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Geopolitica di Haiti prima e dopo il terremoto

Aggiornamento: 1 nov 2020

Premessa

Haiti, com’è difficile raccontare la tua storia.

C’è qualcosa di eterno nella nostra idea di Haiti (così come di tanti altri posti del cosiddetto “Sud globale” e delle genti che lo abitano), come se fosse fuori dal tempo, come se non potesse mai cambiare e fosse, di conseguenza, senza speranza. Talvolta è una sorta di “oggettivazione” di ciò che è altro da noi.

Il proposito di questa analisi non è quello di constatare quanto è bello un Paese come Haiti in tutta la sua miseria e con tutti i suoi problemi. Si intende, piuttosto, ricordare che – per quanto le attenzioni della comunità internazionale siano spesso ondivaghe e legate al verificarsi di eventi straordinari e catastrofici – Haiti esisteva già prima del terremoto e che da sempre occupa un posto rilevante nello scacchiere geopolitico caraibico e internazionale e sia stata sfruttata dalle grandi potenze.


Introduzione: il decennio perduto di Haiti

A dieci anni di distanza dal terremoto di magnitudo 7 che il 12 gennaio 2010 colpì Port-au-Prince causando 300mila morti, da Haiti non arrivano buone notizie.

Sappiamo che Haiti non si è ancora ripresa, come dimostrano i detriti ancora visibili nelle strade di Port-au-Prince. Non sono, dunque, bastati i milioni di dollari donati da ogni parte del mondo per la ricostruzione, complici probabilmente la debolezza delle istituzioni pubbliche locali e la disorganizzazione degli aiuti internazionali. Per questo si parla di “decennio perduto” nella storia di Haiti.

C’è, poi, la crisi politica dello scorso autunno, quando hanno fatto il giro del mondo le immagini di un’Haiti in fiamme a causa delle proteste antigovernative, segnali preoccupanti del malcontento della popolazione causato dal carovita e dalla corruzione delle istituzioni. In un editoriale dello scorso 3 ottobre, la redazione di Juno7 – un giornale locale – affermava che il popolo haitiano si trovava ad un bivio della propria storia e doveva mettere da parte la propria fierezza di essere la prima repubblica nera al mondo per lavorare senza sosta per realizzare una leadership politica responsabile e capace di porre le basi per rifondare il paese[1].

Il Paese è polarizzato, diviso tra coloro che ritengono che Moise, l’attuale presidente, sia l’unico in grado di rimettere in sesto Haiti e coloro che invocano le sue dimissioni.

Le accuse vergognose di abusi e sfruttamento sessuale della popolazione locale rivolte ad alcuni rappresentati del personale internazionale presente sul posto “per aiutare Haiti”, mettono ulteriormente in ombra gli sforzi degli attori della ricostruzione e dello sviluppo. Perfino i peacekeepers della missione MINUSTAH delle Nazioni Unite sono stati coinvolti nelle accuse. La missione istituita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 1 giugno del 2004 con il mandato di ripristinare un ambiente sicuro e stabile, promuovere il processo politico, rafforzare le istituzioni governative e lo stato di diritti e di promuovere e proteggere i diritti umani (https://peacekeeping.un.org/en/mission/minustah) in seguito al terremoto si sarebbe dovuta occupare anche di supportare gli sforzi di ripresa immediata, ricostruzione e stabilizzazione all’interno del Paese.


Una nazione serbatoio al centro della globalità

Alcuni sostengono che il resto del mondo abbia scoperto l’esistenza di Haiti solo in seguito al terremoto.

In realtà, come spiega Alessandro Grandi “c’è voluta la forza brutale della natura per far girare lo sguardo del mondo verso Haiti”, che definisce una “nazione serbatoio” poiché storicamente sfruttata dall’esterno e poi abbandonata “come una vecchia carcassa d’auto sul ciglio di una polverosa autostrada poco battuta”[2].

Ad Haiti tutti, a prescindere dal proprio livello di alfabetizzazione, conoscono la storia della loro parte di isola. Ricordano con orgoglio la rivolta degli schiavi africani contro i coloni francesi, il successo della rivoluzione, i suoi eroi, la proclamazione dell’indipendenza e la nascita della prima repubblica nera, abitata da uomini liberi che un tempo erano stati schiavi, proprio nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.


Le relazioni con la Repubblica Dominica, luogo di migrazione

Nella storia di Haiti c’è la geografia di un’isola politicamente divisa. Il primo confine lo stabilirono i colonizzatori, perché prima i tainos abitarono tutta l’isola come un’unica civiltà pacifica e la chiamarono Haiti, cioè “la terra dalle alte montagne”.

