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L'Unione europea e il suo potere commerciale

Aggiornamento: 14 nov 2020

1. Origine della politica commerciale europea

La nascita della odierna Unione europea non può prescindere dal ripercorrere quelle che sono le tappe principali dell’integrazione economica e commerciale nello spazio europeo. Il trattato di Roma del 25 Marzo 1957, che ha dato alla luce la Comunità Economica Europea (CEE), si propone di dar vita a un’unione doganale tra gli Stati membri della Comunità, all'interno della quale fosse garantita la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Per realizzare tale mercato era stato previsto un periodo transitorio di dodici anni, che scadeva il 31 dicembre 1969, nel quale gli Stati si sarebbero impegnati ad abolire tutte le reciproche restrizioni quantitative sul mercato, stabilire una tariffa esterna comune e una politica commerciale comune verso i paesi terzi, adottare una politica comune nel settore dell’agricoltura e nei trasporti, e ravvicinare le leggi interne in funzione del mercato comune. Per questioni di coerenza è stato necessario evitare contraddizioni tra la liberalizzazione a livello interno e liberalizzazione dei rapporti commerciali esterni. Per questo, dalla fine del periodo transitorio, la politica commerciale comune è di competenza esclusiva della Comunità.

Prima del 1970 spettava agli Stati membri coordinare le proprie relazioni commerciali con i paesi terzi, ma ciò non ha impedito alla Comunità di concludere accordi bilaterali (ad esempio nel 1964 con Israele) e di partecipare, a pieno titolo, ai negoziati GATT del Kennedy round tra il 1963 e il 1967. Ad oggi, in base all’art. 3, par. 1, lett. e), TFUE, la politica commerciale comune è di competenza esclusiva dell’Unione europea e le decisioni relative ad essa vengono adottate dal Consiglio a maggioranza qualificata.


2. Definizione di politica commerciale comune

La nozione di politica commerciale comune si rinviene all’art. 207, par. 1, TFUE, secondo cui “La politica commerciale comune è fondata su principi uniformi‚ in particolare per quanto concerne le modificazioni tariffarie‚ la conclusione di accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di merci e servizi, e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale‚ gli investimenti esteri diretti, l'uniformazione delle misure di liberalizzazione‚ la politica di esportazione e le misure di protezione commerciale‚ tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni. La politica commerciale comune è condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell'azione esterna dell'Unione”.

La Corte di giustizia dell’Unione europea, nel parere 1/75 dell’11 novembre 1975 e nel successivo 1/78 del 4 ottobre 1979, ha dato di questa nozione un’interpretazione estensiva. In quest’ultimo parere, riguardante nello specifico un accordo relativo un prodotto di base quale la gomma naturale, la Corte ha affermato che la competenza della Comunità si estende anche ad aspetti ‘accessori’, in quanto “strettamente connessi all’oggetto dell’accordo e ai compiti degli organi…”. Questa estensione di competenza risponde all’esigenza di consentire una ripartizione di competenze fra Unione e Stati membri più razionale di quella che risulterebbe da una distinzione rigorosa per materie, dato che questa implicherebbe, in mancanza di una competenza specifica dell’Unione, l’esigenza di partecipazione degli Stati membri nella conclusione ed esecuzione degli accordi in relazione a materie che sono di importanza secondaria nell’economia generale dell’accordo. Tuttavia, è la stessa Corte, nel parere 1/94 del 15 novembre 1994 a rilevare che la nozione di politica commerciale comune incontra dei limiti in altre nozioni proprie del Trattato CE, in quanto: “l’esistenza nel Trattato di capi specifici dedicati alla libera circolazione delle persone, tanto fisiche quanto giuridiche, mostra che queste materie non sono comprese nella politica commerciale comune”. Per questo motivo, in relazione a materie non regolate dai Trattati e quindi di competenza degli Stati membri, la nozione di politica commerciale comune non dovrebbe essere concepita come del tutto elastica [1].


3. Procedimento per la conclusione di accordi internazionali

Le norme fondamentali per la realizzazione e il funzionamento della politica commerciale comune sono dettate dallo schema dell’art. 218 TFUE [2], per la conclusione di accordi internazionali e tenendo conto le disposizioni particolari dell’art. 207, par. 3, TFUE. L’iter prende inizio con il mandato di negoziato con il quale il Consiglio autorizza la Commissione a negoziare un accordo commerciale a nome dell’Unione europea. Durante la fase negoziale, la disciplina per la conclusione di accordi internazionali in materia di politica commerciale si discosta da quella generale dell’art. 218 TFUE poiché la Commissione è sempre affiancata da un comitato speciale, il Trade Policy Committee, composto da alti funzionari dei ministeri per il Commercio degli Stati membri e che si riunisce con la Commissione per discutere delle questioni riguardanti le relazioni economiche dell’Unione.

