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Terrorismo e pandemia: una comparazione

Aggiornamento: 14 nov 2020

Dai primi mesi del 2020, il mondo intero è stato colpito da una pandemia dovuta alla diffusione su larga scala di un nuovo virus ormai noto con il nome di COVID-19.

Il termine pandemia, dal greco πανδήμιος “di tutto il popolo”, indica un’epidemia con la tendenza a diffondersi ovunque a livello intercontinentale o mondiale. A sua volta il termine epidemia, dal greco ἐπιδημία “che incombe sopra il popolo”, indica una malattia a diffusione localizzata o limitata ad alcune aree geografiche.

Vi chiederete: “perché parlare di epidemia o pandemia in un articolo sul terrorismo?”

Innanzitutto perché, anche da prima dell’11 settembre, il rischio sempre più certo di attacchi di bioterrorismo e armi di distruzione di massa era diventato motivo di crescente preoccupazione dei governi di tutto il mondo e degli Stati Uniti in particolare. Scrive a tal proposito Marc Sageman nel suo libro intitolato Leaderless Jihad: “Several terrorist groups such as al Qaeda have shown great interest in acquiring nuclear weapons, but they have not gone beyond that point. The far more serious threat in terms of both feasibility and destructive potential is from live biological agents used as terrorist tools […] With the exception of al Qaeda, none of the groups or individuals (who used them) started out as terrorist groups […] The odds are that a weapon of mass destruction (WMD) attack on the United States might come, not from any of the well-known terrorist groups, which are already monitored by the law enforcement authorities, but from an informal group that is not yet the focus of such scrutiny […] We need to consider that an even greater threat may be awaiting us […]We must not allow our obsessive focus on the horrors caused by a wave of terrorism perpetrated by a small group of radical Muslims to blind us against the potentially far more cataclysmic devastation engineered by a completely different type of terrorism that could threaten the existence of the human race.” Stando a quanto sostiene Sageman, se è vero che i terroristi islamici hanno dichiarato che in determinate circostanze le loro convinzioni possano legittimare l’uso di armi di distruzione di massa, è altrettanto vero che la stessa convinzione è stata espressa da ambientalisti radicali, i quali nel condannare l’umanità intera per aver distrutto il mondo attraverso l’inquinamento, il riscaldamento globale e l’abuso di risorse naturali, hanno sostenuto che il solo modo per preservare il pianeta e gli esseri umani sia sradicare una larga porzione della popolazione mondiale[1]. L’attuale pandemia ci ha dato prova dell’esattezza delle affermazioni di Sageman, mettendoci di fronte al fatto compiuto che il rischio di un attacco globale causato da un’arma biologica (essendo in questo caso l’arma biologica un virus sconosciuto e ad ampia diffusione) non sarebbe necessariamente venuto da un gruppo di radicali musulmani ma da qualsiasi altra formazione o evento al di fuori di ogni controllo e previsione.[2]

In secondo luogo, il collegamento tra una malattia virale e il terrorismo di matrice islamica risiede a mio avviso nella dicotomia locale/globale, che richiama la differenza tra epidemia e pandemia di cui sopra, nelle modalità di propagazione, nonché nel modo per bloccarne la diffusione.


1. L’epidemia chiamata al-Qaeda: genesi

In seguito agli attentati dell'11 settembre, l'Occidente si è trovato di fronte ad un nuovo tipo di minaccia terroristica provocato dalla "rete" costituita e gestita da Osama bin Laden e nota con il nome di al-Qaeda. Sin dalle sue origini, questa organizzazione ha cercato di rappresentare e far conoscere sé stessa come l'avanguardia che avrebbe consentito la diffusione su scala globale del jihad, cui avrebbe fatto seguito la nascita del vero Stato islamico [3].

Nel tentativo di portare a compimento questo obiettivo, al-Qaeda ha dovuto far fronte all’ostacolo posto dalla dicotomia locale/globale, che vede contrapposto lo scopo globale da essa dichiarato agli obiettivi di natura locale dei gruppi militanti che la stessa cerca di portare sotto la sua ala di influenza[4].