Nel 1492 gli spagnoli, guidati da Colombo, arrivarono sull’isola e per prima cosa le diedero un nuovo nome, perché all’epoca nominare la terra significa possederla e, dunque, avere il diritto di occuparla, di lavorarla, di sfruttarla e di eliminare sistematicamente la popolazione che la abitava. Non sorprende, perciò, che la chiamarono Hispaniola, la Spagnola.

Alla fine del Seicento, poi, gli spagnoli cedettero ai francesi la parte occidentale dell’isola, che oggi corrisponde ad Haiti, ma mantennero il loro controllo a est, sull’attuale Repubblica Dominicana. Dopo l’indipendenza di entrambi gli Stati, gli abitanti di Haiti e della Repubblica Dominicana vissero come un solo popolo fino al 1844, quando la Repubblica Dominicana accusò il governo haitiano di corruzione e si proclamò indipendente.

Oggi la Repubblica Dominicana è per gli haitiani un luogo di migrazione. Negli slum di Santiago de los Caballeros vivono come possono i migranti haitiani che lavorano nelle coltivazioni di canna da zucchero e nel settore dell’edilizia, affamato di manodopera. Le comunità abitano un non-luogo perché gli slum sono una finzione geografica. Definiscono l’esterno e l’interno e, così, i confini permeabili della discriminazione, della miseria e della socialità continuamente oltrepassati da relazioni amicali, familiari, di accettazione, rifiuto e perfino conflitto che inevitabilmente si creano tra i migranti e le comunità di accoglienza. È questa la storia di ogni migrazione.


Il colonialismo francese e l’ingresso di Haiti nell’economia globale

L’economia haitiana è stata globalizzata fin dalle origini. Ciò è avvenuto attraverso il meccanismo del commercio degli schiavi, dello sfruttamento del lavoro nella sua forma peggiore e nell’esportazione incontrollata dei suoi frutti, in particolare lo zucchero. Anche l’insorgenza degli schiavi tra il 1791 e il 1804 e la rivoluzione furono fenomeni globali, perché implicarono la distruzione di un modello economico di stampo coloniale articolato in uno spazio intercontinentale. Altrettanto globale fu il debito che la neonata prima repubblica nera dovette pagare alla Francia come indennità per la cacciata dei coloni dall’isola. Le riparazioni chieste dai francesi – 150 milioni di franchi, circa 21 miliardi di dollari – dovevano colmare la perdita delle piantagioni, delle tonnellate di zucchero che erano state bruciate durante la rivoluzione e dei titoli di proprietà sugli schiavi stessi. Così iniziò il debito estero di Haiti.


Le relazioni con gli Stati Uniti: un’inaccettabile repubblica nera nel “cortile di casa” dello zio Sam

Da quando Haiti si è proclamata prima repubblica nera del mondo fino ad arrivare ai piani di ricostruzione dopo il terremoto, gli Stati Uniti hanno sempre avuto un ruolo nella storia di Haiti.

Prima, nella rivoluzione haitiana gli Stati Uniti videro esattamente ciò che era: un’insurrezione di schiavi africani a poche centinaia di miglia dalle proprie coste e, dunque, un fatto inaccettabile per un Paese che stava costruendo la propria identità di grande potenza proprio su un’economia schiavista.

All’inizio del Ventesimo secolo il settore privato statunitense negoziò una serie di concessioni per la costruzione di strade e l’avvio delle coltivazioni di banane anche attraverso gli espropri. L’ingerenza statunitense assunse la forma di un’occupazione militare tra il 1915 e il 1934, quando l’isola fu invasa dai marines.

Nella storia di Haiti non è mancata la dittatura. Nel 1957 un golpe portò al potere François Duvalier, conosciuto come Papa Doc, che tentò di mantenere il controllo della popolazione tramite la polizia segreta, la violenza e le esecuzioni degli avversari politici. Fu succeduto nel 1971 dal figlio Jean-Claude, solo diciannovenne e per questo soprannominato Baby Doc.

Anche Haiti ha i suoi eroi. Quelli della rivoluzione, uno fra tutti François Dominiqe Toussant-L’Ouverture che si mise a capo del movimento che fece la guerra d’indipendenza; e quelli contemporanei come il prete cattolico Jean-Bertrand Aristide, che nel 1991 fu eletto alla presidenza catalizzando su di sé le speranze di cambiamento della popolazione più povera e marginalizzata.

Anche in questo caso, gli Stati Uniti non rimasero indifferenti alle vicende haitiane. Come scrive Noam Chomsky, gli Stati Uniti non riuscivano a capire come in un paese come Haiti, distrutto dalla Francia e ridotto in miseria dall’interventismo statunitense, la popolazione riuscisse ancora a “prendere in mano le redini del proprio destino”[3].

