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Sfruttamento lavorativo e abusi: il caso dei domestic migrant workers in Libano

Aggiornamento: 4 set 2021

1. Introduzione


Quando si parla di sfruttamento lavorativo, ci si riferisce a uno spettro di abusi e situazioni di lavoro che differiscono in maniera significativa dalle normali condizioni di lavoro stabilite dalla legge e dalla contrattazione, in particolare in termini di reclutamento, assunzione, retribuzioni, ore di lavoro, diritto alle ferie, standard di salute e sicurezza e condizioni di vita dei lavoratori. Lo sfruttamento lavorativo include il lavoro forzato, una delle sue forme più gravi, con il quale si intende il lavoro svolto involontariamente e sotto coercizione o attraverso minacce dirette di violenza o forme più subdole di coazione.[1] Lo sfruttamento lavorativo può essere accompagnato da casi di tratta di esseri umani.[2]


Lo sfruttamento lavorativo è un fenomeno oggi sempre più diffuso e spesso agevolato dalla condizione di disagio e/o di vulnerabilità di una delle parti del rapporto, frequentemente migrante e proveniente da un diverso continente. Numerose vittime di lavoro forzato rientrano nella categoria dei lavoratori domestici migranti (domestic migrant workers). I casi di sfruttamento di lavoratori migranti sono particolarmente frequenti e ampiamente documentati in alcuni Paesi del Medio Oriente, come Libano, Giordania, Arabia Saudita e, in misura minore, negli altri Paesi del Golfo. In questi Paesi, le diverse forme di sfruttamento lavorativo sono giustificate dal sistema della kafala, un istituto di diritto islamico nato per tutelare i minori orfani, abbandonati o privi di un ambiente familiare ma che nella sua attuazione pratica è intrecciato alla legiferazione in campo di immigrazione e rappresenta un sistema di sponsorizzazione del lavoratore previsto e regolato a tutti gli effetti dal diritto islamico.[3]


La kafala, con la facciata di una tutela per il lavoratore migrante, facilita in realtà lo sfruttamento e la tratta di esseri umani. Si tratta infatti di un sistema che alimenta quella che è stata definita una forma di schiavitù contemporanea, e che da decenni viene condannata da associazioni nazionali e internazionali per la tutela dei diritti umani. Tra le situazioni maggiormentedenunciate, vi è quella delle collaboratrici domestiche migranti in Libano.


2. Il sistema della kafala in Libano


Su una popolazione di circa 6 milioni, il Libano ospita oltre 250.000 lavoratori domestici migranti provenienti principalmente dall’Asia (Nepal, Sri Lanka, Filippine) e dell’Africa (Etiopia, Madagascar, Camerun, Costa d’Avorio).[4] La stragrande maggioranza di questi lavoratori sono donne che nella maggior parte dei casi lavorano presso famiglie private.


Il sistema della kafala prevede che il lavoratore che intende migrare in Libano alla ricerca di un impiego si serva di un'agenzia preposta che lo metta in contatto con il futuro datore di lavoro, detto sponsor (kafeel). Il contratto tra le due controparti – generalmente redatto in arabo, quindi non per chiunque comprensibile – viene siglato in presenza di un notaio ma costituisce, di fatto, un ricatto che va a privare il lavoratore dei suoi diritti fondamentali: è il datore di lavoro locale che copre le spese per il trasporto e per il visto, dal quale dipende interamente la permanenza del lavoratore nel Paese; inoltre, il permesso di residenza resta valido solo per la durata del contratto e prevede il rimpatrio, qualora esso giunga a termine senza essere rinnovato.


Il sistema della kafala non permette al lavoratore di scegliere di cambiare lavoro né di terminare il contratto senza un esplicito permesso scritto da parte del datore, e non senza incorrere in sanzioni o procedimenti penali. Quasi sempre lo sponsor detiene il passaporto e il permesso di residenza di chi assume. In caso di fuga i lavoratori domestici stranieri vengono trattati come criminali, anche se vittime di abusi, dal momento che perdono lo status di migrante regolare. Inoltre, i lavoratori migranti non hanno alcuna assicurazione sanitaria e i loro stipendi (quando non vengono trattenuti) sono notevolmente al di sotto della media.


