione con i tradizionali partner e, parallelamente, creato le condizioni per un discreto, seppur labile, livello d’intesa con Mosca e Pechino.


2. Gli equilibrismi con Mosca


L’assenza di una superpotenza nella regione mediorientale e nel suo vicinato (Balcani, Caucaso), specialmente a partire dal progressivo retranchement statunitense e alle varie crisi interne all’Unione Europea, hanno alimentato le già presenti volontà e auto-raffigurazione della Turchia come potenza emergente. In particolare, nell’area mediorientale le preoccupazioni di sicurezza e la ricerca di un equilibrio di potenza a proprio favore sembrano aver guidato la politica estera turca in Siria e Iraq portando Ankara a perseguire una politica di bilanciamento rispetto alla posizione statunitense. La Turchia ha cercato in ogni modo di contrastare la politica americana di supporto ai curdi-siriani per rafforzare la propria posizione e poter influenzare maggiormente gli equilibri nella regione. Con il progressivo coinvolgimento di Mosca negli affari mediorientali, e dopo il picco di tensioni raggiunto con l’abbattimento del Su-24 russo da parte di un F-16 turco lungo il confine turco-siriano nel novembre 2015[1], la Turchia ha mostrato maggiore volontà di allineare le sue politiche a quelle russe, trovando una maggiore affinità di interessi sul breve periodo. Turchia e Russia sembrano coordinare le proprie posizioni politico-diplomatiche, su una base day-by-day e contestuale all’emergere e svilupparsi della situazione, in opposizione a quella statunitense e per ottenere maggior peso e influenza assieme.

Siria e Nagorno-Karabakh sono due lampanti esempi di come Russia e Turchia abbiano trovato un modus vivendi che permette loro di perseguire i rispettivi interessi senza interferire o ostacolare quelli altrui, almeno fino ad oggi.

L’accordo sulla vendita (e l’effettivo acquisto) del sistema di difesa S-400 russo rappresenta, invece, da una parte la (tentata) saldatura delle nuove relazioni turco-russe, dall’altra il grimaldello con cui Mosca punta anche a scardinare le relazioni turco-statunitensi e creare frizioni interne alla NATO.

[a]


Alla luce della storica rivalità tra Russia e Impero Ottomano/Turchia, e dal momento che lo stesso ingresso turco nella NATO è stato determinato anche e soprattutto dalla sentita pressione e minaccia sovietica, tale avvicinamento tra i due paesi non può lasciare indifferenti. Sicuramente non ha lasciato indifferenti i vertici politico-militari statunitensi, pronti non solo a minacciare ma anche implementare il regime sanzionatorio verso Ankara in seguito all’acquisto del sistema S-400, dopo averla precedentemente esclusa dal programma F-35.


Quanto questo asse tra Ankara e Mosca possa svilupparsi in maniera più approfondita, trasformandosi in una genuina relazione priva di reciproci sospetti, diffidenze e critici step-back è ancora tutto da vedere. Sia perché il posizionamento geopolitico dei due Paesi, come la storia insegna, mostra una tendenza al conflitto-opposizione, o quantomeno rende Turchia e Russia due competitor naturali; sia perché, ad esempio, le due potenze si trovano a supportare fazioni opposte nel teatro libico, chiaro esempio di una non totale compatibilità di interessi. Tuttavia, più a lungo riusciranno a convivere e a mantenere un equilibrio più sarà facile mitigare e superare la tradizionale percezione turca di Mosca come minaccia; anche alla luce dei crescenti sentimenti antioccidentali.


3. Lo sguardo a Est verso Pechino


Russia e Cina sono anche due dei tre Paesi con cui Ankara ha i maggiori scambi commerciali, venendo solo dopo la Germania[2]; tuttavia, soprattutto quelli con la Repubblica Popolare Cinese sono caratterizzati da un forte deficit commerciale[3]. La cooperazione turco-cinese ha visto una crescita esponenziale: dal 2016 sono stati infatti firmati più di 10 accordi bilaterali, mentre nel 2019 gli investimenti esteri diretti (IDE) di Pechino hanno raggiunto quota 3 miliardi. Questi, pur rappresentando solo l’1% del totale, sono in crescita - con la Cina che punta(va) a raddoppiarne il volume entro il 2021- e indirizzati verso settori

strategici[4]. È chiaro come siano due le ragioni dietro questa nuova intimità turco-cinese: da una parte il costante allontanamento di Ankara dai tradizionali partner occidentali post-luglio 2016; dall’altra il crescente protagonismo globale cinese.


