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Scacchiera Siria - La partita della ricostruzione e le false narrazioni

Aggiornamento: 14 nov 2020

16 Marzo 1988, Halabja, Kurdistan iracheno. Al fine di punire i peshmerga per la collaborazione con l’Iran, che ha raggiunto con l’operazione Zafar 7 quest’area, su input delle tribù yazide dell’area, il regime di Saddam Hussein attacca la cittadina, conquistata poche ore prima dai persiani, con i gas; restano sul campo circa 5.000 morti e oltre 7.000 feriti, in una manciata di ore. I giornalisti italiani de Il Giorno sono tra i primi ad arrivare con gli iraniani sul posto: per la prima volta il grande pubblico italiano, in tempi moderni, conosce i Curdi, un popolo di origine indoeuropea che oggi è facile “distinguere” dagli arabi, ma che nella propria storia ha prodotto lo stesso Saladino, legandosi quindi indissolubilmente sia alle popolazioni limitrofe, sia all’Islam.

È difficile dire se la visione semplicistica dei curdi, e dell’area, sia stata influenzata sin da allora. Resta il fatto che il pubblico – e la politica – occidentali hanno da sempre una visione parziale e semplificata di un quadro che di per sé è tutto fuorché facilmente semplificabile. Lungi dal voler essere esaustivo, questo articolo nasce con l’idea di spogliare la vicenda siriana in primis, e curda in secondo luogo, dalle false narrazioni che negli ultimi anni si sono costruite – spesso in maniera autonoma – sulla questione.


Frammentazione, I: i curdi

Una delle problematiche più sottostimate dalle analisi occidentali è la frammentazione del Medio Oriente e lo storico conflitto tra spinte centralizzanti e forze centrifughe locali: una moltitudine di identità locali e regionali che si scontrano su più livelli. Storicamente, l’Islam è stata la prima delle spinte centralizzanti e tendenti ad unificare una moltitudine di etnie, anche al di fuori del Medio Oriente strictu sensu. Già al suo interno l’Islam tuttavia, sin dagli albori, ha risentito della suddivisione tribale in cui è nata, generando scissioni che, insieme ad un fondamento religioso, hanno da sempre anche una venatura socio-politica, di cui fa certamente parte anche l’attrito tra cultura araba e cultura persiana. Sui localismi tribali ed etnici hanno dovuto imporsi, mai totalmente, i grandi califfati prima e l’impero ottomano e quello safavide poi, avvantaggiandosi a volte proprio su quei localismi contro il nemico, altre volte mettendo a tacere problemi interni sia con genocidi che con deportazioni.

Carta 1: aree a maggioranza curda o Kurdistan storico

Su queste basi poggia la creazione degli stati nazionali post-ottomani, che se anche fatta “a tavolino” dagli europei, è comunque la conseguenza di classi colte locali oramai con un’educazione di tipo europeo (socialismo e nazionalismo arabo sono esempi perfetti di questa commistione di fattori). Le popolazioni curde rappresentano solo una parte di questa frammentazione, che se non tenuta in debita considerazione, tende a generare narrazioni mediatiche molto diverse dalla realtà.

Pensare i “curdi” per i media di oggi è come pensare un popolo, alla stregua degli italiani, dei francesi, dei russi. Tale identificazione poi procede in profondità, fino ad identificare tutti i curdi con un solo popolo che agogna uno Stato, che include tutto il nord della Siria, parte dell’Iraq, dell’Iran e ovviamente della Turchia, e poi ad identificare i “curdi” con una sigla, ad esempio quella delle Unità di Protezione Popolare, YPG (l’unica sigla paramilitare conosciuta in Italia, ma che non ha l’esclusiva dei campi di battaglia). Solo che questo non corrisponde alla realtà. Manca nei fatti una vera spinta unificante: non c’è interesse per una “unione curda”, ma spinte autonomistiche locali che tendono a rimanere all’interno di confini predefiniti. Non c’è la spinta verso un “Kurdistan dei curdi”, ma verso molteplici Kurdistan per i curdi iracheni, per i curdi della Turchia, per i curdi siriani, il tutto declinato secondo le particolarità locali. Così se i curdi iraniani non sono interessati all’indipendenza, i curdi iracheni hanno tentano la strada del referendum, venendo bloccati dalla stessa comunità internazionale. I curdi siriani, dal canto loro, hanno per lo più parlato di un’autonomia all’interno di una Siria federale. Tale diversità delle aspirazioni curde è probabilmente dovuta sia a fattori storici che culturali: non è un caso che i curdi al di fuori dei confini turchi vivano all’interno di tre nazioni etnoculturalmente molto variegate come Siria, Iraq e Iran, tre degli Stati con una spinta fortemente centralizzante (potremmo definirla una sorta di “coscienza nazionale”, certamente più debole in Iraq, ma da sempre molto forte in Siria e Iran).


