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Schiavitù e Islam, un connubio perfetto?

Aggiornamento: 1 nov 2020

Introduzione

Il presente lavoro indaga le radici della schiavitù contemporanea nei paesi arabo-musulmani, con un caso studio, quello sul Pakistan. Si cerca di ripercorrere almeno parzialmente, le motivazioni storico-culturali, sociali, economiche e politiche che stanno alla base del fenomeno per arrivare alla schiavitù contemporanea partendo dai dati 2018 del Global Slavery Index.

L’indagine vuole collocarsi a metà tra un documento di denuncia utile alla sensibilizzazione alla questione, e un contenuto tecnico-scientifico.

Nel lavoro si assume la definizione di schiavitù contemporanea che dà il Global Slavery Index, in riferimento a situazioni di sfruttamento che un individuo non è in grado di rifiutare o di abbandonare a causa di minacce, violenza, coercizione, abuso di potere, inganno.[1]

Non potendo essere esaustiva dal punto di vista giuridico e filosofico-politico, l’obiettivo della dissertazione è di dare una visione d’insieme del fenomeno al fine di cercare di comprenderne a fondo le motivazioni locali e globali.


Le radici

Dal Medio Oriente pre-islamico le nuove società ereditano un modello di istituzioni che comprendono piccole comunità ordinate sulla base della famiglia, del lignaggio, dei vincoli clientelari ed etnici.

In tale struttura sociale i rapporti di schiavitù e di servitù sono ampiamente diffusi. Gli schiavi sono di origine straniera, provenienti dall’Africa, dai Balcani, dall’Asia centrale, dall’Europa mediterranea, tra loro uomini, bambini rapiti o abbandonati, orfani, prostitute, tutti frutto delle conquiste territoriali beduine e dell’espansione degli imperi islamici.[2]

Secondo gli insegnamenti del Profeta lo schiavo, abd, ha piena dignità umana. Per citare alcuni ahādĩth: "I tuoi schiavi sono i tuoi fratelli; perciò chiunque abbia un fratello che dipende da lui deve nutrirlo e vestirlo nel modo in cui si nutre e si veste da solo; e non dovrebbe imporgli compiti che eccedono le sue capacità; se dovessi chiedere loro di fare queste cose, allora sei obbligato ad aiutarli”. E ancora: “È vero che Dio ha fatto voi padroni, ma, se lo avesse desiderato, avrebbe potuto ugualmente farvi diventare i loro schiavi.”

In un altro hadith, insegna che “Il più nero degli africani è superiore al più nobile dei Quraishiti, se ha più fede”.

Allo schiavo spetta di essere ben trattato e dispone di una certa autonomia concordata con il mālik per libertà personali.

Liberare uno schiavo, soprattutto qualora si converta all’islam, è un atto raccomandabile, la via più breve per guadagnarsi un’indulgenza, in caso, per esempio, di aver commesso un crimine o un omicidio. Inoltre, un mālik oberato di debiti e non più all’altezza di mantenere il proprio schiavo, dovrebbe venderlo o liberarlo.

Di contro il dovere assoluto di ogni schiavo è la lealtà.[3]

Tale visione della schiavitù, ubudiyat, permette di diffondere maggiormente la religione musulmana e di fare meno vittime di guerra possibili, inoltre contribuisce a creare una cultura inclusiva nei confronti degli schiavi i quali collaborano a livello locale nel quotidiano in molti ambiti. Alcuni lavorano nel settore amministrativo: al contrario di una nobiltà ereditaria, essi, senza legami con le famiglie originarie, se ben istruiti, garantiscono maggiore fedeltà al sovrano con il risultato di un governo più efficiente.

Altri servono nel corpo militare: la parola ˁabd si accompagna spesso a mamlūk. ˁAbdmamlūk significa“schiavo posseduto” e nel tempo passa ad indicare soprattutto lo schiavo con funzioni militari. Con il termine ghulām ci si riferisce inizialmente a persona di origine turcica, impiegata soprattutto come guardia del corpo o attendente. Dal nono secolo in avanti indica anche chi viene ingaggiato quale soldato di complemento ed assegnato alle guarnigioni delle province.[4]

La posizione sociale ed economica porta alcuni ad acquisire potere. Ad esempio, la dinastia dei Mamelucchi, insieme a quella dei Giannizzeri, sono casi di dinastie con origini servili che acquisiscono potere fino a soppiantare la dinastia degli Ayyubiti in Egitto (1250-1517) e in Siria (1260-1516) nel primo caso; nel secondo caso, invece, fino a diventare un’influente élite militare originariamente reclutata tramite la pratica del devscirme[5] con forti interessi di categoria.

