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Stereotipi sessisti e vittimizzazione secondaria. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia

Aggiornamento: 14 ott 2021


“Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia. [...]” Avv. Tina Lagostena Bassi, Processo per stupro

1. Introduzione


Lo scorso 27 maggio l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) per non aver tutelato l’immagine, la privacy e la dignità di una donna che aveva denunciato una violenza sessuale ad opera di sette uomini. Oggetto della censura è la sentenza della Corte di Appello di Firenze con cui vengono scagionati gli imputati perché ‘il fatto non sussiste’: a parere dei giudici della Corte EDU le motivazioni della sentenza violano l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che tutela il diritto alla vita privata e familiare, a causa del linguaggio colpevolizzante e moraleggiante utilizzato nella sentenza, che ingenera sfiducia da parte delle potenziali vittime nel sistema giudiziario, creando un clima non sicuro per chi vuole denunciare episodi di violenza sessuale.


Non solo, ma si incorre anche nel rischio di ‘vittimizzazione secondaria’ per le presunte vittime, cioè di subire violenza psicologica nel corso del procedimento giudiziario, da parte dei componenti di quei sistemi che dovrebbero tutelare le vittime. Si tratta di una sentenza dal contenuto potenzialmente rivoluzionario per la lotta al sessismo, alla violenza contro le donne e a favore della parità di genere, poiché afferma chiaramente che c’è un nexus tra gli stereotipi di genere e una violazione dei diritti umani.

Si esaminerà il contenuto della sentenza della Corte EDU [1], inquadrando le violazioni dei diritti umani e gli obblighi in capo all’Italia sulla base alla Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione contro le Donne (CEDAW) e della Convenzione Europea contro la violenza sulle donne (Convenzione di Istanbul), con uno sguardo a quanto rilevato da parte degli organismi di monitoraggio delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa competenti.


2. La sentenza della Corte d’Appello di Firenze sullo ‘stupro di Fortezza da Basso’: una tutela mancata


Ogni processo per stupro è carico di sofferenza psicologica per la vittima o presunta tale: la denuncia, in cui la vittima deve riportare di fronte alle autorità di polizia, quasi sempre uomini, e quindi a persone estranee, i dettagli di un’esperienza violenta, rivivendo quell’evento. Le indagini, che vanno alla ricerca di elementi fisici a supporto o meno alle asserzioni della vittima, molto spesso si concretizzano nell’esaminare il corpo stesso della donna violentata, attraverso la visita ginecologica. Il processo giudiziario, in cui deve nuovamente ripercorrere la vicenda e subire un attento esame della propria vita personale, ritrovandosi ad essere lei stessa sotto accusa, diventando di fatto ‘l’imputata sostanziale’.


Ed è su quest’ultimo aspetto che la sentenza del 27 maggio 2021 della Corte EDU ha ripreso l’Italia. Secondo i giudici di Strasburgo, il linguaggio adoperato e le argomentazioni utilizzate nella sentenza assolutoria della Corte di Appello di Firenze, con cui nel 2015 vennero assolti i colpevoli di quello che i giornali chiamarono lo ‘stupro di Fortezza Basso’, sono intrisi di stereotipi sessisti. Nell’esaminare la sentenza viene evidenziato come le parole usate dai magistrati italiani spostino la responsabilità dell’accaduto dai colpevoli alla vittima, condannando quest’ultima a subire gli effetti della c.d. ‘vittimizzazione secondaria’. La CEDU rileva che anche se la vittima è stata tutelata nel procedimento (il giudice di prima istanza e il pubblico ministero hanno adottato delle misure a tutela della privacy della vittima), è stata comunque oggetto di pregiudizi sessisti, dagli otto avvocati difensori, che l’hanno di fatto resa colpevole della condotta operata dai veri autori del presunto reato, contestando l’ingiustificato rilievo dato dalla Corte fiorentina alle abitudini di vita, sminuendone la credibilità e minimizzando la violenza subita. La bisessualità della donna, il modo di vestire, le attività artistiche e culturali svolte vengono infatti analiticamente vagliate dalla Corte d’appello, elementi letti in chiave moralista come indici di una vita ‘non lineare’, e ritenuti determinanti ai fini dell’assoluzione, dal momento che di stupro non si sarebbe trattato, ma di rapporto ‘mal interpretato’ [2]. La vicenda viene definita incresciosa, seppur non penalmente rilevante. Tale aspetto, di fatto, manca di proteggere la vittima.