Durante la procedura, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, tranne nei casi previsti dall’art. 207, par. 4, TFUE ossia: a) settori degli scambi di servizi; b) aspetti commerciali della proprietà intellettuale; c) degli investimenti diretti. In questi casi, rientranti nella politica commerciale comune a seguito del Trattato di Lisbona, è prevista l’unanimità.

Il Trattato di Lisbona, inoltre, ha ampliato notevolmente i poteri del Parlamento europeo in quanto, secondo la procedura legislativa ordinaria, è coinvolto nell’adozione delle “misure che definiscono il quadro di attuazione della politica commerciale comune” (art. 207, par. 2, TFUE) e inoltre, in base all’art. 218, par. 6, lett. v) TFUE il Parlamento europeo deve approvare “accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria…”. L’iter negoziale si conclude con l’approvazione del Parlamento europeo, o in caso di accordo misto con la ratifica da parte dei Parlamenti degli Stati membri, dell’accordo e con la successiva adozione del testo da parte del Consiglio.

Vi sono diverse tipologie di accordi che l’Unione europea stipula con paesi terzi, quelli più importanti possono essere ricondotti nei:

a) Accordi di Partenariato economico (APE): accordi commerciali per lo sviluppo del libero scambio tra l’UE e i paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico (ACP);

b) Area di libero scambio (ALS): consentono l’apertura reciproca dei mercati tra i paesi sviluppati e le economie emergenti, mediante la concessione di un accesso preferenziale ai mercati;

c) Accordi di associazione (AA): volti a rafforzare accordi più ampi.


4. Potere commerciale dell’Unione europea

La creazione del mercato interno ha sicuramente reso l’Unione europea uno dei protagonisti principali, insieme a Cina e USA, del mercato internazionale segnando addirittura nel 2017 un PIL superiore di quello statunitense (15.300 miliardi di euro). Tra il 2007 e il 2017, tra i principali partner commerciali, il più elevato tasso di crescita è stato rilevato per le esportazioni verso la Cina, addirittura triplicate, mentre le esportazioni verso la Corea del Sud sono più che raddoppiate.

Le esportazioni verso la Norvegia e il Giappone sono cresciute in misura inferiore, con incrementi del 17 % e del 38 % nel 2017 rispetto al 2007, mentre si è verificata una flessione del 3 % nel livello delle esportazioni dell'UE verso la Russia nel periodo in esame. Quanto alle importazioni, tra il 2007 e il 2017 l'UE ha registrato una diminuzione del livello delle importazioni di merci dal Giappone (-13 %) e da Russia e Norvegia (-2% in entrambi i casi); per gli ultimi due paesi queste variazioni riflettono le oscillazioni dei prezzi del petrolio e del gas. Gli aumenti più consistenti sono stati registrati per le importazioni dalla Cina (+60 %) e dall'India (+66%).

Gli Stati Uniti hanno continuato a rappresentare il mercato di sbocco di gran lunga più importante per le merci esportate dall'UE nel 2017; la sua quota, pari al 20%, ha superato la totalità delle quote riguardanti i due paesi che li seguono. La Cina ha rappresentato nel 2016 il secondo mercato di destinazione più importante delle esportazioni dell'UE (10,5 % del totale UE-28), seguita dalla Svizzera (8,0 %). Come negli anni precedenti, la Russia (4,6 %) e la Turchia (4,5 %) hanno registrato quote pressoché equivalenti. I sette maggiori mercati di destinazione in questa graduatoria (Stati Uniti, Cina, Svizzera, Russia, Turchia, Giappone e Norvegia) rappresentano complessivamente una quota superiore alla metà (53,6 %) di tutte le esportazioni di merci dell'UE. I sette maggiori fornitori delle merci importate nell'UE sono gli stessi paesi che rappresentano i sette principali mercati di sbocco per le esportazioni dell'UE, sebbene in un ordine leggermente diverso. Questi sette paesi registrano una quota delle importazioni nell'UE maggiore rispetto a quella delle esportazioni dell'UE: poco più dei tre quinti (59,4 %) di tutte le merci importate nell'UE provengono dai sette Stati. Nel 2017 la Cina è stata il paese di origine di oltre un quinto (20,2 %) di tutte le importazioni verso l'UE, oltre ad essere il maggior fornitore di merci importate nell'UE. La quota di merci importate nell'UE provenienti dagli Stati Uniti è stata pari al 13,8 % ovvero ai due terzi di quella della Cina. Tra i sette maggiori fornitori sono compresi anche Russia (7,8 %), Svizzera (5,9 %), Norvegia (4,2 %), Turchia (3,8 %) e Giappone (3,7 %). Secondo i dati Eurostat in riferimento al Gennaio 2019, una prima stima per le esportazioni extra UE di merci è stata di € 153,6 miliardi, in aumento del 2,1% rispetto a gennaio 2018 (€ 150,4 miliardi). Le importazioni dal resto del mondo si sono attestate a € 178,5 miliardi, in aumento del 3,9% rispetto a gennaio 2018 (€ 171,8 miliardi). Nel 2018, le esportazioni di beni extra UE sono aumentate a 1.955,7 miliardi di euro (un aumento del 4,1% rispetto all'anno precedente) e le importazioni sono salite a 1.980,4 miliardi di euro (un aumento del 6,6% rispetto al 2017) [3].

