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Cancel culture: il conflitto russo ucraino tra politically correct, woke capitalism e “revanscismo”

Aggiornamento: 26 feb 2023

“L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento” art. 33 della Costituzione italiana
Fig.1: Fonte Unsplash

1. Introduzione


L’ “operazione speciale in Ucraina”, il conflitto armato che ormai da quasi un anno vede contrapporsi la Federazione russa e l’Ucraina in una disputa non solo territoriale, ma connotata anche da forti motivazioni politico-ideologiche, ha (ri)portato alla luce un fenomeno già presente nel dibattito quotidiano, soprattutto in ambito mediatico, “inquadrandolo” però da una diversa prospettiva: la cancel culture.


Se tale pratica viene oggi utilizzata perlopiù contro personaggi pubblici, in genere a seguito di loro dichiarazioni o comportamenti più o meno discutibili, i suoi critici tendono a paragonarla ai tentativi, numerosi nella storia dell’umanità, da parte di alcuni attori- un partito, un governo o una nazione- di emarginare personaggi scomodi o addirittura cancellare la cultura di una minoranza o di un popolo.


Così declinato, questo fenomeno trascende la “mera” dimensione socio-mediatica, assumendo un valore politico-ideologico tale da renderlo una questione geopolitica, come sta accadendo oggi nel caso delle misure adottate da varie realtà e in diversi contesti a scapito della cultura russa, in risposta all’occupazione militare in atto contro l’Ucraina.


Come approfondito nei paragrafi successivi, infatti, oggetto di condanna da parte della comunità internazionale e della pluralità, estremamente variegata, di attori, politici e non, che ne fa parte non è stato meramente l’intervento militare del Cremlino, ma anche la cultura russa in sé, dall’illustre scrittore Dostoevskij al celebre drink White Russian, dal grande compositore Mussorgskij ai popolari pierogi ruskie. La censura ha colpito spietata, sia per motivi prettamente economici e d’immagine che per risentimenti e volontà “revansciste” dettate da ragioni storico-politiche, al punto da creare un “secondo fronte” di guerra, quello mediatico, in cui tanto la Federazione russa quanto i suoi “nemici” occidentali si accusano reciprocamente di ricorrere a metodi dittatoriali per eliminare quegli elementi delle rispettive culture ritenuti scomodi, pericolosi o addirittura sbagliati.


2. Cancel culture: definizione del fenomeno


Il pop culture dictionary definisce la cancel culture come: “the popular practice of withdrawing support for (canceling) public figures and companies after they have done or said something considered objectionable or offensive. Cancel culture is generally discussed as being performed on social media in the form of group shaming”. Sebbene questa non possa essere considerata una definizione formale- che,

allo stato attuale, non esiste- è comunque estremamente efficace nell’evidenziare in breve le caratteristiche fondamentali, le dinamiche nonché gli attori coinvolti nell’ambito di questo (non tanto) nuovo fenomeno.


Definire la cancel culture come una pratica popolare e non come un trend passeggero è già di per sé indicativo della portata impattante di cui questa gode, sebbene alle sue spalle non vi sia alcun tipo di premeditazione e/o organizzazione che possa qualificarla come un movimento e le iniziative di canceling vengano spesso promosse, almeno in un primo momento, da semplici privati cittadini, utenti delle principali piattaforme social. Non si può neppure parlare di boicottaggio, poiché quest’ultimo si esplica nella decisione collettiva, spesso dettata da motivi etico/morali, di non acquistare un determinato prodotto, mentre alla base della cancel culture vi è la volontà che quello stesso prodotto- o persona- sparisca dalla circolazione. Ne consegue che all’azione di canceling possono partecipare anche coloro che non sono consumatori abituali del prodotto- o fan del personaggio- in questione, ma chiunque voglia prendere posizione in merito a una problematica che coinvolga, in qualche modo, detto prodotto o personaggio.


In questi casi, alle forme di boicottaggio tradizionali si sostituiscono le misure di canceling e le “shitstorm”, le prime spesso consistenti in licenziamento, emarginazione ed esclusione della persona dal contesto lavorativo- e sociale- in cui questa è inserita, le seconde intese come quel fenomeno di pubblica manifestazione di dissenso attraverso una “tempesta di commenti” sui social, dal tono e dal contenuto spesso volgari e aggressivi.