3. La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il diritto al rispetto della vita privata e familiare


Guardando più da vicino il caso J.L v. Italy (caso n. 5671/16), la Corte EDU ha ravvisato una violazione dell’articolo 8 della CEDU, in base al quale “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza; e 2. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza...” [3], dal momento che il linguaggio utilizzato dalla Corte d’Appello di Firenze ha palesato un approccio invasivo della vita personale della presunta vittima.


I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che le persone parti di un procedimento giudiziario, i cui diritti vengano lesi in tale contesto, sono tutelati dall’applicazione di questo articolo, poiché la suddetta norma ha proprio l’intento di proteggere gli individui dalle ingerenze della pubblica autorità nella loro sfera privata. Nel caso di specie, la Corte di Firenze ha depositato una motivazione contente riferimenti alla vita, alle abitudini personali, all’orientamento sessuale, all’abbigliamento, ai comportamenti tenuti durante la serata e alle precedenti relazioni sessuali della donna presunta vittima del reato, violando palesemente la sua sfera privata, la sua personalità e la sua dignità. Orbene, nel sottolineare la non competenza ad entrare nel merito del caso e quindi sull’assoluzione o meno degli imputati, la CEDU condanna il riferimento agli aspetti sopra detti, dal momento che sono elementi non pertinenti rispetto alla determinazione della decisione finale, che comporta chiaramente una lesione della sfera psichica della denunciante e dunque tali da farle subire gli effetti della ‘vittimizzazione secondaria’ di cui sopra, denominata tale perché derivante da quella primaria, cioè alla presunta violenza sessuale.


In questa sede, la Corte EDU ha ovviamente fatto riferimento alle violazioni alla luce della Convenzione EDU, ma gli obblighi internazionali dell’Italia in materia possono farsi discendere anche da altri strumenti.


4. Stereotipi, CEDAW e obblighi positivi per gli Stati


La Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne nel suo preambolo afferma la consapevolezza che per raggiungere la parità di genere a livello sostanziale bisogna combattere gli stereotipi e quindi richiede agli Stati-parte della Convenzione di cambiare “i ruoli tradizionali assegnati agli uomini e alle donne all’interno della società e della famiglia” [4]. Ma non è l’unico riferimento all’interno della Convenzione. Al riguardo, l’articolo 5 si presta come norma di riferimento su questo aspetto, fissando esplicitamente obblighi di natura positiva in capo agli Stati. Ai sensi dell’art. 5, lettera a), lo Stato-parte dovrà adottare tutte le misure appropriate per “modificare i modelli socio-culturali di comportamento degli uomini e delle donne, al fine di conseguire l’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di ogni altro genere che sono basate sull’idea dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o su ruoli stereotipati per gli uomini e per le donne”. L’articolo 2 lettera f) rinforza quanto detta dal summenzionato articolo, obbligando gli stati ad adottare “tutte le misure opportune” a “modificare o eliminare … leggi, regolamenti, costumi e pratiche che ammontano a una discriminazione nei confronti delle donne”.


Sicuramente il linguaggio adoperato nella sentenza nazionale di cui sopra è frutto di una certa visione culturale, che, alla luce di quanto appena detto, Stati dovrebbero combattere se vogliono davvero modificare e trasformare gli stereotipi di genere in modo tale da non essere lesivi dei diritti fondamentali delle donne.


