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Tutte le strade portano a Roma

Aggiornamento: 14 nov 2020

Tra mito e realtà quotidiana, problemi e opportunità per Italia ed Europa ai tempi del COVID-19

Roma rappresenta una sorta di mitologema, un archetipo mitico che, per quanto possa modificarsi nella storia del pensiero umano, mostra costantemente gli stessi tratti e fondamenti. Tale mitologema non è affetto dalle vicissitudini storiche: Roma rimane un’ispirazione mitologico-politica nonostante i notevoli crolli storici che la città ha vissuto (sia in importanza politica, che demografica ed economica). Un mitologema che si è proiettato nella realtà storica prima europea e poi globale, in positivo e in negativo, dai fasci littori negli emblemi statunitensi alla Roma cristiana nella propaganda dello Stato Islamico, passando ovviamente per la Terza Roma moscovita.

Non ho scelto a caso questo mitologema e il proverbio romano “tutte le strade portano a Roma”, tale scelta scaturisce infatti da alcune somiglianze nelle vicissitudini di Roma e quelle dell’Italia e dell’Europa di oggi: il permanere di un mito, rispetto al diventare una realtà periferica, il costante ritorno sulle scene mondiali in una forma o nell’altra, il costante viavài di persone e idée. Già, perché questa pare essere oggi la realtà italiana – periferia di un’Europa più franco-tedesca, e quella europea, periferia rispetto a potenze globali in crescita e politicamente decadente (almeno per quanto concerne la capacità di decisione e azione unitaria).

Eppure, come Roma e l’Italia non sono mai scomparse dalle cartine dell’azione politica nella storia europea, così l’Europa è destinata a un costante riaffiorare nello scenario globale, riaffiorare (positivamente e attivamente parlando) che tuttavia dipende da alcune condizioni generali e particolari che gli italiani e gli europei (intesi come popoli, come opinioni pubbliche e come classi dirigenti) devono saper realizzare proprio a ridosso della crisi generata dal COVID-19. Cercherò di analizzare alcune di queste condizioni, posto che in questa sede è possibile farlo solo in maniera superficiale, essendo anche l’intenzione di questo scritto di stimolare il dibattito, più che di affrontare le questioni in maniera esaustiva.

L’occhio di Sauron: il giornalismo e i media tra infodemia e yellow journalism.

Credo tutti i lettori abbiano presente l’immagine dell’occhio fiammeggiante dalla trilogia cinematografica del Signore degli Anelli (certamente, e un po’ tristemente, più di quella presente nel tomo tolkeniano). A me ricorda molto l’attuale giornalismo: non per la sua connotazione maligna, sia chiaro, ma per la sua semplicistica capacità di focalizzarsi per lo più su una questione alla volta, con una psicopatologica ossessione per l’Unico Anello.

L’Unico Anello del giornalismo oggi è la quantità di click ricevuti. Come l’occhio dell’Oscuro Signore di Mordor, oggi il giornalismo si focalizza per lo più su una questione alla volta. Si tratta, ben inteso, non sempre di una scelta consapevole. Deriva infatti innanzi tutto da fattori sistemici: dall’incapacità dell’editoria dell’informazione di elaborare strategie di sopravvivenza di fronte alla digitalizzazione, ma anche da un collassare delle capacità di lettura e analisi del pubblico (senza chiamare in causa le acque putride dell’analfabetismo funzionale, fin troppo abusate, basti pensare alla feroce critica di Luca Ricolfi nel suo ultimo libro circa le capacità degli attuali neolaureati, comparabili a quelle che 50 anni fa aveva un diplomato di terza media). A questo si aggiunge il clickbaiting, fenomeno in realtà non nuovo, ma mero aggiornamento e amplificazione del più datato yellow journalism.

Quello che ne deriva è un quadro piuttosto semplice: il decadere della lettura cartacea, fatta di maggiori spazi argomentativi (letteralmente: pagine) si è tramutato in una saturazione di contenuti digitali fondati sulla necessità di emergere nell’indicizzazione dei contenuti web, secondo strette regole ispirate soprattutto alla lingua inglese: brevità dei periodi, ripetizione ossessiva di parole chiave, interazioni con altre pagine web; tutte cose che a ben vedere sono efficacemente antitetiche alle capacità di argomentare attraverso lingue come l’italiano, il tedesco, il francese (ma non solo).