Se le norme di base della kafala si applicano a tutti i lavoratori migranti – uomini e donne – per le donne c’è un’ulteriore regola non scritta: la propria residenza deve coincidere con quella del datore di lavoro. Pertanto, le lavoratrici domestiche migranti in Libano si ritrovano intrappolate in un sistema che aumenta il loro rischio di subire sfruttamento e abusi, fino a promuovere vere e proprie situazioni di schiavitù. Il confinamento tra le mura domestiche determina orari di lavoro interminabili (fino a 24 ore al giorno), influisce sulla natura delle mansioni da svolgere e, con una frequenza allarmante, facilita violenze verbali, fisiche e sessuali. Il datore di lavoro decide inoltre se e quando la domestica riceverà il suo stipendio, intero o arbitrariamente ridotto. Per le donne etiopi, che subiscono le forme di trattamento peggiore, esso non supera i 200 dollari al mese.[5]


3. La legge libanese sul lavoro


I lavoratori domestici migranti sono del tutto esclusi dalla legge libanese sul lavoro. Le loro prestazioni sono regolate, come abbiamo visto, dal sistema della kafala che lega la residenza legale del lavoratore al rapporto contrattuale con il datore di lavoro. I lavoratori domestici vengono dunque privati delle tutele lavorative di cui godono gli altri lavoratori, come il salario minimo, la retribuzione degli straordinari, il risarcimento per licenziamento ingiusto, la sicurezza sociale e il congedo parentale. Tali privazioni sono contrarie all'articolo 7 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, a cui il Libano ha aderito nel 1972. L'articolo garantisce che tutti i lavoratori debbano godere di condizioni di lavoro giuste e favorevoli senza discriminazione.[6]


Inoltre, la legge libanese sul lavoro nega agli "stranieri" il diritto di eleggere o essere eletti come rappresentanti sindacali. Questa limitazione del diritto dei lavoratori domestici migranti alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva è in violazione degli obblighi del Paese ai sensi dell'articolo 22 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, anch’esso ratificato dal Libano nel 1972, che stabilisce che "ogni individuo ha il diritto alla libertà di associazione con gli altri, incluso il diritto di formare e aderire a sindacati per la protezione dei propri interessi".[7]


Il principale documento legale che delinea i diritti e gli obblighi dei lavoratori domestici e dei loro datori di lavoro è il contratto standard unificato, introdotto dal Ministero del Lavoro nel 2009. Il contratto impedisce al datore di lavoro di costringere il lavoratore o la lavoratrice a lavorare fuori casa; limita il numero massimo di ore di lavoro a 10 al giorno, con almeno otto ore continue di riposo notturno; dà diritto a un periodo di riposo settimanale di 24 ore, al congedo per malattia pagato e a sei giorni di ferie annuali; richiede al datore di lavoro di pagare l'intero stipendio alla fine di ogni mese con ricevute di pagamento firmate da entrambe le parti, di acquistare l'assicurazione sanitaria e di permettere di ricevere telefonate e di coprire il costo di una telefonata ai genitori al mese. Nonostante stabilisca questi diritti di base, il contratto standard unificato non è ancora stato esteso alla categoria dei lavoratori domestici, libanesi o migranti, che vengono dunque esposti a rischi di sfruttamento e abusi, con gravi conseguenze soprattutto per le donne.


4. I tipi di sfruttamento e il limitato accesso alla giustizia per le collaboratrici domestiche


I tipi di abuso nei confronti delle collaboratrici domestiche in Libano sono stati documentati da Amnesty International nel rapporto "La loro casa è la mia prigione"[8] e comprendono, tra gli altri, orari di lavoro estremi senza pause né giorni di riposo; pagamenti in ritardo e detrazioni di salario; confisca del passaporto; gravi restrizioni alla libertà di movimento e comunicazione; privazione di cibo, mancanza di un alloggio adeguato e assenza di privacy; violenza fisica e sessuale; abusi verbali e psicologici; restrizioni di accesso all'assistenza sanitaria. Amnesty International ha inoltre documentato casi di abuso, lavoro forzato e traffico di esseri umani da parte delle agenzie di reclutamento.


In particolare, numerose collaboratrici domestiche hanno dichiarato di essere costrette a lavorare più di dieci ore al giorno, di non godere di otto ore continue di riposo notturno e di vedersi negato il giorno di riposo settimanale. Inoltre, molte delle lavoratrici domestiche migranti subiscono esperienze di isolamento forzato, dal momento che i datori di lavoro impediscono loro di lasciare la casa in cui lavorano o di comunicare liberamente con amici e parenti. Le restrizioni al movimento e alla comunicazione, oltre ad essere intrinsecamente discriminatorie e in violazione della legge libanese e internazionale, impediscono alle dipendenti di denunciare gli abusi e di cercare aiuto.