La cancel culture riveste particolare rilevanza negli Stati Uniti, entrando nel dibattito- tanto popolare e

mediatico quanto più prettamente accademico e aziendale- in merito alla legittimità o meno delle shitstorm da una parte e delle misure di canceling dall’altra che, secondo qualcuno, rappresenterebbero rispettivamente una libera manifestazione del proprio pensiero e una modalità di promozione di quella che viene definita “accountability culture” o “cultura della responsabilità”.

Fig.2: Fonte: Unsplash

3. Libertà di espressione vs accountability culture


La cancel culture è strettamente connessa all’accountability culture, la quale si fonda sul presupposto che

determinati comportamenti, incluso affermare o esternare particolari idee, anche se non sempre perseguibili dalla legge, possono recare danno ad alcuni gruppi di individui, soprattutto categorie sociali vulnerabili e/o emarginate e, in generale, urtare la sensibilità comune. Personaggi pubblici, cariche istituzionali e rinomate aziende devono dunque essere consapevoli dell’importanza sociale dei comportamenti da loro assunti, in vista dell’impatto che questi potrebbero avere in ragione della fama di cui tali soggetti godono, delle loro funzioni rappresentative o della loro capacità di influenzare l’opinione pubblica.


Tuttavia, per meglio comprendere il legame tra i due concetti e le sue possibili implicazioni, è necessario specificare che il termine accountability viene impiegato principalmente in ambito aziendale: “An accountability culture is one where people are held accountable for their actions. This means that they are expected to succeed in their roles. It also means that if they fail, the consequences will be severe”. È evidente che l’ambito di applicazione di questo concetto, in senso stretto, attiene soprattutto all’attività che l’individuo svolge in quanto figura professionale, riguardando dunque il rapporto del soggetto con la realtà lavorativa di riferimento ed esaurendosi all’interno di quest’ultima, senza andare a interferire con ciò che il privato cittadino dice e fa al di fuori di essa. Applicare lo stesso concetto al fine di giudicare il libero comportamento delle persone e ciò che queste fanno e dicono anche nell’ambito della propria sfera privata può condurre a scenari controversi in cui, pur di non finire al centro di una shitstorm e subire la gogna mediatica, l’individuo si autocensuri al fine di prevenire non solo danni alla propria immagine pubblica e alla propria reputazione professionale, ma anche eventuali problemi nell’ambito della propria sfera personale e relazionale.


La questione dell’autocensura come misura preventiva nel tentativo, da una parte, di rispettare tanto la sensibilità comune quanto quelle categorie socialmente più vulnerabili spesso oggetto di discriminazioni e battute stereotipate, dall’altra di evitare di finire al centro di polemiche e scandali, riguarda non solo gli

individui- famosi o meno- ma anche aziende e istituzioni culturali quali, ad esempio, le università.


4. Cancel culture: promozione di valori e inclusività o espressione del woke capitalism?


La diffusione di nuovi valori, la necessità di modelli più inclusivi e la crescente attenzione verso tematiche sociali ha non solo a una progressiva polarizzazione tra i comportamenti indicati come politicamente corretti o scorretti, ma ha anche comportato una trasformazione all’interno delle realtà aziendali, nel modo in cui queste comunicano con gli stakeholder e nell’offerta dei loro servizi. Questo fenomeno ha preso il nome di “woke capitalism”, espressione coniata dall’analista politico Ross Douthat in un articolo per il New York Times del 2018 per descrivere la tendenza delle aziende statunitensi a sposare cause sociali condivise dall’opinione pubblica, entrando dunque nel mondo dell’attivismo, senza però effettivamente migliorare gli standard aziendali e adottare politiche salariali più eque.


Oggi, il termine “woke” viene generalmente utilizzato per indicare, in maniera dispregiativa, la propensione da parte di svariati attori sociali- privati cittadini, personaggi pubblici, attivisti, etc- a “vigilare” sulla condotta altrui- si tratti di individui, aziende, istituzioni culturali o altro- sulla base di specifici standard morali, individuati alla luce del concetto di politically correct, attraverso una lente progressista. È in tale contesto che, almeno in alcune delle sue declinazioni, si inserisce la cancel culture, in quanto “metodo” attraverso il quale far rispettare i summenzionati standard, avvicinare il mondo dell’imprenditoria, dell’intrattenimento e della divulgazione all’attivismo, contribuire alla costruzione e alla diffusione di modelli più inclusivi e impedire il perseverare di stereotipi e discriminazioni a qualsiasi livello attraverso il consolidamento di una coscienza collettiva più consapevole.