Soprattutto, sono regole che non consentono di affrontare qualsivoglia questione complessa secondo uno schema funzionale alla comprensione proprio della complessità dei problemi. Quel che ne deriva è la riduzione di qualsiasi problema a visione semplicistica, dogmatizzazione delle soluzioni e castrazione di un dibattito costruttivo.

Questo deterioramento della comunicazione affligge ogni tipo di giornalismo, e in particular modo quello più alla portata di tutti (tramite i social). Realizzando una notevole radicalizzazione e dogmatizzazione dell’opinione pubblica, tale deterioramento è progressivamente volto all’ignorare delle voci realmente più autorevoli e competenti, bollate nel più dei casi come “professoroni” (la questione della sfiducia negli “esperti” è stata ampiamente sviscerata da Tom Nichols in La conoscenza e i suoi nemici: l'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia). Così facendo, stronca infine ogni stimolo non solo verso dibattito, ma anche e soprattutto verso la volontà dei cittadini di “conoscere”.

In questo marasma informativo, in cui la caccia al click si avvale di immense quantità di informazioni prodotte (non necessariamente “vere”), di titoli fuorvianti e di potenti mezzi digitali per essere meglio indicizzati, il pubblico è sempre meno capace di discernere non solo le informazioni vere da quelle false, ma soprattutto le informazioni utili da quelle totalmente inutili, pervenendo tragicamente a un’immagine della realtà che non corrisponde alla realtà stessa. Sarebbe a dire che oggi il cittadino medio che si informa solo attraverso il web ha un’immagine della geografia del mondo costruita attraverso la lettura di una mappa di 7-8 secoli fa, con tanto di mostri marini corrispondenti alle antenne del 5G che diffondono virus.

In sostanza il “mercato giornalistico” ha nel suo piccolo mostrato tutti i limiti del mercato privo di regole: aumento della quantità prodotta, diminuzione della qualità, insostenibilità sulla media e lunga distanza con i relativi danni sulla società. Ciò che andrebbe auspicato, dopo tutto il baccagliare sulla crisi, è il ripensare i valori stessi del giornalismo, la sua funzione nella società europea (critica, certamente, ma anche educativa) e i meccanismi economici su cui questa funzione può e deve poggiare, che non possono esaurirsi nella quantità di click.

Narciso: individualismo e culto della personalità nella comunicazione e nella società europea.

Narciso, Caravaggio

Tangente il problema giornalistico è l’imperante narcisismo che connota la comunicazione e più in generale la società italiana e quella europea. Già nel 2006, per Laterza, Marcello Veneziani trattava del problema di un bipolarismo tra Liberal e Comunitaristi, epitomi di due tendenze che potremmo estendere a tutte le attività umane, orientate più verso l’individuo o verso la comunità. Veneziani non è il primo a toccare tale opposizione polare, tenendo conto che già Geertz Hofstede ne trattò a proposito della cultura organizzativa e già nel 1883 Pasquale Villari, in una recensione dell’opera di Pasquale Turiello, diceva che «in Italia e nel Mezzogiorno più che altrove, c’è troppa individualità, troppo poca attitudine ad associarsi per un lavoro fatto in comune. Si sente troppo l’Io e troppo poco il Noi. Riusciamo assai bene in tutto quello che richiede iniziativa privata, energia individuale; assai peggio dove si richiede l’energia riunita di molti, per un fine non personale ma comune» (cito dal volume di Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia, che meriterebbe proprio in questi giorni una riscoperta). Rispetto a quando scriveva Villari (e anche a quando scriveva Veneziani, oramai 14 anni fa), questo individualismo è cresciuto in maniera esponenziale, nutrito da forme non temperate di liberalismo e liberismo il cui scopo non è più evitare che il singolo sia oppresso dalla comunità, ma fare in modo che l’individuo tiranneggi sulla comunità.