La presenza femminile nella schiavitù non manca, qayna è il nome della musicante donna di compagnia, non molto differente per ruolo ed impiego a certe coreute dell’età ellenistica, sempre presenti alle cene dei ricchi signori per allietare con musica, canti e danze i loro sfacciati simposi. La figura del castrato, khaṣī o ṭawāshin , eunuco sono invece i guardiani dell’harem e delle caserme, sedi di scuole militari.[6] Anche tra eunuchi e concubine esistono molti casi di accumulo di ricchezze e potere.

Tali esempi di mobilità sociale, nonostante le origini servili, influenzano il dibattito abolizionista che incomincia ad emergere durante il sec XVI all’epoca dell’impero mongolo durante il regno di Akbar (1556-1605).[7] Esso passa per l’impero ottomano che dà il suo contributo limitando il traffico di esseri umani e dando più opportunità agli schiavi di liberarsi, con il risultato di una drastica riduzione della ubudiyat.

Diversi sono i fattori collaterali che nel tempo nutrono il dibattito abolizionista influenzato fortemente da fenomeni di urbanizzazione, di cambiamento del mercato del lavoro, dell’educazione, dal desiderio di avvicinarsi all’Occidente ed eguagliarsi alle sue nazioni. Tra i pensatori musulmani si sente l’esigenza di ritrattare i concetti di uguaglianza e di equità, soprattutto durante le epoche del colonialismo e dell’imperialismo caratterizzate dal fenomeno della schiavitù come strumento di oppressione e controllo[8].

Durante il sec. XX l’atteggiamento nei confronti della schiavitù cambia e nel 1990 la Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam asserisce che “gli esseri umani sono nati liberi e nessuno ha il diritto di schiavizzare, umiliare, opprimere, sfruttare nessuno perché non esiste soggezione se non a Dio l'Altissimo”[9]

La Dichiarazione inoltre racchiude articoli incompatibili con la schiavitù e tra le premesse ritroviamo “...Desiderando contribuire agli sforzi dell'umanità intesi ad asserire i diritti umani, proteggere l'uomo dallo sfruttamento e dalla persecuzione e affermare la sua libertà e il suo diritto ad una vita degna in accordo con la Shari'ah Islamica”.

Il Qur’an ammette la schiavitù e ne parla in almeno ventinove versi,[10] gran parte dei quali rivelati a Medina.[11] Un esempio:

“… E quando incontrate in battaglia quei che rifiutan la Fede, colpite le cervici, finché li avrete ridotti a vostra mercé, poi stringete bene i ceppi dopo, o fate loro grazia oppure chiedete il prezzo del riscatto, finché la guerra non abbia deposto il suo carico d’armi. Così dovete fare: ché se Dio avesse voluto si sarebbe vendicato di loro anche da solo, ma non lo ha fatto per provare alcuni di voi per mezzo d’altri. E coloro che vengono uccisi sulla via di Dio, Iddio non vanificherà le opere loro...”[12]

Sia il Corano, che la Sunnah sottolineano il valore umano dello schiavo e ne fanno un individuo perfettamente al pari del mālik, non un oggetto da possedere: tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge di Dio. In quanto tale egli ha gli stessi diritti del suo signore di essere trattato bene, di vestirsi, di avere un vitto ed un alloggio adeguati.