La Turchia ha intenzione di sfruttare la propria posizione strategica al crocevia tra Asia, Europa e Africa per ritagliarsi un ruolo di rilievo all’interno del megaprogetto Belt and Road Initiative (BRI) cinese. Per un leader che ha fondato la propria carriera politica sulla modernizzazione urbana a ritmi forzati del Paese – soprattutto della sua ‘vetrina’, Istanbul[5] – e che continua a basare buona parte della propria retorica sui grandiosi risultati ottenuti riportando la Turchia tra ‘i big del mondo’, l’opportunità offerta da una collaborazione con Pechino non può esser persa.

[b]


Dal punto di vista finanziario le banche cinesi ICBC e Bank of China nel giugno 2019 hanno contribuito a palliare (in parte) le carenze nelle riserve di valuta estera turca legate alla crisi diplomatica turco-statunitense e al crollo della lira turca. Tra il maggio e l’agosto del 2018 Ankara ha affrontato infatti una delle più gravi fluttuazioni dei tassi di cambio, dove il cambio dollaro/lira turca si è impennato dal 3.75 (dicembre 2017) al 7.22 (agosto 2018)[6]. I prestiti da parte delle due banche cinesi hanno svolto un ruolo cruciale per il governo turco in momenti delicati per la leadership di Erdoğan.


Se per il governo turco l’appoggio di Pechino rappresenta un più che necessario sostegno alla propria fragile economia – anche per evitare di dover rivolgersi alle istituzioni finanziarie multilaterali ben più esigenti dal punto di vista delle riforme interne - l’influenza cinese è ben visibile a livello politico nel cambio di retorica del leader turco nei confronti della minoranza turcofona Uigura della Cina occidentale. Nell’ormai lontano 2009 l’allora Primo Ministro Erdoğan non esitò a definire genocidio ciò che stava avvenendo nello Xinjiang, mentre da quando le relazioni con Pechino si sono approfondite Ankara ha mostrato sempre più indifferenza verso i ‘fratelli turchi’ asiatici, se non vera e propria subalternità alle richieste cinesi.


È opportuno tuttavia sottolineare come, al di là dei legami governativi o affinità personali tra le rispettive leadership, l’opinione pubblica generale delle due popolazioni nei confronti dell’altra è per lo più negativa. Anche e soprattutto per la questione Uigura che dagli anni Novanta è stata sempre un elemento cavalcato dal nazionalismo turco, mentre spina nel fianco per la propaganda e dunque popolo cinese. Secondo il più recente studio condotto dal The Center for Turkish Studies della Kadir Has University, solo il 16,1% degli intervistati ha indicato la Cina come Paese ‘amico’ della Turchia, contro un 63,7% di risposte negative (e 20,2 che non si sono espressi).


Se queste percezioni possono esser ignorate dal leader turco, e se la questione Uigura può esser cinicamente accantonata per lasciar spazio ‘al business’, più problematiche sono invece una serie di realtà che pongono potenzialmente Cina e Turchia come competitor. Tra queste vi è appunto l’orbita attrazionale cinese per quei paesi turcofoni dell’Asia Centrale che rischia di ridimensionare ulteriormente l’influenza della Mezzaluna e ridurre il mercato per le aziende turche. Questa problematicità è presente, e il leader turco lo sa bene, anche nel continente africano verso cui Erdoğan sta cercando di acquistare sempre più influenza, pur ammettendo di non potersi permettere di competere con il colosso cinese. Infine, la proiezione cinese verso il Mar Mediterraneo potrebbe mettere in rotta di collisione i due paesi. La Turchia cercherà di giocare un ruolo pivotale di collegamento Est-Ovest e non gradirà vedersi bypassata: l’entrata diretta di un attore così importante nel bacino mediterraneo sottrarrà influenza ai già numerosi attori che qui convivono e competono.


4. L’asse con il Qatar


Per far fronte alla crisi monetaria che ormai da tre anni sta affliggendo il paese (con alti e bassi) e parallelamente perseguire l’attivismo e l’interventismo che ha caratterizzato la propria politica estera, ancora più fondamentale è stato il sostegno finanziario ricevuto dall’alleato Qatar.