Questo individualismo ha radici antropologiche e sociali diverse in tutte le società occidentali, ma le cause che lo hanno portato a essere deforme (si badi bene: non si intende qui sostenere che l’individuo e le sue libertà siano secondarie e poco importanti) sono certamente comuni. Il risultato è che l’Europa e gli europei, prede dei loro deliri narcisisti, sono pronti come Narciso ad affogare nello specchio d’acqua in cui da anni si guardano e si elogiano, ben lontani dal comprendere il resto del mondo.

Questo delirio individualista narcisisticamente patologico permea tutta la nostra società: gli effetti sono ben chiari in politica, in cui oramai le nuove formazioni politiche, invece che su strutture partitiche, ideologiche ed educative (le vecchie “scuole di politica”) si fondano sul culto della personalità o di specifiche caratteristiche inerenti la persona singola, a detrimento di una trattazione complessa e argomentata della politica stessa. In generale, nella comunicazione gli effetti sono ancora più evidenti quando la trattazione di una problematica (il COVID-19 ne è un buon esempio) si riduce alla diatriba bipolare tra due personalità che fino al giorno prima erano sconosciute, o nella formazione di echo chamber social sotto forma di fan clubs che fungono da amplificatori acritici e fondati sulla dogmatizzazione e radicalizzazione delle idée di cui abbiamo trattato nel precedente paragrafo.

Dal punto di vista sociale, tale narcisismo diffuso si trasmuta nella disintegrazione delle unità sociali di base (coppia, famiglia, etc.) attraverso relazioni disfunzionali e “io-centriche”, dove l’assoluta priorità è assegnata al proprio esclusivo benessere, con punte di egoismo che spesso toccano l’abuso psicologico dell’altro.

Dal punto di vista politico, ne deriva un’azione e una strategia basata esclusivamente sulla comunicazione della propria personalità (spesso distorta e narrata attraverso falsificazioni) a detrimento degli interessi comuni e dei doveri della classe politica.

Dal punto di vista manageriale, il risultato è una classe dirigente che tende al profitto proprio (anche nei termini di inquadrare la strategia aziendale adottata col fine di “pompare” il proprio curriculum e network in vista del successivo incarico) e si trasforma letteralmente in mercenariato eticamente scorretto.

Nell’ottica di un’uscita dalla crisi attuale (posto che essa è sistemica e il problema sanitario è solo l’evento scatenante) il narcisismo di cui parliamo va arginato con ogni mezzo, al fine di rimettere al centro del dibattito il benessere delle comunità, sia essa la coppia, la famiglia o l’Unione Europea.

Pirgopolinice e il Doppelgänger: le false narrazioni di sé.

How they met, Dante Gabriel Rossetti

Il Doppelgänger è, a grandi linee, il doppio in generale, mentre soprattutto nella letteratura fantastica assume il valore di creatura capace di assumere varie sembianze. Pirgopolinice è invece il soldato fanfarone nella commedia di Plauto Miles Gloriosus. Queste due figure rappresentano (sempre superficialmente) la capacità umana di raccontare sé stessi in maniera parziale o distorta, quando non palesemente falsa.

Non credo ci sia bisogno di spendere troppe parole su come internet e le sue ultime incarnazioni (social e dating apps) abbiano popolato l’etere e le menti degli individui con queste due figure. La narrazione di sé è un focus importante dell’individuo e della sua psiche, ma mai prima d’ora nella storia umana la falsificazione di sé la fa da padrone nella società. E il problema, posto ampiamente in risalto dalla crisi, è grande e presente a più livelli.

A livello individuale le identità virtuali agevolano una falsa narrazione di sé le cui incarnazioni “migliori” sono i profili di Instagram, che raccontano per la stragrande maggioranza della giovane popolazione europea di vite esteticamente brillanti e gradevoli, fatto salvo poi il gigantesco investimento in psicoterapia della stessa frangia di popolazione (unitamente alle disfunzioni relazionali di cui sopra). Pirgopolinice stesso, poi, ben si inserisce come figura in una costante e tartassante narrativa machista di uomini conquistatori che in realtà vivono oggi un profondo senso di insicurezza e di incapacità di essere sempre più all’altezza di donne prive dei limiti che avevano 30 anni fa.