In aggiunta, il Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione contro le Donne (Comitato CEDAW) aveva affermato che gli Stati hanno l’obbligo di affrontare le relazioni di potere fra i sessi e la persistenza degli stereotipi legati al genere come una delle categorie principali per raggiungere l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne [5].


5. Cosa prevede la Convenzione di Istanbul


La Convenzione del Consiglio d’Europa [6] include una serie di obblighi generali al fine di prevenire la violenza contro le donne, imponendo agli Stati di adottare misure preventive volte a: “…promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull'idea dell'inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”, ai sensi dell’articolo 12 paragrafo 1.


Inoltre, il paragrafo 5 dispone che gli Stati “vigilano affinché la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto ‘onore’ non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare nessuno degli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”. Infine, dopo aver dettagliato il contenuto di questi obblighi positivi nel campo della sensibilizzazione (articolo 13) e dell’educazione (articolo 14), la Convenzione di Istanbul specifica riguardo la formazione delle figure professionali, all’articolo 15 paragrafo 1, che: “Le Parti forniscono o rafforzano un’adeguata formazione delle figure professionali che si occupano delle vittime o degli autori di tutti gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime, e su come prevenire la vittimizzazione secondaria”.


Sulla base di quanto finora esaminato, l’Italia, come gli altri Paesi firmatari, ha l’obbligo di compiere delle azioni concrete per sradicare stereotipi sessisti nocivi ai diritti delle donne. E la Convenzione di Istanbul impone anche che le figure professionali competenti vengano formate in una maniera tale da non perpetrare modelli di genere dannosi, dal momento che potrebbero rendersi artefici di situazioni di vittimizzazione secondaria.


6. Osservazioni conclusive del Comitato CEDAW sul VII Rapporto Periodico dell’Italia


La sentenza in esame è un chiaro esempio di una postura culturale sessista che caratterizza la società italiana, nel caso specifico il settore della giustizia. L’Italia era già stata ripresa dallo stesso Comitato CEDAW che nelle Osservazioni Conclusive al VII Rapporto Periodico (2017) del nostro paese ha notato con preoccupazione i radicati stereotipi relativi alle donne all’interno del contesto sociale e culturale italiano. Nelle suddette osservazioni, il Comitato raccomanda all’Italia, in quanto Stato-parte della Convenzione della CEDAW di mettere in atto “… una strategia omnibus con misure proattive e sostenute per eliminare e modificare attitudini patriarcali e stereotipi di genere” che “coinvolga tutti gli attori di settore” [7]. Si chiede in sostanza di prendere una chiara posizione contro la violenza di genere e un oculato intervento politico volto a creare una società libera da pregiudizi sessisti, anche da parte della magistratura.


Gli stereotipi sessisti mutuano una cultura dello stupro, che nel contesto giudiziario ingenerano sfiducia nella giustizia, in questo caso italiana. Il Comitato rileva infatti un elevato “underreporting della violenza di genere contro le donne ed il basso livello e tasso di azioni penali e condanne, che si traducono in impunità per gli autori di reato” nonché “l’accesso limitato alle Corti civili per le donne vittime di violenza domestica, che ricercano ordini di restrizione/allontanamento” [8].


7. Primo Rapporto Generale sulle attività del GREVIO


Più recentemente, l’organismo di esperti ed esperte indipendenti incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, il c.d. GREVIO (Group of Expert on Action against Violence against Women and Domestic Violence) [9], ha rilevato le stesse considerazioni in merito agli stereotipi sessisti che caratterizzano la nostra società, come pure una certa resistenza ad fare propria la causa della parità di genere.


Nel primo Rapporto Generale sulle attività del GREVIO [10], non a caso, si sottolinea il collegamento che intercorre tra ruoli di genere stereotipati e violenza di genere. Gli atteggiamenti e le percezioni rispetto a come gli uomini e le donne sono e si comportano all’interno di una data società, hanno notevole impatto su come la violenza sessuale viene vista e quindi su come la donna viene percepita in quanto vittima di reati a sfondo sessuale. Non solo le donne subiscono violenza in quanto appartenenti al genere femminile e quindi sono destinatarie di violenza in modo sproporzionato e discriminatorio, ma anche per come la presunta vittima viene di fatto trattata, per esempio, nel corso dei procedimenti giudiziari dai giudici che si trovano a decidere su casi di stupro.