Frammentazione, II: la Siria

Costituisce un errore pensare che laddove vi sia una spinta fortemente centralizzante, vengano conseguentemente a mancare le spinte centrifughe delle identità locali. Al contrario, esse coesistono e si alternano sulla scena. Se è vero che Siria e Iran hanno spinto negli ultimi 50 anni sulla formazione di una coscienza nazionale fondata su specifiche idee ed ideologie, ciò non significa che queste riuscissero a reprimere in via definitiva le identità locali. In Iran la cooptazione delle minoranze al potere centrale è una politica usata spesso, all’interno di una narrazione di una Persia multietnica unificata sotto la Shi’a. Diversamente i curdi siriani hanno subito in via altalenante una repressione culturale alternata ad una “arabizzazione” geografica, che si è attenuata solo alla fine degli anni ‘80 e che si potrebbe dire terminata con la firma da parte di Bashar al Assad di un decreto per la cittadinanza dei curdi ancora privi di passaporto siriano (Aprile 2011). Nonostante ciò, sin dagli albori della guerra civile siriana, la maggioranza dei molti gruppi di potere curdi coalizzatisi intorno alla Kurdish Supreme Commitee (KSC) del 2012 non è mai arrivata a ipotizzare uno Stato curdo indipendente, ma per lo più a favorire una larga autonomia in una Siria federale. Va detto che la KSC era frutto di un compromesso tra il PYD (Partito dell’Unione Democratica, vicino al PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, fuori legge in Turchia e ben conosciuto in Italia per la vicenda Öcalan) e il Kurdish National Council (voluto dall’iracheno Barzani e dalla Turchia). La realtà era tuttavia ben più variegata in tema di partiti, spesso legati ad aree geografiche o singoli insediamenti. Solo più tardi, soprattutto con l’avvento dello Stato Islamico, grazie anche alle milizie YPG – le uniche effettivamente organizzate in loco, con l’eccezione delle controparti assiro-armene – il PYD è riuscito a prendere un sopravvento più politico che popolare sui restanti partiti curdi. Eppure, se guardiamo una cartina odierna, e la compariamo con una cartina delle etnie precedenti il conflitto, noteremo che le aree curde si sono espanse di oltre il 300%. Se nel 2011 la comunità curda era infatti relegata all’estremo nord (Al Hasakah), oggi si è estesa fino a tutta la fascia a nord dell’autostrada M4, andando a comprendere insediamenti a maggioranza araba, e verso Deir Ez Zor, zona tutt’altro che curda. Significa che nel frattempo tutto quel giallo delle cartine occidentali, formalmente “Amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria”, sono tutt’altro che un unicum. La stessa sigla con cui spesso il braccio militare viene identificato, Syrian Democratic Forces (SDF), è costituito da una miriade di milizie di cui le YPG costituiscono una maggioranza, alla quale però contribuiscono le milizie (tra gli altri) di armeni e assiri (Syriac Military Council), di località specifiche (Manbij Military Council, Deir Ez Zor Military Council, e altri), di specifiche tribù e reparti provenienti dal Free Syrian Army, cioè un’altra delle tante sigle tutt’altro che “unificate”. Semplificando: quel territorio monocolore sulle cartine è tutto tranne che un blocco granitico, e che oggi ha visto una narrazione di integrazione, favorita dall’occupazione di territorio liberatosi dopo il crollo dello Stato Islamico e dall’influenza statunitense e britannica sull’area, influenza che ora è venuta meno.

Questa narrazione unificante non è pertinente solo i curdi. È stata una “svista” occidentale anche sulla situazione siriana nel suo complesso, agevolata dal fatto che le nazioni tendono a voler dialogare con un solo interlocutore, cosa impossibile già in una guerra civile, figuriamoci in quella siriana, dove sin dall’inizio ogni tribù, ogni insediamento, ogni minoranza etnica o religiosa, ha espresso i propri gruppi paramilitari e cambiato nel frattempo alleanza (cristiani e drusi sono passati in blocco dall’opposizione ai governativi, per esempio).


La situazione sul campo.

Appare oramai palese come il tentativo di regime change in Siria sia fallito. Può fare molto comodo pensare che questo sia avvenuto esclusivamente per l’apporto di Russia e Cina, ma la verità è che la guerra civile non ci sarebbe stata se non vi fosse stato l’apporto degli stati del Golfo, della Turchia e degli Stati Uniti: potremmo dire pari e patta, ripartiamo da zero con la ricostruzione. Che è, alla fine, la vera partita in gioco di cui l’invasione turca del nord della Siria è solo un capitolo, peraltro meno importante di quanto non appaia.