A livello di società abbiamo alimentato la visione di un benessere che, se da una parte è molto più diffuso di altre epoche (non per niente il già menzionato Ricolfi parla di una società signorile di massa in cui, semplificando per brevità, pochi lavorano e molti godono di frutti non propri), dall’altra ha gioco facile a ignorare i problemi reali a favore di un autocompiacente atteggiamento delle persone volto a fuggire dal vero: non si arriva a fine mese, ma non mancano shopping compulsivo e status symbols (questi ultimi sempre esistiti, ma oggi più falsi che mai: non sono più questi infatti a definire un reale status sociale). Tende inoltre, tale atteggiamento, a fare finta – ancor più comodamente – che una parte della popolazione viva un sincero malessere socio-economico, finzione che ha gioco facile se consideriamo che chi cresce in determinati gruppi sociali difficilmente vede gli altri. Facendo un esempio polemico che sono aduso proporre ad amici che vivono e lavorano a Bruxelles: difficilmente chi è cresciuto tra Università ed Erasmus ha idea di quale sia la realtà di un suo coetaneo che lavora nelle acciaierie vicentine o tarantine (è un esempio che ho coniato per spiegare perché la comunicazione delle istituzioni europee è TOTALMENTE sbagliata).

A livello di classi dirigenti, la narrazione di sé arriva a livelli di falsificazione tali da essere più spassosa della commedia plautiana. In tal senso spicca, per quanto concerne la classe politica, il totale distacco dalla realtà: per la sinistra liberal questo comporta l’incapacità di realizzare quali siano i reali disagi socio-economici degli strati deboli della popolazione (a dire il vero, si potrebbe dire che essa sia anche piuttosto confusa su quali siano questi strati), per la destra quanto sia ridicolo un concetto come il sovranismo nel 2020 (anche se in questo caso parrebbe che la destra sia più consapevole di tale situazione, e quindi menta sapendo di mentire al proprio elettorato).

Il problema del “mentire sapendo di mentire” si pone anche dal punto di vista delle classi manageriali: risulta alquanto buffo agli occhi di alcuni, lo scrivente incluso, quanto il mondo manageriale menta sulle proprie qualità. E se questo è oramai scontato per quanto concerne il lato consulenziale (e qui ci sarebbe da domandarsi perché, tra i tanti attacchi all’INPS il 1 di Aprile, quasi nessuno si sia preso la sacrosanta briga di puntare l’indice verso le società di consulenza IT che hanno avuto notevole parte in quella defaillance), scandalizza ancora vedere manager su manager che millantano la brillantezza delle loro azioni in ambito smart working e cybersecurity che poi, regolarmente, sono le une negate dai dipendenti e le altre opportunamente e costantemente negate non solo dai penetration test di terzi, ma anche da costanti “buchi” nella sicurezza (per quanto riguarda tutto ciò, è da farsi riferimento sempre al regnare della comunicazione – vale a dire il vendere il fumo piuttosto che l’arrosto – e l’approccio narcisistico alla leadership manageriale, di cui abbiamo parlato poco sopra).

Scandalizza sapere che la civiltà europea, quella del costante porsi interrogativi filosofici (e quindi tendenzialmente portata non solo a indagare il mondo, ma anche se stessa), sia arrivata a negare la propria storia tanto da falsificare la propria immagine. Il perché di ciò è forse in quei due grandi traumi che sono i due conflitti mondiali. Come ogni essere umano, quell’agglomerato socioculturale che è l’Europa, di fronte a un trauma, ha voluto applicare la memoria selettiva in malo modo, piuttosto che rielaborare in maniera matura. È successo così che nella sua falsa vocazione liberal (perché liberal può esserlo davvero solo un americano, perché liberal non è di certo l’essere liberale di un Cavour, tanto per dire) essa è arrivata a negare il concetto stesso di identità e soprattutto di identità culturale, e questo è il vero convitato di pietra alle assise europee.