Le relazioni tra Ankara e Doha, stabilite formalmente a livello diplomatico nel 1972, hanno conosciuto un costante approfondimento a partire dagli anni 2000 sotto la leadership di Erdoğan. Durante il primo decennio del XXI secolo Turchia e Qatar si sono ritrovate sempre più spesso a adottare simili posizioni riguardo una moltitudine di questioni regionali e internazionali (Fratellanza Musulmana, assistenza umanitaria come strumento di soft power, influenza nel Corno d’Africa, crescente simpatia nel mondo arabo, relazioni amichevoli con Iran), cosicché all’emergere delle c.d. Primavere Arabe i due Paesi si ritrovarono dalla stessa parte, in particolare riguardo l’appoggio e il sostegno ai movimenti della Fratellanza Musulmana.


Gli eventi del 2011 ‘crearono per entrambi il contesto ideale per realizzare i propri obiettivi geopolitici: sicurezza e sovranità per Doha, e l’opportunità di vedersi riconosciuta come influente attore regionale e globale per Ankara’[7]. L’allineamento delle proprie politiche estere su molteplici temi e teatri regionali portò i due Paesi a un avvicinamento progressivo sino alla creazione dell’High Level Strategic Council e la firma di un accordo militare nel dicembre 2014 che permise il dispiegamento di truppe e la creazione di una base militare turca in Qatar, completata nel 2019. Il crescente ricorso all’esercito da parte di Ankara e la sua proiezione all’esterno è diventato un elemento complementare al potere economico e mediatico di Doha, rafforzando così il nuovo ‘terzo polo[8]’, alternativo alla già presente spaccatura tra Arabia Saudita-Iran (e paesi/attori alleati).


L’asse turco-qatariota è andato così strutturandosi dal punto di vista economico-finanziario e militare negli anni successivi, costituendosi sempre più in contrapposizione a quello saudita-emiratino: Egitto e Libia hanno rappresentato (e rappresentano) forse gli scenari maggiormente esemplificativi dove osservare le diverse e opposte politiche perseguite dai due schieramenti.


La presenza militare turca in Qatar e gli stretti legami tra i due paesi attirarono forti critiche da parte dei restanti Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e così, quando nel giugno 2017 si ufficializzò la spaccatura interna all’Organizzazione e Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto ruppero le relazioni con Doha imponendo un embargo e boicottaggio diplomatico verso il Qatar, anche i rapporti di Ankara con questi Paesi peggiorarono sensibilmente (specie con EAU). Erdoğan, in supporto di Doha, non esitò a descrivere le politiche adottate come “disumane e contro i valori islamici’[9]. Il supporto turco verso l’alleato qatariota ha contribuito dunque all’approfondimento della spaccatura tra Ankara e Riyad (e dunque EAU e Egitto): due Paesi che ambiscono alla leadership della comunità sunnita, seppur in maniera completamente differente, come dimostrano gli opposti approcci alle rivolte arabe del 2011. Difatti, prendendo le difese e schierandosi con Doha, Ankara ha potuto godere in questi ultimi tre anni di un notevole supporto economico-finanziario da parte dell’alleato, ma ha costretto la Turchia a un progressivo isolamento regionale.


Conclusioni: un isolamento critico


Da una parte, perseguendo una politica estera assertiva e militarizzata al servizio di un interesse nazionale alternativo agli obiettivi dei suoi tradizionali alleati, Ankara si è costantemente alienata la benevolenza e l’appoggio di Stati Uniti e Unione Europea. Lo ha fatto perseguendo non una strategia ben delineata, ma attraverso scelte tattiche che oscillano tra le emergenze quotidiane e gli umori di Erdoğan; ciò ha portato Ankara a ricercare e trovare una precaria intesa con Mosca nel proprio vicinato e una nuova collaborazione economico-politica con Pechino. Dall’altra, supportando e affidandosi all’alleato Qatar si è ritrovata isolata all’interno della comunità dei paesi arabo-islamici e sempre più in rotta di collisione con Arabia Saudita ed Egitto. La centralità internazionale e il nuovo protagonismo regionale assunto negli ultimi anni dalla Turchia si scontrano poi con le limitate risorse materiali di cui dispone il Paese.


Se già nel 2017 c’era chi sottolineava come “il governo di Ankara è esposto al pericolo di overstretch, inteso come assunzione di un impegno – economico, geografico e militare – eccessivo rispetto alle proprie relative capabilities” data la latente fragilità del proprio sistema economico-finanziario[10]”, ciò è ancora più vero oggi alla luce delle ulteriori criticità emerse tanto dal punto di vista economico e politico interno, quanto dei mutamenti a livello internazionale. Nella seconda parte di questa analisi si cercherà di delineare le cause per cui il Presidente Recep Tayyip Erdoğan sarà tentato, se non costretto, ad un ridimensionato della propria assertività e retorica e un ritorno a più miti consigli.