Il colpo di Stato che destituì Aristide poco meno di un anno dopo la sua elezione non aiutò il prete dei poveri a compiere l’impresa.

Come spiega questo editoriale del New York Times, nel 1994, quando Aristide tornò alla presidenza grazie alla mediazione statunitense, la comunità internazionale si chiedeva se potesse essere lui il Mandela haitiano. Nella vicenda politica di Aristide c’è traccia del messianismo politico che accompagna la salita al potere dei leader democratici e non molto amati. Difatti, dal suo ritorno gli haitiani si aspettavano un immediato miglioramento delle loro condizioni di vita. Non avvenne. Nel 2004 Aristide fu rimosso da un colpo di Stato per la seconda volta (un record perfino per la politica haitiana) e i marines occuparono nuovamente il paese. Aristide e i suoi sostenitori accusarono gli Stati Uniti di aver organizzato il colpo di Stato.


Conclusioni

Nella storia di Haiti c’è tutto. Colonialismo, rivoluzione, occupazione, dittatura, colpi di stato, ingerenze di vario tipo – dai marines alle Nazioni Unite – legami di dipendenza, catastrofi naturali. C’è perfino un decennio perduto: l’ultimo.

Haiti è sempre stata la più moderna delle nazioni. La sua rivoluzione portata a termine con successo dagli schiavi africani contro una potenza europea può essere interpretata come il primo movimento di liberazione terzomondista.

L’eliminazione fisica e sistematica della popolazione originaria dei tanos può essere considerato, a posteriori, uno dei primi atti di genocidio della storia umana, benché sia noto che la definizione di genocidio risalga solo al secondo dopoguerra.

Haiti è stata al centro della prima globalizzazione in quanto punto di arrivo del commercio degli schiavi africani e perno dell’economia coloniale fondata sullo sfruttamento del lavoro e della terra volta all’esportazione delle ricchezze su scala intercontinentale.

Come scrive la giornalista statunitense Amy Wilents in Farewell, Fred Voodoo: A Letter from Haiti, “essere ad Haiti non è come essere altrove. Ad ogni angolo, in ogni conversazione, ogni volta che succede qualcosa, Haiti ti fa pensare, ti mette alla prova. Qui, in questo angolo abbandonato dei Caraibi, molti mondi e molti tempi collidono: Europa e Africa, Nord America e America Latina, il periodo coloniale e l’età della tecnologia, l’epoca dello schiavismo e quella della globalizzazione”[4].

Haiti non è mai stata fuori dal tempo. È sempre stata profondamente immersa nelle dinamiche geopolitiche che, nel tempo, ne hanno influenzato lo sviluppo. Prenderne coscienza è il primo passo per darle il posto che le espetta nella storia dell’umanità.

[1] Nous sommes à un carrefour de notre histoire de peuple où nous devrions ravaler pendant un certain temps notre fierté de Première République noire du monde, travailler sans relâche pour aboutir à un leadership politique responsable capable de poser les bases en vue d’organiser et de refonder notre pays. Ainsi nous mériterons de la patrie! [2]A. GRANDI, “Haiti nello scacchiere geopolitico: il perché della sua povertà”, in Haiti: l’isola che non c’era, Pavia, ibis, 2011, pp. 89-96. [3]N. CHOMSKY, “USA-Haiti”, in Haiti: l’isola che non c’era, Pavia, ibis, 2011, p. 53. [4] A. WILENTZ, Farewell, Fred Voodoo: A Letter from Haiti, Simon & Schuster eBook, 2014, p. 22 Bibliografia e sitografia

· GRANDI, “Haiti nello scacchiere geopolitico: il perché della sua povertà”, in Haiti: l’isola che non c’era, Pavia, ibis, 2011

· A. WILENTZ, Farewell, Fred Voodoo: A Letter from Haiti, Simon & Schuster eBook, 2014

· KAHN, J. PIERRE, A 'Lost Decade': Haiti Still Struggles To Recover 10 Years After Massive Earthquake, National Public Radio, 12 gennaio 2020

· H. SIRCHIA, R. CODAZZI, Haiti: l’isola che non c’era. Storia, attualità e scenari futuri di un paese “scoperto” dal terremoto, Pavia, ibis, 2011

· M. Mandelbaum, Can Aristide Be Haiti's Mandela?, 14 ottobre 1994

· N. CHOMSKY, “USA-Haiti”, in Haiti: l’isola che non c’era, Pavia, ibis, 2011

· P. Beaumont, Haiti in disarray as anti-government protests lead to prison breakout, The Guardian, 14 febbraio 2019

· Redazione, Jovenel Moïse tries to govern Haiti without a parliament, The Economist, 18 gennaio 2020

· Redazione, La Première République noire du monde est à genoux, Juno7, 3 ottobre 2019

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