Un’identità europea esiste? Certo che esiste, abbiamo migliaia di anni di storia in comune. Solo che fin qui, traumatizzati dalle degenerazioni delle identità culturali e dai nazionalismi del secolo scorso, abbiamo deciso che il multiculturalismo – venato dal pensiero debole e da un relativismo mal concepito (e questo lo scrive un convinto relativista culturale di formazione antropologica) – era la miglior medicina contro le degenerazioni di cui sopra. Abbiamo creato un doppio dell’identità europea che è vuoto, in cui nessun europeo si identifica veramente. E laddove non vi è identità, si diviene succubi di influenze esterne. Eppure, fu Primo Levi a scrivere «eppure non mi sento di negare che uno spirit di ogni popolo esiste (altrimenti, non sarebbe popolo); una Deutschtum, una italianità, una hispanidad: sono somme di tradizioni, abitudini, storia, lingua, cultura. Chi non sente in sé questo spirito, che è nazionale nel miglior senso delle parole, non solo non appartiene per intero al suo popolo, ma neppure è inserito nella civiltà umana» (la citazione, è utile dirlo, introduce il primo capitolo del volume Identità culturale e violenza, di Franco Fabbro, che si pone proprio il capitale interrogativo su come mediare tra istanze universali e locali nei processi identitari). Per altro, abbiamo anche il vizio di sovrapporre multiculturalismo e pluralismo, in una falsa identità tout court, sulla falsità della quale rimandiamo al volume di Sartori Pluralismo, multiculturalismo e estranei.

L’attuale crisi ha messo a nudo i nostri doppi, individuali e collettivi, e la mancanza di un’identità europea stabile (a dire il vero, anche italiana se vogliamo), frutto di traumi precedenti: è il fallimento della negoziazione dei sé personali e collettivi tra individualità e gruppo, tra nazione e Unione, tra cultura nazionale ed europea, tra noi e loro, pensando blandamente che la definizione di un noi porti necessariamente alla soppressione o svalutazione del loro. Abbiamo preferito il fumo all’arrosto, e se vogliamo evitare le conseguenze peggiori, forse è ora di avviare una terapia ad hoc, che si fondi su una feroce autocritica e azioni correttive che per quanto brutali, sono probabilmente necessarie per evitare che la nostra Roma europea esca dalla storia in maniera repentina e anche piuttosto squallida.

Mefistofele, il Mahābhārata, Sauron e il tifo da stadio: la complessità delle relazioni (internazionali).

Faust und Mephisto, Anton Kaulbach

In un testo del 1962, Mefistofele e l’androgine, lo storico delle religioni Mircea Eliade esplorava la coincidentia oppositorum partendo dal Faust di Goethe e dal valore positivo della figura di Mefistofele, che lungi dall’essere un’incarnazione del male assoluto, era posta da Dio «volentieri come compagno, che lo stimola e gli fa cenno e che, come Diavolo, ha da lavorare». Il saggio proseguiva con considerazioni sulle divinità indiane, i Deva e gli Asura, e il loro compenetrarsi ben lontano dall’essere rappresentazione di polarità irriducibili. Nello stesso Mahābhārata, il poema epico fondante canoni estetici ed etici di tutta la struttura di pensiero indiana successiva, i contorni tra “buoni” e “cattivi” sono labili, sfumati e tutt’altro che dogmatici e polarizzati. Solo per fare alcuni esempi non esaustivi, Bhishma, il più saggio tra i protagonisti (il Mahābhārata consta di 100.000 sloka – versi – di cui 20.000 sono sugli insegnamenti di Bhishma, mentre solo 700 sono quelli della Bhagavadgītā, la parte più conosciuta inerente gli insegnamenti di Kṛṣṇa al principe Arjuna), si schiera tra le fila dei “cattivi”. Yudhishtira, figlio del dio Dharma (la Legge), il cui carro non tocca mai la terra perché egli non mente mai, alla fine, mente. Kṛṣṇa stesso viene meno alle sue promesse e cade preda dell’ira. Duryodhana, l’incarnazione del male, alla fine è presentato come un esecutore del Dharma e quindi meritevole.