La schiavitù contemporanea attraverso un caso studio: il Pakistan

La schiavitù contemporanea non ha nulla a che vedere con l’istituzione della ubudiyat delle grandi civiltà arabe e musulmane, principalmente perché diversi sono i presupposti sociali, politici ed economici sia a livello globale, che a livello locale.[13]

Essa risale a tempi antichi, in particolare in Pakistan, la sussistenza di tale pratica è stata influenzata dalla sua storia geopolitica e dalla conflittualità con l’India. La Repubblica Islamica del Pakistan nasce nel 1947 e sin da subito deve affrontare la disponibilità di scarse risorse, un flusso esponenziale di migranti (musulmani) ed i relativi problemi di fornire abitazioni e lavoro. Inoltre, la sua storia politica è caratterizzata dall’avvicendarsi di una serie di regimi militari che minano la società e le istituzioni già deboli in quanto basate su un modello coloniale che aveva lo scopo di regolare questioni, non di governare persone.[14]

Nel maggio 2018 si sono rafforzate le leggi in proposito dando loro un carattere più locale rispetto a quello più federale[15] Sempre del 2018 è l’organizzazione di una petizione da parte della Corte Suprema con lo scopo di abolire la pratica del banddis, la schiavitù a vita.[16]

Il Pakistan ha anche ratificato una serie di convenzioni internazionali che proibiscono la schiavitù ed il lavoro forzato. La sua costituzione del 1973 ha recepito la normativa internazionale[17] per cui all’ art. 3 “lo Stato si impegna ad estirpare ogni forma di sfruttamento...” All’art.11 si può leggere: “La schiavitù è vietata e nessuna legge deve permettere o favorire la sua introduzione in alcuna forma in Pakistan. Sono proibite, inoltre, tutte le forme di lavoro forzato e di traffico di esseri umani. Nessun bambino sotto i quattordici anni di età deve essere assunto in qualsiasi tipo di fabbrica, miniera, o per qualsiasi mansione pericolosa”.

L’art. 37 invita lo stato a provvedere affinché siano assicurate condizioni umane di lavoro per tutti. Similmente l’art 38 riguarda la tutela ed il benessere delle persone indipendentemente dal loro genere, casta, credo, etnia. Specifica l’impegno dello stato per una distribuzione equa delle ricchezze e della ripartizione giusta[18] dei diritti e dei doveri dei lavoratori ed dei datori al fine di ridurre le disuguaglianze.[19]

Il tutto in linea con l’art. 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 per cui “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.” e con la Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam del 1990 di cui il Pakistan è paese firmatario.

Nel 1998 un emendamento alla costituzione inserisce la Shari’ah come legge fondamentale accanto a quella basata sul Common Law britannico.

Nonostante le leggi, inclusa quella islamica che non ammette, ma tollera la schiavitù con l’obiettivo della sua estinzione, essa è in netta crescita sotto nuove forme che viaggiano attraverso nuovi canali e nuove tecnologie.[20]

Secondo il Global Slavery Index[21], il Pakistan risulta essere vulnerabile al 90%. Su una popolazione totale di 189.389.513 persone, 3.186.000 si trovano in una condizione di schiavitù.[22] Inoltre esistono aree di conflitto, come quella del Kashmir per esempio, sulle quali non è possibile reperire dati, e quindi il fenomeno schiavistico automaticamente è sottostimato. Esso è diffuso principalmente tra gli strati sociali più poveri e meno istruiti, tra le minoranze etniche e religiose, tra i Dalit,[23] tra le donne e i bambini a causa di persistenti e forti disuguaglianze, discriminazione e oppressione. Tali condizioni di vulnerabilità sono causate dalla frammentazione e dall’inefficienza delle istituzioni, da spostamenti e migrazioni che dipendono a loro volta da disastri naturali, scarsità di risorse, guerre civili, conflitti transnazionali sui quali influisce anche la globalizzazione.

il Pakistan risulta essere il terzo paese di provenienza e di accoglienza per numero di rifugiati[24], nonché tra i paesi dove gli effetti dei conflitti sono più incidenti sulla schiavitù.

Il flusso migratorio dal e verso il Pakistan è favorita dall’attività di agenzie che su pagamento di cifre esorbitanti fanno da intermediari nella ricerca di un lavoro: un business molto lucrativo basato perlopiù sullo sfruttamento e sul traffico di esseri umani ingannati da proposte non trasparenti. Quindi coloro che emigrano per motivi economici sono particolarmente esposti alla schiavitù per risarcire l’enorme debito pagato ad “intermediari senza scrupoli”[25] e alla detenzione per immigrazione illegale. I lavoratori domestici sono particolarmente colpiti in quanto lavorano presso privati e quindi sono più isolati.