È importante infine notare che il sistema della kafala compromette l'accesso alla giustizia per le lavoratrici domestiche migranti, le quali hanno spesso paura di denunciare per il timore di subire ulteriori violenze e abusi e di perdere il loro status di migranti regolari. Il mancato accesso alla giustizia compromette gli obblighi del Libano ai sensi dell'articolo 2(3)(a) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che afferma che ogni persona i cui diritti e libertà ai sensi del Patto sono violati deve avere un rimedio efficace.


5. Conclusioni


Il sistema della kafala in Libano dimostra che sono ancora numerosi gli ostacoli che devono essere affrontati a livello nazionale per garantire un accesso adeguato alla giustizia e il rispetto dei diritti fondamentali per i lavoratori domestici migranti. Le autorità libanesi sono chiamate a prendere immediate azioni per smantellare il sistema della kafala, assicurando che i lavoratori migranti non dipendano dai loro datori di lavoro per il loro status legale nel Paese e modificando la legge sul lavoro per includere anche i lavoratori domestici migranti. Il Paese dei Cedri è peraltro obbligato dalla legge internazionale sui diritti umani a garantire che i lavoratori domestici e i lavoratori migranti abbiano le stesse protezioni di quelle previste dalla legge per gli altri lavoratori.


Su un piano più internazionale, il caso delle collaboratrici domestiche in Libano mette in luce quanto lo sfruttamento per motivi di lavoro sia ancora particolarmente diffuso e strettamente legato alla tratta di esseri umani, sottolineando quanto sia fondamentale unire le forze per combattere vere e proprie forme di schiavitù moderna. In questo senso, diventano sempre più necessarie a livello nazionale, europeo e globale l’elaborazione e l’adozione di misure legislative, politiche e azioni, in linea con gli standards e le principali convenzioni internazionali sulla materia, in grado di contribuire in maniera sostanziale alla lotta contro ogni forma di sfruttamento, compreso quello lavorativo, e di garantire il pieno rispetto dei diritti dei lavoratori senza discriminazione alcuna.


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Sfruttamento lavorativo e abusi il caso dei domestic migrant workers in Libano - Luigi Li
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Note

[1] https://www.ilo.org/global/topics/forced-labour/definition/lang--en/index.htm. [2] Secondo il Protocollo delle Nazioni Unite per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini, aggiuntivo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata (Convenzione di Palermo, 2000) la tratta di esseri umani consiste di tre elementi costitutivi: un atto (il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'ospitare o il ricevere persone); un mezzo (minaccia o uso della forza o altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, o il dare o ricevere pagamenti o benefici); e uno scopo (sfruttamento, compreso lo sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, servitù o prelievo di organi). [3] La kafala è un istituto di diritto islamico volto alla tutela dei minori orfani, abbandonati o privi di un ambiente familiare. La legge islamica non prevede l'adozione, poiché non riconosce un rapporto genitore-figlio là dove non ci sia legame di sangue. La kafala, tuttavia, permette ad un adulto o una coppia di adulti di poter prendere in affidamento un minore che non sia stato possibile affidare a cure parentali. Questo conferisce all'affidatario un potere-dovere di custodia ma non la tutela o la rappresentanza legale del minore. L'istituto della kafala può contribuire a situazioni di sfruttamento. C'è infatti il rischio di poter facilitare il fenomeno delle spose bambine o dello sfruttamento minorile, fino a situazioni di vera e propria schiavitù. [4]Alcuni Paesi di provenienza, tra cui Nepal, Sri Lanka, Filippine, Etiopia e Madagascar, hanno recentemente introdotto un “migration ban” per impedire ai propri connazionali di emigrare in Libano e in altri Paesi nei quali la tutela dei loro diritti umani è messa a rischio. [5]Africa Rivista, “Kafala, l’inferno delle colf africane in Libano”, https://www.africarivista.it/kafala-linferno-delle-colf-africane-in-libano/175970/. [6]La traduzione integrale del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali è disponibile al seguente link: https://fedlex.data.admin.ch/filestore/fedlex.data.admin.ch/eli/cc/1993/725_725_725/20150313/it/pdf-a/fedlex-data-admin-ch-eli-cc-1993-725_725_725-20150313-it-pdf-a.pdf. [7] La traduzione integrale del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici è disponibile al seguente link: https://fedlex.data.admin.ch/filestore/fedlex.data.admin.ch/eli/cc/1993/750_750_750/20111027/it/pdf-a/fedlex-data-admin-ch-eli-cc-1993-750_750_750-20111027-it-pdf-a.pdf. [8] Amnesty International, “Their house is my prison – Exploitation of migrants domestic workers in Lebanon” https://www.amnesty.org/download/Documents/MDE1800222019ENGLISH.pdf.


Bibliografia/Sitografia


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