Sono solo alcuni esempi di dialettica mitologica e letteraria circa la natura del male e la necessità del male. Una dialettica ben presente nelle civiltà politeistiche ed enoteistiche in quanto basate su una complessità metafisica fondata sulla diversità, rispetto all’opposizione polare tipicamente dualistica delle religioni monoteiste (che non mancano certo di un dibattito filosofico sulla natura del male, che va da Sant’Agostino ai cabalisti medievali e oltre, ma che presenta certamente approcci meno orientati a verità “relative”). Sull’apertura mentale derivante da un tale approccio alla diversità divina ha scritto molto James Hillman (lungo tutta la sua opera), ma anche il nostrano Maurizio Bettini (in Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche). Siamo di fronte a una rappresentazione del male ben lontana da Sauron, in cui il male è assoluto. Siamo anche ben lontani dalla rappresentazione che da sempre, dopo il Secondo conflitto mondiale, si dà del proprio nemico soprattutto in ambito cinematografico: la disumanizzazione del nemico non è certo una novità, ma l’impiego che se ne è fatto nella cinematografia degli ultimo 75 anni è esponenziale e non si è rivolto solo ai nazisti.

Il problema più acuto nasce quando questa disumanizzazione, o anche più blandamente identificazione del male assoluto, avviene nell’ambito della dialettica politica, geopolitica e sociale. Superficialmente parlando, il meccanismo è semplice: da una parte identificare la parte avversa con qualcosa di facilmente odiabile e disprezzabile, al fine di polarizzare il consenso, dall’altra semplificare questioni che nella loro complessità sarebbero incomprensibili per specifici strati della popolazione. Come già accennato, l’identità è imprescindibile, ed è un’atavica forza individuale e collettiva. Non si può negare, ma si può certamente usare per i propri biechi e irresponsabili fini.

Le dialettiche sociopolitiche, intese come dialoghi, non dovrebbero mai usare un linguaggio violento, poiché per le masse passare dalle parole alle azioni è molto più semplice di quanto non si creda. E la sostanziale differenza tra gli agoni sociopolitici e sportivi da una parte e la guerra dall’altra, sono le regole. Anche in guerra ci sono delle regole, a meno che non sia una guerra civile.

Ma sono regole decisamente diverse rispetto a quelle che vigono – tanto per fare degli esempi non casuali – tra Senato, Camera e Presidenza del Consiglio, o nel Parlamento Europeo e tra esso e la Commissione Europea. Oggi dimentichiamo troppo spesso che attraverso degli organi pur criticabili – siano essi l’UE o l’ONU – risolviamo un’altissima percentuale di contenziosi internazionali che solo un secolo fa avrebbero comportato un non meglio precisato numero di morti. Eppure allora, nonostante alcuni vizietti tra cui l’etnocentrismo di matrice evoluzionista, eravamo meno proni a leggere la conflittualità – sia bellica che interistituzionale – come una partita di calcio e a leggere tutto in chiave di “vittoria assoluta” e “annichilimento dell’avversario”. Così ogni cittadino è diventato un ultrà privo di sportività, non riconosce virtù negli avversari e applica costantemente il principio dei due pesi, due misure, incitato all’odio dai capi ultrà, siano essi leader politici o narcisisti di varie categorie (virologi, giornalisti, manager o altri).

Questa modalità di comunicazione e interpretazione della realtà si ripercuote sulla politica interna, con la sinistra che bolla ogni sentimento patrio e identitario come fascista, e con la destra che bolla ogni cenno di pluralismo come tradimento (potrei andare oltre e parlare di bambole sessuali e cafonate circa il ruolo della donna, o peggio ancora potrei parlare delle volgarità di certi economisti-politici nei confronti dei loro detrattori accademici, ma sarebbero battute sulla tastiera sprecate).

Sul piano delle relazioni internazionali avviene anche peggio: intere nazioni vengono additate come nemico assoluto e ogni loro cittadino come una potenziale spia, un hacker, un bot, insomma uno strumento del nemico. Probabilmente neanche nel secondo conflitto mondiale si è raggiunta una paranoia indotta simile. Né tanto meno una simile cultura naïve delle relazioni internazionali.