Nel settore edilizio, dove il lavoro per debito è maggiormente diffuso, le categorie più a rischio sono i minori,[26] specialmente i più poveri che appartengono alle minoranze religiose. [27]

Il settore edilizio è particolarmente affetto dalla corruzione di cui le istituzioni e la politica spesso sono complici.

La schiavitù si ritrova nell’agricoltura dove è ancora in voga la pratica del begaar, un sistema tradizionale di lavoro obbligatorio e non retribuito nei confronti dei proprietari terrieri; nell’industria della pesca; nelle cave di pietre; nelle miniere; nei settori tessile e del pellame; nel lavoro domestico; dell’allevamento di bestiame. In alcuni casi intere famiglie lavorano per estinguere il debito, ereditato o meno, di uno dei loro membri.

Il lavoro per debito porta disuguaglianze ed emarginazione spesso rafforzate dalla cultura e dalla struttura sociale. Esempi molto forti ne sono la prostituzione forzata e la schiavitù sessuale che si ritrovano in contesti complessi caratterizzati da stigmatizzazioni e visioni stereotipate che finiscono per aumentare emarginazione e povertà.

Rientrano in una forma di schiavitù i fenomeni delle spose bambine e dei matrimoni forzati poiché la coniuge non ha alcuna libertà di scelta e spesso è vittima di violenze. Tali tipi unioni, che affondano le radici nei codici di regolamentazione pre-islamica dei rapporti tribali, ad oggi sono molto diffusi nelle aree rurali ed usati per garantire il patrimonio ed il potere maschile.

Infine Human Rights Watch lancia un nuovo allarme sul traffico umano di spose (anche bambine) verso la Cina, paese con un gender gap a causa delle sue politiche passate. La Cina ed il Pakistan hanno relazioni strette, innanzitutto perché il territorio pachistano è una tappa chiave all’interno del progetto cinese della Belt and Road Initiative; secondo perché entrambi fanno parte della SAARC.[28]

La SAARC (The South Asian Association for Regional Cooperation)[29] ha l’obiettivo generale di promuovere il welfare nella zona dell’Asia del sud attraverso interventi economici, sociali, culturali e tecnologici congiunti tra i paesi membri e con le organizzazioni internazionali che hanno obiettivi analoghi. [30]


Conclusione

Come si è potuto constatare la schiavitù non è direttamente correlata alla religione islamica che, per molti versi, ne limita l’esistenza. Certo, l’Islam regola la vita quotidiana del fedele perché è religione e mondo e l’interpretazione delle fonti è a volte contraddittoria, ma le dinamiche sociali locali e globali che influiscono su povertà, corruzione, stereotipi determinano maggiormente il fenomeno della schiavitù.

La consapevolezza di essere davanti a dinamiche storiche, politiche ed economiche, oltre che culturali, può aiutare a riflettere sulle piccole scelte quotidiane che ogni cittadino glocale fa considerando che la schiavitù contemporanea esiste in numerosi settori di produzione.

Il presente lavoro invita a contestualizzare la schiavitù contemporanea e lo fa presentando altre epoche nelle quali la schiavitù e la servitù erano istituzioni ampiamente diffuse e funzionali all’ordine sociale.


Bibliografia

A.N. AHMAD, Illegal Migration and Gender in a Global and Historical Perspective, Amsterdam University Press, 2008

H. BILAL, The Origins of Contemporary Slavery in Pakistan, 2017

Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam, 1990

G. ENDRESS, Introduzione alla Storia del Mondo Musulmano, Venezia, 2001

THE GLOBAL SLAVERY INDEX, 2014 e 2018

THE GLOBAL SLAVERY INDEX, Asia and the Pacific Report, 2018

HUMAN RIGHT COMMISSIONN OF PAKISTAN, State of Rights in 2018, 2019

M. LAPIDUS, Storia delle Società Islamiche. 1.Le Origini dell’Islam, Torino, 2000

L. LOMBEZZI, Lo Status dello Schiavo per l’Islam: Cenni Storici, Questioni Terminologiche e Legali, Milano, 2019

F. MALEKIAN, Principles of Islamic International Law, Brill, Amsterdam, 2011

A. MOORS, M. DE REGT, Illegal Migration and Gender in a Global and Historical Perspective, Amsterdam University Press, 2008