A lungo la discussione si è concentrata sull'opportunità di indirizzare tutti gli sforzi o contro Israele e i suoi alleati occidentali (il nemico lontano), oppure contro i regimi apostati locali (il nemico vicino). Dal 1979 al 1998, la corrente jihadista è stata dominata da quanti sostenevano che la rivoluzione nel mondo arabo dovesse precedere qualsiasi confronto con Israele. A partire dal 1998, Osama bin Laden e i suoi seguaci cominciarono a sostenere il contrario: Gerusalemme poteva essere liberata solo da un attacco diretto contro il nemico lontano, gli Stati Uniti alleati di Israele[5].

Le prime divisioni nella visione strategica del movimento jihadista si sono mostrate durante il primo jihad afghano. I volontari che si recarono in Afghanistan non erano motivati ​​dal desiderio di combattere contro il nemico lontano: l'Unione Sovietica era il loro bersaglio solo perché aveva invaso le Terre musulmane, che per questo andavano difese[6]. La legittimazione della lotta contro l'aggressore rimaneva, quindi, nell'ambito delle linee guida della dottrina islamica tradizionale e la novità fu determinata dal fatto che tutti i musulmani, non solo quelli che vivevano nella zona dell'attacco o quelli designati dal governo, erano tenuti a partecipare al jihad[7]. Ne consegue che il dibattito che circonda il jihad afghano ha avuto luogo, in gran parte, al di fuori del paradigma nemico vicino/lontano. Ciononostante, gli eventi che si sono verificati in Afghanistan hanno avuto un impatto significativo sulla strategia jihadista all'indomani del ritiro sovietico. Il jihad afghano ha creato un ambiente in cui i volontari provenienti da diversi Stati arabi hanno combattuto per la prima volta insieme, mettendo da parte le contrapposizioni reciproche e gli obiettivi propri di ogni singolo gruppo[8]. La guerra antisovietica condotta in Afghanistan ha costituito il primo fattore di aggregazione di militanti islamisti provenienti da tutto il mondo musulmano.

Gli avvenimenti dei primi anni Novanta (i jihad "falliti" in Bosnia, Cecenia, Algeria e Yemen, nonché l'operazione Restore Hope degli Stati Uniti in Somalia) spinsero alcuni personaggi influenti all'interno di al-Qaeda ad ampliarne l’obiettivo. Fu così che il capo del Consiglio della Shura, Abu Hajer al-Iraqi, cercò di offrire delle giustificazioni agli attacchi contro i militari americani in Medio Oriente attraverso l'emanazione di diverse fatwa. Nel 1996, bin Laden ne seguì l'esempio emanando la sua fatwa al fine di legittimare gli attentati contro le truppe americane stanziate sul suolo saudiano. Questi documenti costituirono una novità fondamentale in tutto il discorso jihadista in merito alla strategia da seguire. Infatti, pur rimanendo entro i confini del jihad difensivo[9], le fatwa contenevano al loro interno i semi della lotta contro il nemico lontano che portarono, il 23 febbraio 1998, bin Laden, al-Zawahiri, diverse figure religiose e diversi leader dei gruppi militanti a sottoscrivere la "Dichiarazione del Fronte Islamico Mondiale contro gli ebrei e i crociati", con cui si stabilì che al-Qaeda si sarebbe dedicata esclusivamente alla lotta contro il nemico lontano, rinviando quella contro il nemico vicino.

Come bin Laden ha spiegato a Peter Arnett in un'intervista nella primavera del 1997, «il nostro problema principale è il governo degli Stati Uniti, mentre il regime saudiano non è che una succursale o un agente degli Stati Uniti»[10].

Pertanto, bisognava concentrare tutti gli sforzi contro il potere reale e fonte del controllo sulla Penisola Arabica e sul Golfo Persico, piuttosto che "sprecare" ulteriori risorse per continuare la campagna contro il nemico vicino[11].