Quest’interpretazione della cancel culture, seppure parzialmente vera, non è esente da criticità: è innegabile la necessità di una maggiore consapevolezza verso determinati temi, come ad esempio il bisogno di modelli più inclusivi nell’industria della moda, ma nel momento in cui le misure di “riadattamento” sulla base del comune sentire, comprese quelle di canceling, sono rivolte alla cultura di un intero popolo improvvisamente inviso, per ragioni più politiche che etico-morali, all’opinione pubblica, sorge un problema di non poco conto.


5. Censura e cancel culture ai tempi dell’operazione speciale in Ucraina


In un’era dove i mass media e i social svolgono un ruolo fondamentale nella definizione di “buono” e “cattivo”, di “giusto” e “sbagliato” e nel collocamento, in una o nell’altra categoria, della molteplicità di attori che, a turno, rivestono un ruolo di protagonisti sulla scena internazionale, è inevitabile che un conflitto si svolga su diversi “campi di battaglia”, da quello militare a quello diplomatico, da quello politico-ideologico a quello mediatico. E non sempre chi riporta una vittoria in uno di detti campi risulta vincitore negli altri, anzi, se un tempo valeva il detto “la storia la scrivono i vincitori”, oggi la comunicazione in tempo reale non solo permette anche ai “vinti”, agli “umiliati e offesi” di far partecipi del proprio dolore milioni di persone in diretta streaming, ma consente anche a dette persone di esprimere la propria opinione, i propri sentimenti e, a volte, il proprio odio, verso una delle parti in causa, anche attraverso misure di canceling.


È quanto sta accadendo oggi a scapito della cultura russa a seguito dell’ “operazione speciale in Ucraina” promossa dal governo di Vladimir Putin, un intervento che ha suscitato l’indignazione di gran parte della comunità internazionale e sentimenti di profonda avversione e astio da parte dell’opinione pubblica, almeno nel mondo occidentale. Fiumi di post, commenti e hashtag si sono riversati su svariati social a sostegno dell’Ucraina e del suo Presidente Volodymyr Zelens’sky il quale, attraverso discorsi, appelli e video-testimonianze sulla resistenza del popolo ucraino e la devastazione che il paese sta subendo, è riuscito a entrare nell’immaginario collettivo tanto da diventare un’icona pop e apparire sulla copertina del Time come “persona dell’anno”.


Di contro, la Russia di Putin è stata oggetto di aspre critiche rivolte non solo al governo e al suo Capo, ma anche al popolo russo nel suo complesso, nonostante le numerose manifestazioni di protesta che almeno una parte della popolazione sta portando avanti in segno di dissenso contro l’intervento militare e, più in generale, le politiche repressive adottate dal governo. Leader, rappresentanti politici e cariche istituzionali italiane ed europee hanno espresso la propria solidarietà al Presidente Zelens’sky condannando pubblicamente l’azione della Federazione russa, in alcuni casi arrivando a cancellare e negare passati legami col suo governo di Mosca per non perdere la propria credibilità ed “epurare” la propria immagine pubblica in funzione del nuovo sentimento comune anti-russo.


Tale operazione è stata posta in essere anche da aziende, redazioni e istituzioni universitarie che, se da una parte hanno espresso il proprio genuino supporto a favore della causa ucraina, dall’altra sono state spinte a (quasi) adottare misure di canceling non solo nei confronti di noti sostenitori del governo di Putin e simpatizzanti filorussi, ma anche a danno di capisaldi della cultura russa quali i già menzionati Fëdor Michajlovič Dostoevskij o Modest Mussorgskij.