Y. MERON, The Development of Legal Thought in Hanafi Texts, Studia Islamica, Brill, 1969

UNODC, Global Report on Trafficking in Persons, 2018


Sitografia

[1] The Global Slavery Index, Asia and the Pacific Report, 2018, p 9

[3] Muhammad stesso acquista, vende, cattura, possiede schiavi: questo potrebbe in parte spiegare la ragione dell’esistenza della schiavitù fino al XIX secolo, almeno in alcuni paesi. Per un approfondimento cfr. L. LOMBEZZI, Lo Status dello Schiavo per l’Islam: Cenni Storici, Questioni Terminologiche e Legali, Milano, 2019

[4] L. LOMBEZZI, op. cit.

[5] Sistema di arruolamento forzoso in vigore tra i secc. XIV e XVII nei territori cristiani conquistati dall’impero ottomano.

[6] L. LOMBEZZI, op. cit.

[7] L’invasione delle tribù mongole provenienti dall’Asia estremo-orientale danno vita ad un impero e determinano un ulteriore spostamento verso occidente delle tribù turche. Per approfondimenti cfr. G. ENDRESS, Introduzione alla Storia del Mondo Musulmano, Venezia, 2001 cap. 6, pp. 172 e seg.

[8] Gli arabi contribuiscono al traffico di schiavi durante l’epoca occidentale della schiavitù.

[9] Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam, 1990, art 11 a

[11] Le sure del periodo medinese hanno carattere più politico in quanto volte ad organizzare una nuova comunità e a gestire i rapporti con le genti che già abitavano l’oasi.

[12] A. BAUSANI (a cura di), Il Corano, Bur, Milano, 2010, S47, V4

[13] I paesi del Medio Oriente che risultano essere maggiormente sensibili alla schiavitù moderna, sono l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan. Il presente lavoro tralascia l’Iran in quanto paese musulmano sciita, realtà a sé stante, e l’Afghanistan in quanto paese affetto da conflitto per il quale i dati sono di difficile reperibilità. Ci si concentra invece sul Pakistan, paese musulmano sunnita hanafiita.

[14] H. BILAL, The Origins of Contemporary Slavery in Pakistan, 2017

[15] con il Punjab Bonded Labour System Bill (abolizione e modifica). Accanto ad esso citiamo il meno recente Sindh Bonded Labour System Abolition Act del 2015. In riferimento alle due regioni (quelle del Punjab e del Sindh) col più alto tasso di schiavi.

[16] HUMAN RIGHT COMMISSION OF PAKISTAN, State of Rights in 2018, 2019

[18] Per “giusto”, “equo” e simili si è consapevoli del fatto che sono concetti culturalmente relativi.

[19] Per un approfondimento cfr H. BILAL, The Origins of Contemporary Slavery in Pakistan, 2017

[20] F. MALEKIAN, Principles of Islamic International Criminal Law, Brill, Amsterdam, 2011

[21] The Global Slavery Index, Asia and the Pacific Report, 2018

[22] Il Pakistan risulta essere al terzo posto dopo Corea del Nord ed Afghanistan per tasso di schiavitù.

[23] Il sistema delle caste in Pakistan persiste nella comunità Indu. Gli Indu in Pakistan rappresentano circa il 2% della popolazione. Approfondisci a questo link.

[24] Per i dettagli numerici The Global Slavery Index, op. cit., p 5

[25] The Global Slavery Index, op. cit. p 20

[26] Si stima che siano impiegati circa due milioni di bambini che lavorano circa 14 ore al giorno, sei giorni a settimana in condizioni inadeguate e con una retribuzione bassa. Cfr H. H. BILAL, op. cit. pp 29 e seg

[27] In generale c’è un’ampia incidenza della corruzione e dell’esclusione strutturale delle minoranze che ricade maggiormente sui minori.H. BILAL, The Origins of Contemporary Slavery in Pakistan, 2017

[28] Il Pakistan come paese membro, la Cina come osservatore.

[29] Comprende 8 stati membri e nasce con l’intento di adottare misure comuni, inclusa la condivisione di informazioni e l’uso di nuove tecnologie per fronteggiare il fenomeno degli schiavi. Sono state prese anche altre iniziative, ma la situazione rimane critica.

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