La nuova direzione scelta da al-Qaeda venne percepita da molti militanti come un rischio. I dissensi furono avanzati su basi teologiche, poiché la strategia promossa da bin Laden violava apertamente un imperativo del Corano che ai versi 9:123 recita «combattere i non credenti che sono a voi vicini e trovare in voi la forza».

Questo avrebbe alienato ad al-Qaeda il sostegno di autorevoli fonti di legittimità religiosa, che erano state fondamentali per la mobilitazione degli anni Ottanta in Afghanistan. In risposta a queste difficoltà bin Laden decise di fare causa comune con il gruppo di al-Zawahiri, il cui contributo sarebbe stato decisivo nella determinazione della strategia di al-Qaeda. Tre aspetti dell'influenza di Zawahiri sono risultati essenziali nella capacità di questa organizzazione di aggregare insieme gruppi tra loro diversi:

1. L'espansione della lotta anti-americana al di là della regione del Golfo;

2. L'importanza attribuita all'uso dei media, e infine

3. La globalizzazione del jihad, in cui i gruppi locali/nazionali trovarono il modo di proseguire la loro lotta contro i regimi apostati in termini di guerra contro l'alleanza tra ebrei e crociati[12].


2. Cosa è al Qaeda?

Prima di proseguire nella nostra analisi è essenziale porci una domanda: “cosa è al Qaeda?” La parola stessa, utilizzata per identificare questo gruppo, è problematica. Al-Qaeda viene dalla radice araba qaf-ayn-dal: può indicare una base, un fondamento, lo strato più ampio di una nube chiamato cumulonembo e fondamentalmente può indicare anche un precetto, una norma, un principio, una massima o un modello[13].

L'espressione al-Qaeda era certamente in uso alla metà degli anni Ottanta tra i radicali islamici richiamati da tutto il mondo musulmano per combattere i sovietici in Afghanistan. Questi utilizzavano la parola nella sua accezione concreta, per indicare la base da cui operavano[14].

Per molti degli elementi più estremisti tra i radicali che combattevano in Afghanistan, in particolare tra coloro che ritenevano che la loro lotta non dovesse cessare con la ritirata sovietica, la parola al-Qaeda era, invece, usata in altro senso. A tal proposito risulta significativo il modo in cui il termine fu inteso da Abdallah Azzam, il maggiore ideologo dei militanti e anche il padre del jihad, che lo utilizzava per definire il ruolo da lui previsto per i volontari più impegnati, una volta conclusa la guerra contro l'Unione Sovietica. Perciò scriveva: «Ogni principio necessita di un'avanguardia che lo sospinga e sostenga compiti immensi ed enormi sacrifici. Non esiste ideologia, terrena o celeste, che non richieda [...] un'avanguardia pronta a dare tutto ciò che possiede per conseguire la vittoria [...]. Essa porta la bandiera lungo l'erto, interminabile e aspro cammino finché raggiunge la sua meta nella realtà della vita, giacché Allah ha stabilito che debba realizzarsi e manifestarsi. Questa avanguardia costituisce il solido fondamento (al-qaeda al-sulbah) per la società che verrà»[15]. Da queste parole risulta chiaro che Azzam stesse parlando di un tipo di attivismo e non di una specifica organizzazione. Egli di certo vedeva al-Qaeda come una base, composta da individui consacrati alla causa, i quali grazie al peso delle loro azioni avrebbero prodotto un grande cambiamento. Sarebbero stati un'avanguardia, che avrebbe mobilitato e radicalizzato il mondo islamico. È plausibile pensare che Azzam non si stesse riferendo ad un'organizzazione esistente, ma ad un modo di agire.