Fig. 3: il Presidente Volodymyr Zelens’kyj eletto dal Time “persona dell’anno”. Fonte: Il Giornale, https://www.ilgiornale.it/news/cronaca-internazionale/time-zelensky-persona-dellanno-2022-2093120.html

6. Tentativi di cancel culture nelle istituzioni culturali italiane


I casi di cancel culture ai danni della cultura russa che si sono susseguiti nell’ultimo anno sono numerosi e di varia natura, svolgendosi in diverse realtà, sia dal punto di vista geografico che di contesto, coinvolgendo diversi attori e avendo una portata più o meno ampia, a volte impattando direttamente, in maniera estremamente negativa e pregiudizievole, sulle comunità russofone residenti all’estero e sui loro diritti, altre “cancellando” la cultura russa attraverso misure di boicottaggio e di canceling nei confronti

di alcuni suoi illustri esponenti.


Uno degli ultimi tentativi di cancel culture che ha avuto luogo nel nostro paese ha riguardato la richiesta

rivolta al Teatro alla Scala di Milano da parte del console ucraino Andrii Kartysh di “rivedere il programma della stagione al fine di bloccare eventuali temi propagandistici”, a seguito dell’opportunità di rappresentare alla Prima il “Boris Godunov”, celebre opera del noto compositore russo Modest Mussorgskij. L’argomentazione a sostegno di tale appello risiede, secondo il console, nella strumentalizzazione, a fini politici, della propria cultura da parte del governo russo: “siccome la cultura viene utilizzata dalla Federazione russa per dare peso all’asserzione della sua grandezza e potenza, assecondare la sua propagazione non può che nutrire l’immagine del regime ivi vigente al giorno d’oggi, e dunque, per estensione, le sue ambizioni scellerate e i suoi innumerevoli crimini” [1]. Emblematica la risposta del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, in merito alla polemica, ha dichiarato:

“Sono posizioni che non condivido sia sul piano culturale sia su quello politico. La grande cultura russa è parte integrante della cultura europea. È un elemento che non si può cancellare. Mentre la responsabilità della guerra va attribuita al governo di quel Paese non certo al popolo russo o alla sua cultura”.

Un altro caso italiano che ha coinvolto un’istituzione culturale è quello della “sfiorata” cancellazione da parte dell’Università Bicocca di una lezione su Dostoevskij tenuta dallo scrittore Paolo Nori, una vicenda che si inserisce in una lunga tradizione di contestazione a scapito del celeberrimo autore russo- tanto ad ovest quanto a est- e che ha posto le basi, insieme ad altri episodi simili, per la campagna lanciata da Mosca di denuncia delle persecuzioni a danno della cultura russa in Occidente.


Duro, e sicuramente d’effetto, il paragone del Presidente Putin tra quanto sta accadendo in proposito in Europa e le misure adottate dalla Germania nazista contro la cultura “scomoda” al regime: “L’ultima volta furono i nazisti in Germania, quasi 90 anni fa, a portare avanti una tale campagna di distruzione di una cultura indesiderata. Ricordiamo bene le immagini dei libri bruciati nelle pubbliche piazze”.


7. Cancel culture preventiva o punitiva? Il caso lettone


Di diversa natura ma di uguale, anzi, forse maggiore, rilevanza è la cancel culture ad opera dei governi di alcune nazioni, soprattutto dell’Europa orientale, a danno delle comunità russofone residenti in questi paesi, le cui misure impattano sulla vita politica, sociale e culturale di milioni di persone di lingua russa al fine di difendere l’identità e l’integrità nazionale. Il patriottismo- o il nazionalismo- diventa la legittimazione- o il pretesto- di un ridimensionamento dei diritti, soprattutto di carattere linguistico e culturale, a sfavore di quei gruppi russofoni che, in alcuni casi, costituiscono una parte demograficamente significativa della popolazione nazionale.


Un esempio in tal senso è la Lettonia, paese avverso alla Russia per ovvie ragioni storiche, il cui Parlamento ha stabilito che dal 2025 il sistema educativo, finora bilingue in ragione della consistente minoranza russofona presente sul territorio, sarà esclusivamente in lettone, un provvedimento che rappresenta sicuramente un passo indietro nell’ambito della tutela dei diritti (umani) sociali e culturali. Controversa la vicenda riguardante la chiusura dell’emittente televisiva russa Tv Dohdz la quale, in patria relegata per anni su YouTube, contrassegnata come “agente straniero” dal Cremlino e infine obbligata a sospendere definitivamente le trasmissioni il 2 marzo, si è vista costretta a emigrare in Lettonia pur di proseguire liberamente la propria opera di informazione a favore della popolazione russa, se non in patria, almeno all’estero. Tuttavia, una serie di comportamenti poco chiari da parte della redazione- l’assenza di sottotitoli in lettone nei servizi nonché un’ambigua affermazione (o forse una gaffe) del presentatore Aleksej Korosteliov- ha portato il governo di Riga alla decisione di mettere al bando il canale in quanto questo costituirebbe “una minaccia alla sicurezza nazionale e all’ordine sociale”.