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Note


[1] Ancora una volta preme segnalare il tentato golpe del luglio 2016 come vero e proprio turning-point. Tra le altre cose, Putin fu tra i primi a condannare i fatti e mostrare supporto al leader turco. Ben prima dei leader occidentali. [2] Anche se, considerando l’Unione Europea nel suo complesso essa costituisce il 42.4% delle esportazioni totali turche e il 32.3% delle importazioni nel 2019 https://ec.europa.eu/trade/policy/countries-and-regions/countries/turkey/ [3] nel 2019 le esportazioni turche verso Pechino sono state per 2,5 miliardi di dollari (2% del totale); le importazioni per 18,5 miliardi (10% del totale); BILENER, TOLGA (2020), “Relations Turquie-Chine Ambitions et limites de la coopération économique”, IFRI- Institut française des relations internationales, Notes de l’Ifri: Asie Visions, No. 116, October 2020 p.8 [4] China COSCO Holdings nel 2015 ha acquisito la maggioranza delle azioni del porto di Kumport ed è interessata a quelli di Mersin, Çandarli e Filyos. Nel dicembre 2019 sei imprese cinesi hanno acquistato il 51% delle azioni del terzo ponte sullo Stretto del Bosforo. Anche legato a ciò, è poi in discussione tra i due governi il finanziamento della mega-ferrovia Kars-Edirne. Infine, in Turchia come altrove nel mondo, la Cina è particolarmente interessata a sviluppare la rete 5G tramite l’azienda Huawei; BILENER, TOLGA (2020), op. cit, pp.11-13 [5] Da segnalare su questo tema il libro di GIOVANNA LOCCATELLI (2020), L'oro della Turchia: Il business dell’edilizia che ha stravolto l’aspetto del paese e il suo tessuto, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020 [6] GURR, TATLIYER, DILEK (2019), “The Turkish Economy at the Crossroads: The Political Economy of the 2018 Financial Turbulence”, Insight Turkey , Vol. 21, No. 4, p. 146 [7] BIROL BAŞKAN & ÖZGÜR PALA (2020), “Making Sense of Turkey’s Reaction to the Qatar Crisis”, The International Spectator, Vol. 55, n°2, 2020, p. 69 https://doi.org/10.1080/03932729.2020.1739846 [8]F. DONELLI (2019), Le due sponde del Mar Rosso: la politica estera degli stati mediorientali nel Corno d’Africa, Milano, Mondadori, 2019, p.169 [9]A very grave mistake is being made in Qatar, isolating a nation in all areas is inhumane and against Islamic values. It's as if a death penalty decision has been taken for Qatar https://www.bbc.com/news/world-middle-east-40261479 [10] F. DONELLI (2017), “Potenzialità e inconsistenze dell’attivismo globale turco”, Politics. Rivista di Studi Politici, n. 8, 2/2017, pp. 49-64 https://rivistapolitics.files.wordpress.com/2018/05/04_donelli_politics8.pdf


BIBLIOGRAFIA


T. BILENER (2020), “Relations Turquie-Chine Ambitions et limites de la coopération économique”, Notes de l’Ifri (Institut française des relations internationales), Asie Visions, No. 116, October 2020 https://www.ifri.org/fr/publications/notes-de-lifri/asie-visions/relations-turquie-chine-ambitions-limites-de-cooperation?fbclid=IwAR1Hzr-9shp9JMmGvDtjP-cbs31K0-vVU7FAYb_nbrXqvD3AW4C39u69zVk

B. BIROL & P. ÖZGÜR (2020), “Making Sense of Turkey’s Reaction to the Qatar Crisis”, The International Spectator, Vol. 55, n°2, 2020, p. 65-78 https://doi.org/10.1080/03932729.2020.1739846

F. DONELLI (2019), Le due sponde del Mar Rosso: la politica estera degli stati mediorientali nel Corno d’Africa, Milano, Mondadori, 2019, p.169

F. DONELLI (2017), “Potenzialità e inconsistenze dell’attivismo globale turco”, Politics. Rivista di Studi Politici, n. 8, 2/2017, pp. 49-64

GURR, TATLIYER, DILEK (2019), “The Turkish Economy at the Crossroads: The Political Economy of the 2018 Financial Turbulence”, Insight Turkey , Vol. 21, No. 4, p. 146

G. LOCCATELLI (2020), L'oro della Turchia: Il business dell’edilizia che ha stravolto l’aspetto del paese e il suo tessuto, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020


SITOGRAFIA


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