La struttura originaria di al-Qaeda si formò nella prima metà degli anni Ottanta e trasse le sue origini dal ruolo svolto da Osama bin Laden a supporto dei movimenti radicali islamici, in particolare di quelli afghani. Essa venne costituita a partire dal 1988, quando la guerra antisovietica si stava per concludere e quella solidarietà, che aveva spinto gruppi disparati di estremisti islamici ad unirsi contro un obiettivo comune, si stava ormai esaurendo. Le divisioni nazionali ed etniche andavano riprendendo forza tra i volontari: il gruppo di bin Laden si era costituito con lo scopo di superare tali divergenze e di creare una "legione internazionale" che difendesse i musulmani dall'oppressione. Il gruppo era piccolo, composto da non più di una dozzina di uomini. Sembra perciò poco probabile che, in questa prima fase, i militanti impegnati al fianco di Osama si autodefinissero come al-Qaeda[16].

A tal proposito è rilevante il fatto che un "Enciclopedia del jihad"[17], sulla moderna guerriglia e sul terrorismo, messa insieme in Pakistan tra 1991 e 1993 da veterani della guerra contro i sovietici, non menzioni affatto al-Qaeda. Nella stessa, il solo riferimento esplicito ad Osama bin Laden si trova in un ringraziamento per il suo sostegno al jihad condotto da Abdallah Azzam attraverso il suo MAK (maktab al khidamat -"Ufficio dei Servizi" o anche "Casa dei Partigiani"), che lo stesso bin Laden aveva contribuito a costituire. Questo ufficio svolse una funzione di propaganda e informazione in tutto il mondo arabo, per "arruolare" i giovani musulmani nella lotta dei mujahidin in Afghanistan.

Quindi, in origine, al-Qaeda non sarebbe esistita in quanto entità fisica, ma solo nella sua essenza di strategia[18]. Non esisteva alcun gruppo che si definisse con questo nome o che operasse come comunemente si ritiene operi al-Qaeda[19].

Il primo accenno a qualcosa chiamato al-Qaeda si ebbe nel 1996 in un rapporto della CIA, in cui è sostenuto che «nel 1985 bin Laden aveva [...] organizzato un Fronte di salvezza islamico, o al-Qaeda, per sostenere i mujahidin in Afghanistan»[20].

Tuttavia, anche qui si parla di Osama come di un finanziatore, ma non lo si nomina in quanto capo di un gruppo terrorista. Solo in seguito agli attentati alle ambasciate americane del 1998, è stato impiegato il termine al-Qaeda, definendola non come un gruppo organizzato ma come «una centrale operativa, soprattutto per estremisti sunniti ideologicamente affini»[21].

4. Propagazione su larga scala: la diffusione della pandemia jihadista

Nel periodo, che va dal 1996 al 2001, al-Qaeda continuò a svilupparsi, ma era ancora lontana dall'essere il gruppo terrorista ben strutturato e organizzato che il mondo conobbe soprattutto in seguito all'11 settembre 2001.

A quel tempo essa consisteva di tre elementi: un nocciolo duro, una rete di gruppi cooptati e un'ideologia. Il primo elemento è fondamentale poiché sta a dimostrare la capacità di bin Laden di assicurarsi la collaborazione non solo della decina di "associati" a lui fedeli dagli anni Ottanta, ma anche dei più eminenti militanti islamici attivi in tutto il mondo. Insieme questi uomini hanno formato il nucleo del progetto al-Qaeda e il cuore della sua capacità operativa[22].

Il secondo elemento riguarda il coinvolgimento di altri gruppi islamici militanti a livello globale, legati in qualche modo a bin Laden. Tuttavia, etichettare questi gruppi come al-Qaeda costituisce un errore, poiché significa sminuire gli specifici fattori locali che hanno portato al loro emergere e significa non considerare il fatto che essi avevano ciascuno il proprio leader, il proprio Stato di riferimento e la propria rete di finanziamento. Terzo e ultimo elemento è l'ideologia, che fu la componente principale di al-Qaeda. I giovani affluiti in Afghanistan alla ricerca di addestramento militare lo facevano in virtù di una libera scelta. La disciplina all'interno dei campi di addestramento era rigida, ma chiunque voleva andarsene era libero di farlo. Non si trattava quindi di appartenere ad un gruppo, ma di far proprio un modo di pensare e di agire.