I primi dieci partner commerciali dell’Unione Europea Fonte: Eurostat

5. Brexit: conseguenze di una uscita per il commercio tra UE e UK

Con il termine “Brexit” indichiamo il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione europea, a seguito del risultato referendario del giugno 2016 che ha visto la maggioranza del 51,9% imporsi a tale soluzione. Formalmente attivata attraverso l’articolo 50 del Trattato di Lisbona nel marzo del 2017, dopo due anni e mezzo di trattative tra il governo May e Bruxelles è stato raggiunto un accordo, il quale non ha però ricevuto parere favorevole all’interno della House of Commons e che ad ora metterebbe a rischio un suo possibile concretizzarsi entro il 29 marzo 2019, data prevista per la sua realizzazione. Attualmente lo scenario che si prospetta è quello di una proroga della data di marzo o una c.d. ‘hard Brexit’, ossia una uscita dall’Unione senza alcun accordo tra le parti. Aspetto che è di particolare importanza riguardo all’ambito commerciale e i rapporti tra due economie importanti quali Regno Unito e Unione europea. Infatti, il commercio intra-europeo rappresenta il 47% delle esportazioni del Regno Unito (Germania 11%, e Francia, Paesi Bassi e Irlanda 6% ciascuno) mentre al di fuori dell’UE il 15% va agli Stati Uniti e il 5% alla Svizzera. Le importazioni provengono per il 51% da Stati membri dell’UE (Germania 14%, Paesi Bassi 7% e Francia 5%), mentre, dal di fuori dell’UE, sia dagli Stati Uniti che dalla Cina proviene il 9%. Questi dati testimoniano quindi che la metà dell’import/export britannico si basa all’interno del mercato unico.

Qualora la soluzione finale fosse quella prevista dall’accordo tra il governo May dello scorso novembre, si prevederebbe la permanenza temporanea del Regno Unito nell’unione doganale e nel mercato comune per un periodo di transizione, prorogabile fino al 31 dicembre 2020. Viceversa, se si assisterà ad una ‘hard Brexit’ non vi sarà nessun periodo di proroga, con la conseguenza principale che il Regno Unito sarà considerato paese extra europeo e subentreranno le norme generale dell’OMC. Al riguardo, la Commissione europea ha emanato delle linee guida rivolte alle imprese [4] al fine di evitare ulteriori complicazioni, preparando quest’ultimo allo scenario che si prospetterebbe. Nel caso in cui gli scambi tra l'UE e il Regno Unito tornassero alle regole dell'OMC, i restanti 27 paesi dell'UE registrerebbero una riduzione del PIL dello 0,8% nel 2030. I paesi che registrerebbero le perdite più elevate, in termini di PIL, sono Irlanda, Paesi Bassi e Belgio, in quanto esiste una quantità relativamente grande di scambi tra questi paesi e il Regno Unito, rendendoli particolarmente vulnerabili alla Brexit [5].


Bibliografia

[1] G. Gaja e A. Adinolfi, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Edizione Laterza 2012, pp. 221-225.

[2] Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea – Versione Consolidata (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:12012E/TXT)

[5] Brexit Monitor – The impact of Brexit on (global) trade di PWC (https://www.pwc.nl/nl/brexit/documents/pwc-brexit-monitor-trade.pdf)

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