Facciamo alcuni blandi esempi: secondo un “autorevole” giornalista, la Russia ha inviato delle truppe militari travestite da aiutanti dottori anti-COVID-19 per spiarci. Vorrei dire a chi fa questo genere di analisi che chiunque si occupi professionalmente di Intelligence si sbellica dalle risate quando legge queste cose. Innanzi tutto perché basta osservare anche la stessa struttura nazionale italiana per capire che quasi tutte le attività CBRNE anche in ambito civile sono demandate per lo più a strutture militari. Giustamente, diremmo: non è che sia molto fruttuoso per strutture civili occuparsi di tali argomenti. Il contenimento di minacce biologiche, ancorché previsto da vari piani stimolati dalla WHO, è inevitabilmente “subappaltato” a strutture militari dual use. Questo avviene ancora di più in una cultura istituzionale come quella russa, dove la tradizione affida interi settori della protezione dei civili alle Forze Armate, come d’altronde avveniva da noi finché è stato in piedi il servizio di leva.

Ma fa ridere, in generale, pensare che i servizi di Intelligence – siano nostri o di altre nazioni – abbiano bisogno di inviare interi aerei con cuoricini e bandierine per raccogliere chissà quali informazioni – al di là di quelle che sarebbe legittimo per altro concedere apertamente (informazioni sul virus, sui trattamenti delle strutture, sulle terapie e quant’altro). Insomma, il temutissimo GU (lo dico per i “colleghi” che intasano con la propria russofobia l’etere: ha cambiato acronimo, ora non è più GRU, ma GU), ovvero l’intelligence militare russa, non necessita di sotterfugi simili, ha già un’ampia rete di informatori (oltre a strutture SIGINT) sul territorio europeo, cosa che per altro vale anche per americani, cinesi, e per gli stessi europei nel resto del mondo.

Un altro interessante esempio è la querelle sul 5G, che regna tra politici, media e security manager, ma che poco tange i servizi di intelligence, che infatti hanno dato via libera (non solo quelli britannici), pur paventando la necessità di tenere l’attenzione alta. Questo esempio è perfetto anche per il problema del due pesi, due misure. Qual è il senso di parlare tanto di pericolo cinese nel 5g quando interi servizi IT strategici sono praticamente accessibili, se non controllati, perfino nel Ministero degli Interni, da aziende americane? Verrebbe da chiedere anche come mai se interi settori del management italiano fanno riferimento a strutture di propaganda americane, il problema non si pone, mentre per Huawei (che ha cospicui investimenti perfino in Campania) non solo si pone, ma si parla anche di male assoluto.

Il punto sostanziale è che ci siamo cullati, negli ultimo 20 anni, in un mondo unipolare, tanto da portare alcuni a parlare di fine della storia, una storia in cui il bene (gli USA, il Mercato, il Liberismo, l’Occidente) ha vinto (con tanto di giubilante gioia di alcune sette cristiane americane). Se non fosse che ad un tratto, improvvisamente, ci siamo risvegliati in un mondo multipolare, dove il monoteismo occidentale ha scoperto il politeismo globale: gli dèi sono tornati (un po’ come in American Gods di Gaiman).

Dobbiamo capire che questo non è un incubo (ancorché sembra esserlo per molti Repubblicani e Democratici americani…) e non possiamo fare finta di nulla: dobbiamo ammettere, dobbiamo accettare che esistono più divinità, ognuna coi propri contrasti, con le proprie diversità, con i propri legittimi interessi con i quali dobbiamo dialogare per raggiungere compromessi basati sui nostri (italiani ed europei) interessi. Dobbiamo cominciare sdoganando alcuni semplici assiomi: l’interesse nazionale non è un male; l’interesse europeo non è un male; gli altri conglomerati internazionali hanno il sacrosanto diritto di perseguire i propri interessi. Dobbiamo comprendere (prima come addetti ai lavori e poi come opinione pubblica) che la diversità è un valore e non può essere soppressa in nome di un universalismo occidentocentrico, mentre ciò che un mondo multipolare richiede è una fortissima capacità di negoziazione.