Nonostante l'assenza di riferimenti espliciti "all'entità" al-Qaeda durante il conflitto antisovietico in Afghanistan, lo stesso Osama e gli uomini a lui fedeli parteciparono direttamente alle operazioni belliche, stabilendo basi operative e logistiche a Peshawar e Khost, in Pakistan, ed iniziando ad intessere una fitta rete di rapporti con l'ISI, il Servizio di Sicurezza e Intelligence pakistano[23].

La speranza di una rapida vittoria e di instaurare uno stato islamico a Kabul svanì dopo che gli arabi, nella primavera del 1989, persero un numero consistente di uomini nel corso di una fallita offensiva contro i sovietici a Jalalabad[24]: Kabul cadde nelle mani talebane solo nel 1992.

Con il ritiro delle armate dell'Unione Sovietica dall'Afghanistan, la maggior parte dei militanti fece ritorno nei propri paesi d'origine, portando con sé la speranza di poter applicare in patria quanto appreso durante gli anni di addestramento e combattimento in Afghanistan. Proprio a causa di questo atteggiamento, le autorità contrastarono strenuamente il reinserimento dei "veterani afghani", i quali entrarono in clandestinità ingrossando le fila di varie organizzazioni terroristiche. Su questi presupposti Osama bin Laden e i suoi seguaci crearono quella che poi sarà percepita dai più come una struttura di base, in cui i reduci dell'Afghanistan avrebbero trovato "ospitalità".

5. Conclusione

Al-Qaeda può quindi essere ben rappresentata come una "rete di reti", ovvero un sistema di cerchi concentrici che abbraccia al suo interno un nucleo fondamentale rappresentato dal "nocciolo duro" composto dagli uomini vicini a bin Laden e di sua fiducia, e via via dei cerchi più larghi fino ad arrivare a quelli più esterni costituiti da quegli individui o gruppi che non entreranno mai a far parte di al-Qaeda propriamente detta, ma che si rivolgeranno ad essa per ottenere sostegno finanziario e logistico. Quella creata e gestita da Osama bin Laden è un'organizzazione basata su un sistema di centralizzazione e decentralizzazione del potere, definibile in termini di "glocalizzazione": ovvero la diffusione su scala globale di fenomeni che in realtà sono locali.

Tale amplificazione degli eventi è garantita dall'uso sapiente che viene fatto dei sistemi mediatici contemporanei, prima i video, poi internet e infine l'utilizzo dei più popolari social network, per raggiungere anche i punti più distanti della rete. Per offrire un supporto "scientifico" a queste affermazioni basta riferirsi a una delle principali teorie sui social networks, formulata da Mark Granovetter nel suo saggio Strength of Weak Ties. Secondo questa teoria la decentralizzazione unita alla globalizzazione ha accresciuto la capacità di colmare le distanze tra i cosiddetti “legami deboli”[25]. Ad esempio, un’organizzazione come al-Qaeda per sopravvivere e continuare a colpire i suoi obiettivi ha bisogno di cercare il suo supporto in un’audience sempre più vasta[26]. L’applicazione della teoria dei weak ties ai gruppi jihadisti mostra come questi legami deboli giochino un ruolo chiave nella diffusione delle innovazioni, delle idee e dell’informazione[27]. In questo contesto, la crescita dei legami deboli è stata utile, sia per diffondere globalmente le cellule jihadiste, sia per arruolare nuovi militanti in nome di una causa comune. Proprio questa capacità di aggregazione ha costituito la "fortuna" di al-Qaeda e determinato la diffusione su scala globale del jihad. Sfruttando, in nome della tradizione, i moderni mezzi di comunicazione di massa, bin Laden e i suoi seguaci sono riusciti a chiamare a raccolta musulmani provenienti da ogni parte del mondo e ad espandere la loro organizzazione fino ad arrivare nel cuore del loro nemico: l'Occidente[28].