8. Conclusioni


La sentenza della Corte EDU condanna nuovamente l’Italia, dopo la sentenza Talpis c. Italia del 2017 [11], per l’inadeguatezza e l’incapacità delle autorità giudiziarie di contrastare la violenza di genere attraverso lo strumento dell’azione penale, sempre per la presenza di stereotipi sessisti e quindi discriminatori nei confronti delle donne. A seguito della sentenza della Corte EDU del 2017, il Consiglio Superiore della Magistratura adottò la Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a violenza di genere e domestica [12], che però non è uno strumento sufficiente ed efficacie, dal momento che il sessismo riguarda aspetti culturali e sociali, piuttosto che di organizzazione interna a un corpo professionale. Di conseguenza, quest’ultima sentenza risulta essere un’ottima occasione di riflessione sul c.d. judicial stereotiping, al fine di rimuovere stereotipi e pregiudizi dalle sentenze del sistema giurisdizionale italiano. E per avere risultati effettivi in termini di parità di (sostanziale) genere, è necessario partire dalla cultura della società civile e quindi dall’educazione contro la discriminazione e il sessismo, che costituiscono il sostrato degli stereotipi sulle donne.


(scarica l'analisi)

Stereotipi sessisti e vittimizzazione secondaria - Chiara Mele
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Bibliografia/Sitografia


[1] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, 27 maggio 2021, J.L. c. Italia, n. 5671/16 (testo in lingua francese): https://hudoc.echr.cofe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-210299%22]}.

[2] Per il testo della sentenza di assoluzione in II grado della Corte d’Appello di Firenze: https://ovd.unimi.it/wp-content/uploads/sites/3/2021/06/Corte-dAppello-Firenze-n.-8582015.pdf.

[3] Per il testo completo della Convenzione Europei dei Diritti Umani (in lingua inglese): https://www.echr.coe.int/documents/convention_eng.pdf.

[4] Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Nazioni Unite): https://cidu.esteri.it/resource/2016/09/48434_f_CEDAWmaterialetraduzione2011.pdf-

[5] Comitato CEDAW, Raccomandazione Generale n. 25, UN Doc. A/59/38 (2004), paragrafo. 7.

[6] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica: https://www.istat.it/it/files/2017/11/ISTANBUL-Convenzione-Consiglio-Europa.pdf.

[7] Osservazioni conclusive del Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione contro le Donne sulla VII Rapporto Periodico dell’Italia, paragrafo 26 lettera a) e b).

[8] Ibidem, paragrafo 27 lettera b) e c).

[9] Council of Europe, Istanbul Convention Action against violence against women and domestic violence, about GREVIO: https://www.coe.int/en/web/istanbul-convention/grevio.

[10] Primo Rapporto Generale sulle attività del GREVIO, relativo al periodo da giugno 2015 a maggio 2019: https://rm.coe.int/first-grevio-s-report-of-activities-in-italian/1680a1f129.

[11] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 2 marzo 2017 - Ricorso n. 41237/14 - Causa Talpis c. Italia: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?facetNode_1=0_8_1_85&facetNode_2=0_8_1_61&contentId=SDU1321256&previsiousPage=mg_1_20.

[12] Consiglio Superiore della Magistratura, circolari e risoluzioni - VII commissione, “Linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”: https://www.csm.it/web/csm-internet/-/risoluzione-sulle-linee-guida-in-tema-di-organizzazione-e-buone-prassi-per-la-trattazione-dei-procedimenti-relativi-a-reati-di-violenza-di-genere-e-do.


Per approfondimenti

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