Che la Turchia abbia invaso la Siria, effettivamente, non si capisce come possa sorprendere, dato che è accaduto sin dal 2016, con l’Operazione Euphrate Shield, per continuare con l’operazione su Idlib (2017), e Olive Branch (2018). Non costituisce novità comunque che la Turchia entri in territori curdi per operazioni contro basi estere del PKK. Con l’Iraq è successo a più riprese tra il 1992 e oggi, con truppe turche ancora su territorio iracheno. Si potrebbe dire che l’ultimo intervento di questi giorni sia più massiccio, ma tenendo conto che le truppe turche viste sul terreno siriano sono poche centinaia (Forze Speciali e Marines) rispetto al supporto aereo e di artiglieria dato alle milizie locali (prevalentemente turcomanne, ma che hanno integrato ex operativi, in particolare a livello di comando, vicini ai gruppi jihadisti), si potrebbe pensare che Erdogan voglia evitare un’occupazione tout court, memore delle perdite già subite proprio laddove le truppe turche stazionavano (affrontare la guerriglia in fase di occupazione non giova al cosiddetto fronte interno).

Anche l’accordo tra curdi e Damasco non giunge inaspettato: un po’ perché i voltafaccia nell’area sono scontati, un po’ perché esistono dei precedenti (l’area a nord ovest, sotto controllo condiviso, e soprattutto la città di Qamishli, nel nord-est, sempre sotto controllo condiviso) e soprattutto perché agli esperti è nota la divisione interna all’area circa i rapporti con Damasco, con il supporto di molti dei curdi di Aleppo e Damasco, tra i più influenti, che premono per una riconciliazione. Non stupisce il rapido invio di truppe (frutto di piani già pronti, ancorché i reparti migliori di Assad siano ancora impegnati nella regione di Idlib), né tanto meno la presenza, con esse, di operatori russi delle forze speciali che fanno già da collegamento tra SDF e governativi. Qualcuno si è chiesto comunque come mai i curdi siano venuti a patti così velocemente. La risposta è che l’apparato militare delle SDF, oltre che diviso, è anche estremamente leggero e, privo del supporto americano, incapace di rispondere ad un esercito regolare come quello turco, foriero di aviazione e artiglieria. Il peso specifico di Damasco, ancorché mal messo dopo 8 anni di guerra, è comunque maggiore, in quanto supportato dai russi. Sulla carta, poi, una ripresa del controllo governativo fa comodo a tutti gli attori, inclusi iraniani ed iracheni. E de facto anche alla Turchia, il cui interesse è colpire il PKK, non i curdi nel loro insieme.

Per quanto concerne Damasco, al netto delle trattative che porteranno probabilmente alla proposta di una cooptazione dei curdi al potere (come già fatto con i drusi), riprendere il controllo significa stabilizzare sia la produzione di energia elettrica (che ruota intorno all’Eufrate) e riavere circa il 40% dei propri giacimenti di gas e petrolio, posti a est del fiume e controllati oggi da gruppuscoli delle SDF.


Le opzioni sul tavolo

La vera incognita, dunque, è quale sia l’obiettivo dei Turchi. Prima del conflitto, la striscia forzatamente arabizzata durante gli anni ‘60 e ‘70 ha garantito alla Turchia un’unica area preoccupante, intorno ad Al Hasakah, di cui il PKK poteva avvantaggiarsi come base. Ora quell’area si è estesa fino quasi ad Aleppo ad ovest, coprendo quindi pressoché per la sua interezza il confine sud della Turchia: un limes fin troppo permeabile. Evitata l’indipendenza dei curdi iracheni, ora è per Erdogan prioritario evitare un’autonomia curdo siriana troppo larga sia in termini politici, sia in termini geografici. Dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere scontato che i turchi non avrebbero mai mano libera sulla regione petrolifera e sui grandi insediamenti (Aleppo in primis, ma anche la stessa Manbij). Probabilmente non sarebbe mai accettata (e neanche conveniente) un’occupazione pro tempore della striscia di 32km menzionata dai comandi turchi e da Erdogan. Le possibili opzioni dovrebbero limitarsi a 3:

- Costretti i curdi ad un accordo con Damasco, costituire una zona smilitarizzata sotto controllo internazionale a nord dell’autostrada M4;

- Eliminati alcuni centri di supporto e specifiche personalità legate al PYD/PKK, riconsegnare il controllo dell’area a Damasco, opzione molto credibile dopo le dichiarazioni di Erdogan del 16 Ottobre;

- Costituire uno stato cuscinetto turkmeno o una zona non riconosciuta internazionalmente, con controllo turco de facto.

In tutte le opzioni, oltre all’incognita degli accordi turchi con le controparti (fazioni curde incluse), resta il problema sia dei jihadisti detenuti dai curdi, sia delle milizie usate dai turchi, tutt’altro che facilmente controllabili: snodo fondamentale per procedere verso la nuova fase della “ricostruzione della Siria”, la fase economica con cui tutta la regione vuole avere a che fare.


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