Ritornando alla nostra analogia con l’attuale pandemia, arginabile solo attraverso il contenimento dei contagi, allo stesso modo il solo efficace mezzo per bloccare la diffusione su larga scala della radicalizzazione di matrice islamica così come la conosciamo risulta essere il contenimento. Scrive Marc Sageman in proposito: “There is no simple solution to fight global Islamist terrorism. The strategy is composed of multiple steps under an overarching idea of homeland security, defending the population. It is important to take the glory out of terrorism by demilitarizing the conflict except for sanctuary denial and by reducing terrorists to the status of common criminals [...] The strategy to counter global Islamist terrorism must be strongly grounded in scientific empirical research[29].” In conclusione, per fermare il terrorismo è necessario adottare un approccio scientifico. Tale approccio, basato su dati o informazioni misurabili e certe potrebbe richiamare la ormai nota strategia delle “tre T”, di cui tanto sentiamo parlare nella risposta al COVID 19: Testare più persone possibile, ovvero cercare di individuare le radici di possibili fenomeni di radicalizzazione[30], Tracciare con indagini i soggetti radicalizzati e infine Trattare tali soggetti con apposite politiche di de-radicalizzazione e reintegrazione.

Note [1] Sageman, Marc. Leaderless Jihad: Terror Networks in the Twenty-First Century. University of Pennsylvania Press, 2008. JSTOR. [2] La presente affermazione non intende in alcun modo avvalorare la tesi per cui l’attuale pandemia sia stata creata artificialmente, ma semplicemente sostenere che una minaccia globale non è necessariamente ed esclusivamente legata al terrorismo di matrice islamica (come è stato frequentemente dibattuto in anni recenti) ma può anche derivare da agenti finora non considerati come, ad esempio, un virus sconosciuto. [3] Eleonora Corsale, Al Qaeda la rete islamica del terrore, Media&Books, 2014. [4] Vahid Brown, Self-Inflected Wounds: debates and Divisions within al-Qa'ida and its Periphery, Combating Terrorism Center at West Point, december 2010, pp.69-99. [5] Diversi autori hanno analizzato il dibattito tra nemico lontano e nemico vicino. In proposito si possono citare: Guido Steinberg e Isabelle Werenfels, Between the "Near" and the "Far" Enemy: al-Qaeda in the Islamic Magreb, Mediterranean Politics 12, no.3, november 2007, 407-13; Jeannie L. Johnson, Exploiting Weakness in the Far Enemy Ideology, Strategic Insights, June 2005. [6] Eleonora Corsale, Al Qaeda la rete islamica del terrore, Media&Books, 2014. [7] Ibidem. [8] Ibidem. [9] In merito alla natura del jihad, per l'islam esistono due tipi di jihad esterno: quello offensivo, il cui scopo è promuovere la diffusione dell'islam nella dar al-harb (casa della guerra) sotto il comando di un califfo, e quello difensivo, il cui scopo è la difesa dei territori musulmani dall'invasione di altri Stati e che rappresenta un obbligo incombente su ogni fedele. Quest'ultimo è stato il genere di guerra combattuta dai musulmani all'indomani dell'invasione sovietica dell'Afghanistan nel 1979. [10] Peter Arnett, Interview with Osama Bin Laden, CNN,March 1997. [11] John Miller, Interview with Osama Bin Laden, ABC News, May 1998. [12] A tal proposito va citato il concetto di "ibridazione ideologica" analizzato da Heggehammer, secondo cui la strategia di al-Qaeda sarebbe un ibrido tra il nemico lontano e il nemico vicino. Per specificazioni vedere Thomas Heggehammer, The Ideological Hybridization of Jihadi Groups, Currents Trends in Islamist Ideology 9, November 2009. [13] Cfr. Jason Burke, Al Qaeda la vera storia, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, p. 22. [14] Cfr. Olivier Roy, Islam and Resistance in Afghanistan, cit. p. 160. [15] Cit. in G. Rohan, Inside al-Qaeda,Global Network of Terror, Berkley Trade, 