Il provvedimento non riguarda però solo Tv Dohdz: complessivamente, sono stati vietati venti canali televisivi russi, una misura paradossale, considerando che, proprio per il suo bilinguismo, la Lettonia era stata scelta come base da numerosi media indipendenti russi- tra cui il noto periodico Novaya Gazeta- a seguito delle restrizioni in materia di informazione attuate dal governo di Putin: sembra che neanche un “nemico comune” riesca a promuovere sentimenti di vicinanza tra il governo lettone e quegli esponenti della diaspora russa anti-putiniana e liberale.


Per concludere il paragrafo con una nota di (amara) ironia, è da sottolineare come, se da una parte la redazione di Tv Dohdz abbia ritenuto la decisione del governo di Riga estrema, difendendo dunque la propria integrità morale e professionale, essa ha allo stesso tempo provveduto al licenziamento del presentatore Korosteliov, una misura di canceling che mostra “l’effetto domino” di alcune declinazioni della cancel culture come una sorta di “scarica barile” della responsabilità.


8. Conclusione


Dopo anni di lotte politiche e battaglie sociali, sembra che finalmente si stia diffondendo una maggiore

consapevolezza e sensibilità da parte dell’opinione pubblica verso determinate tematiche, una tendenza che ha portato anche all’aumento dei temi, delle opinioni e dei termini oggi ritenuti offensivi, discriminatori e lesivi della dignità di alcune categorie di soggetti e, pertanto, politicamente scorretti. Questa maggiore attenzione ha portato attori economici (e non) quali aziende, imprese e istituzioni, soprattutto culturali, a farsi promotrici di numerose cause popolari, che incontrano il comune sentire e l’appoggio dei propri stakeholder, anche attraverso l’adozione di misure di canceling ai danni di personaggi, gruppi di individui o, come abbiamo visto, popoli e culture, improvvisamente divenuti impopolari.


Legittima o meno, di fatto la cancel culture permette a determinati attori di individuare una sorta di “capro espiatorio” su cui incanalare l’attenzione da parte del pubblico e riversare le colpe di un sistema sempre più polarizzante e disfunzionale, in un contesto socioeconomico basato su un woke capitalism “camaleontico” capace di mimetizzarsi tra la pluralità di voci senza però condividerne e promuoverne, in maniera autentica ed effettiva, le istanze.


In tale contesto si inserisce la guerra mediatica tra la Federazione russa e l’Ucraina, ormai estesa agli studi televisivi, alle redazioni giornalistiche e alle aule universitarie europee che, in un modo o nell’altro, cercano di mantenersi in equilibrio tra esigenze di mercato, politically correct e- nella migliore delle ipotesi- amletici dubbi etico-morali sull’opportunità o meno di dare spazio alla cultura russa e prendere posizione in merito al conflitto in corso. Quest’ultimo sta inoltre diventando il pretesto per una sorta di rivalsa, di “nuovo revanscismo” da parte dei governi di quelle nazioni tradizionalmente avverse alla Russia che, attraverso misure politiche e operazioni di canceling, limitano i diritti linguistici e culturali delle minoranze russofone presenti sul territorio, in nome della sicurezza e dell’identità nazionale.


Alla luce di quanto emerso nella presente analisi, sembra necessario una rivalutazione del concetto di politically correct, o meglio una riconsiderazione dei suoi campi di applicazione salvaguardando, senza dubbio, quelle categorie sociali particolarmente vulnerabili che, in quanto più inclini ad essere oggetto di discriminazioni e stereotipi, più beneficiano della sua esistenza ma, al tempo stesso, limitando l’applicazione del medesimo concetto attraverso il ricorso alle misure di canceling, soprattutto quando queste divengono potenzialmente dannose per popoli, minoranze etniche e culture.


(scarica l'analisi)

ANALISI ROBERTA CARBONE
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Note


Bibliografia/Sitografia



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