Atlantide, Terra e Mare, regni romano-barbarici e il chicco di grano: l’Italia e l’Europa al centro del mondo e le opportunità di una crisi.

Il mio professore di Filosofia – forse una delle figure che più ha influenzato il mio amore per le geisteswissenschaften - diceva che l’Italia era sempre li li per perdere il posto nel G7. Era un modo per dire che l’Italia ha sempre dovuto sgomitare per essere considerata tra i grandi di stazza globale: erano i primi anni 90 ed era sicuramente vero, visto che il Paese aveva perso le due maggiori spinte a far parte di quel consesso: il boom industriale da una parte e l’essere “marca di confine” durante la guerra fredda. Vedo oggi molti analisti dire che l’Europa ha perso il treno per influenzare il globo, vuoi per la sua arretratezza tecnologica rispetto a Cina e USA, vuoi per la sua mancanza di unità (politica e d’intenti), nonché per la sua mancata indipendenza militare.

Credo che queste analisi pecchino di poca lungimiranza e non si rendano conto di quanto nella nuova “guerra fredda” tra Cina e USA l’Europa, e in generale il Mediterraneo, siano diventati un campo di battaglia a colpi di soft power, il che dà un vantaggio di non poco conto a italiani ed europei per uscire vittoriosi da questa crisi. Pochi se lo sarebbero aspettati, ma il racconto-teoria di Schmitt, Terra e Mare, oggi più che mai è una chiave di lettura attuale e realistica delle dinamiche geopolitiche. Da una parte la Potenza di Mare, gli Stati Uniti, e dall’altra tante potenze di Terra incarnate nel blocco geografico eurasiatico (quindi non solo la Cina, ma anche la stessa Europa e la Russia).

Dovrebbe risultare evidente la strategia americana per evitare, innanzi tutto, una saldatura tra Europa (Germania in particolare) e Russia. Soprattutto nell’ottica di limitare i danni alla propria industria energetica e arginare l’autosufficienza di un’Europa che è innanzi tutto – per americani e cinesi – un mercato di non poco conto. Quello che gli americani sanno – e di cui gli europei sono poco consapevoli – è che l’Europa può spostare sia la propria produzione che i propri approvvigionamenti verso il blocco eurasiatico, anche attraverso nuove linee logistiche ferrate (la Nuova Via della Seta), evitando i mari tradizionalmente dominati dagli anglosassoni: occorrerà tempo, ma è probabilmente il passo più ovvio se non fosse per vetuste ideologie che si appigliano ancora all’idea di un’Atlantide, mancando di vedere come essa sia divenuta decadente, dominata da bramosia e cupidigia (insomma, prossima alla finaccia raccontata da Platone).

La verità è che questa crisi è potenzialmente foriera di opportunità per l’Italia e l’Europa. Oggi sappiamo che la “caduta” dell’Impero romano d’occidente, oltre a non essere un evento catastrofico come lo raccontavamo anni or sono, portò anche ai regni romano-barbarici, per molti versi la genesi dell’odierna Europa. D’altronde, come si dice nel Vangelo, «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto».

Tuttavia, per cogliere delle opportunità, bisogna far cadere il chicco di grano, metafora non solo del lasciar morire vecchie ideologie e preconcetti, ma anche della necessità di inquisire se stessi e fare una feroce autocritica, abbandonando il fumo in favore dell’arrosto, le chiacchiere e la propaganda in favore delle azioni ben coordinate e strategicamente pensate, ridando valore alle competenze (ci sarebbe qui molto da dire sul problema della svendita delle competenze “online”, ma non è questa la sede: basti dire che le competenze – vere - sono quelle che vengono costantemente dimostrate sul campo), al dibattito argomentato e costruttivo, e soprattutto attribuendo responsabilità (in positivo e in negativo), distinguendo non in “buoni” e “cattivi”, ma in chi ha agito bene e chi ha agito male, chi lo ha fatto nell’interesse della collettività e chi lo ha fatto solo nell’interesse del proprio narcisismo patologico.


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