2003, p. 3. [16] Cfr. Jason Burke, Al Qaeda la vera storia, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, cit. p. 23. [17] «[...] Un manuale del terrorismo diviso in 18 capitoli per 180 pagine. L'autore è probabilmente lo stesso che ha preparato un'altra versione su Cd Rom, chiamata "Enciclopedia". Un dischetto con mille pagine in arabo trovato in una base ad Amman, in Giordania. L'FBI ritiene che le due "opere" siano state redatte da Anas al Liby e Alì Mohammed. Nell' abitazione di quest' ultimo, un ex sergente dei Berretti Verdi americani infiltrato da Osama nell'esercito statunitense, è stato rinvenuto un computer con un manuale militare tradotto dall'inglese. Mohammed lo avrebbe adeguato alle esigenze del Jihad. [...]» in Guido Olimpio, Il Manuale Del Terrore, I kamikaze studiano sull' «Enciclopedia del guerrigliero» in Cd rom, Corriere della Sera, 22 settembre 2001, p.12. [18] Cit. in Jason Burke, Al Qaeda la vera storia, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, p. 24. [19] Cit. in Jason Burke, Al Qaeda la vera storia, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, p. 24. [20] Cfr. Memo Cia, Usama bin Laden: Islamic Extremist Financier, reso noto dopo gli attentati del 1998 alle ambasciate dell'Africa orientale, cit. p. 1. [21] Cit. in Jason Burke, Al Qaeda la vera storia, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, p. 25. [22] Ibidem. [23] Cfr. Jason Burke, Al Qaeda la vera storia, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, p. 25. [24] La battaglia di Jalalabad fu uno degli scontri più significativi nella guerra antisovietica, nonché l'ultima vittoria conseguita da parte dell'Unione Sovietica. Si assistette ad una delle poche battaglie in campo aperto del conflitto. I mujahidin, sostenuti da Usa e Pakistan, riuscirono a conquistare il villaggio di Samarkhel e l'aeroporto di Jalalabad. Tuttavia, i sovietici potevano contare su una netta superiorità aerea e su una straordinaria coordinazione delle loro truppe a differenza dei mujahidin che, divisi in fazioni rivali, erano riluttanti a collaborare. L'utilizzo di bombe a grappolo e una scarica di missili sparati da Kabul, servirono a disperdere definitivamente i mujahidin. Dopo il collasso dell'Urss nel 1991 la prospettiva di uno stato comunista in Afghanistan si infranse e le stesse milizie filogovernative disertarono arricchendo le fila dei mujahidin o abbandonando il Paese. I guerriglieri islamici iniziarono la riconquista del paese: Kunduz cadde nelle loro mani il 17 aprile, insieme a Shindand e tutta la provincia di Helmand. Il 20 aprile, Jalalabad, infine si arrese, seguita da Kandahar il 21, Gardez il 22 e, infine, con la presa di Kabul il 27 la guerra si concluse con la vittoria dei mujahidin e il collasso del regime comunista. Dopo aver ottenuto il controllo su tutto il paese, i mujahidin dovevano accordarsi su chi avrebbe avuto l'incarico di governare; tuttavia le diverse fazioni di fondamentalisti islamici non riuscirono ad accordarsi e, aizzati anche dalle potenze straniere, diedero vita ad una guerra civile che devastò completamente il paese. [25] Ovvero quelle persone o gruppi a noi lontani. Per maggiori chiarimenti circa la teoria dei "Weak Ties" Mark Granovetter, The Strength of Weak Ties: A Network Theory Revisited, Sociological Theory 1, 1983. [26] Cfr. J. Kennedy and G. Weimann, “The Strength of Weak Terrorist Ties”, Terrorism and political Violence, 2010, cit. p. 204 [27] Cfr. G. Weimann, “On the Importance of Marginality: One More Step Into the Two-Step Flow of Communication”, American Sociological Review 47, no.6, 1982, cit. pp. 764-773. [28] Eleonora Corsale, Al Qaeda, cit. [29] Sageman, Marc. Leaderless Jihad: Terror Networks, cit. [30] Per ulteriori dettagli https://www.amistades.info/post/radicalizzazione-comprenderne-il-processo.

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