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Somalia: scacco a un Re debole

Aggiornamento: 14 nov 2020

“E si combatte, questa guerra che nessuno racconta, a Mogadiscio, a Merca, a Brava, appena liberate. Qui gli uomini dell’antiterrorismo, un migliaio in tutto, non li riconosci: si vestono di stracci, si confondono tra la gente del mercato, copiano gli Shebab, braccano le voci e le soffiate deli informatori. Perché battuti sul campo, dai blindati, dagli elicotteri, dai cannoni, cacciati dalla città dove reclutavano tutti, anche i bambini, con le fonti di denaro e di traffico diminuite gli Shebab hanno cambiato tattica: si sono in parte dispersi nella boscaglia in piccole unità che si muovono in continuazione per sfuggire alla caccia. O si sono diluiti, mimetizzati in città, lupi solitari pronti all’attentato, con l’esplosivo o le pistole[1]

A sette anni dalla formazione del nuovo governo federale, avvenuta nel 2012, la Somalia rimane ancora uno dei Paesi più fragili e poveri al mondo. Il governo di Mohamed Abdullahi Mohamed (“Farmajo”), insediatosi da due anni, arranca, stretto nella morsa di annosi problemi irrisolti e dimostrando, ancora oggi, una sovranità debole nell’assolvere alle funzioni basilari di uno Stato, in termini di sicurezza interna, riscossione delle tasse, erogazione dei servizi e amministrazione della giustizia. Il Paese rimane lacerato e teatro di violenze, conteso tra rivalità tribali, Al Shabab e ingerenze esterne. Le alleanze vengono strette e sciolte alla bisogna, secondo la convenienza del momento, mentre i vuoti istituzionali scatenano lotte intestine più o meno carsiche, volte al controllo del territorio e delle sue risorse. Una Somalia sotto perenne scacco, con un “re” debole e in balia di trame che trascendono le sue reali ed effettive capacità, preda di insidie incombenti e alle prese con una riconciliazione nazionale che ancora barcolla su terreni scivolosi. A farne le spese è all’incirca la metà della popolazione, ovvero 6 milioni di somali che versano in condizioni emergenziali, di cui 3 milioni soffrono la mancanza di alimenti e condizioni di salute critiche, dovute in parte ai periodi di forte siccità e di inondazioni, frutto dei cambiamenti climatici in atto.


1. Excursus sul conflitto

La guerra civile somala scoppia a metà degli anni ottanta e può essere concettualmente divisa in tre momenti: la prima fase, dal 1986 fino alla caduta del regime socialista di Siad Barre nel 1991; la seconda fase fino al 2000, in cui il paese è ostaggio dei “warloards” locali, e la terza fase, dal 2006 ad oggi, in cui il governo si trova a fronteggiare Al Shabab, nato dall’esperienza politica delle Corti Islamiche e legato ad Al Qaeda. Le radici del conflitto affondano nelle rivalità tra i clan, esasperate dal regime di Barre, negli ingombranti lasciti del colonialismo e nell’interferenza delle super potenze nel più ampio contesto della Guerra Fredda.

Con la caduta del regime di Barre (1969 – 1991), avvenuta nel 1991 per mano dell’offensiva congiunta di tre movimenti che rappresentavano gli interessi delle famiglie Hawiye, Ogaden (sotto clan dei Darod) e Isaaq (sotto clan dei Dir), le istituzioni del Paese collassano, gettandolo in uno stato di anarchia. Barre, che evocava la ricostruzione di una grande Somalia e cercava di superare le divisioni tribali, si trovò presto isolato internazionalmente, alienandosi prima il supporto dell’Urss, dopo la battaglia con l’Etiopia sull’Ogaden (1977) e quindi degli Stati Uniti. L’isolamento lo spinse a concentrare il potere nelle mani del suo sotto clan (Marehan), scatenando la reazione degli altri clan, che unirono gli sforzi per scacciarlo e poi si ripartirono il potere, con gli Hawiye nel centro meridione e i Darod nel nord[2].

Negli anni novanta il Paese divenne il campo di battaglia dei signori della guerra locali, mentre il fallimento dell’operazione Restore Hope, lanciata dagli Stati Uniti nel 1993 sotto l’egida delle Nazione Unite, indusse Washington a virare su un approccio meno diretto. Nei primi anni Duemila venne creato un primo embrione di governo di transizione internazionalmente riconosciuto, largamente composto dai warloard, finanziati dalla Cia e con il beneplacito dell’Etiopia[3]. Il nuovo governo, con sede provvisoria a Baidoa, nacque con poca legittimità interna, approntando il terreno perfetto per l’ascesa dei movimenti islamici, che si coagularono intorno all’Unione delle Corti Islamiche, al cui proprio interno albergavano correnti moderate e altre più radicali, tra cui Al Shabaab. Le Corti Islamiche, nel 2006, riuscirono a prendere controllo della capitale Mogadiscio e di larghe fasce della Somalia centro meridionale, scacciando i signori della guerra e dimostrandosi capaci di stabilizzare e amministrare il paese dopo molti anni di violenze. L’ascesa islamica provocò però la reazione dell’Etiopia che, appoggiata da Washington, intervenne militarmente, troncandone dopo pochi mesi l’esistenza e ripristinando un governo alleato. Negli anni successivi, dalle disciolte Corti Islamiche emerse il protagonismo di Al Shabaab, che conquistò per un breve periodo Mogadiscio e vari altri punti strategici, tra cui il porto di Chismaio a sud[4]. Il movimento islamista, nel corso degli ultimi anni è stato costretto a ripiegare nel sud del paese, dove è impegnato in una guerriglia asimmetrica contro l’esercito nazionale, la missione dell’Unione Africana AMISOM (presente dal 2007) e il Comando degli Stati Uniti in Africa (AFRICOM).

La guerra in Somalia dagli anni novanta ad oggi ha causato tra 500 mila e 1 milione di morti[5], mentre il numero di sfollati interni oscilla tra 1,5 e 2 milioni[6]. La combinazione degli scontri armati e degli eventi climatici estremi ha generato diverse carestie nel paese tra cui, quella avvenuta tra il 2011 e il 2012, che ha causato la morte di circa 250 mila persone. Nonostante negli ultimi anni i focolai di conflitto si siano ridotti, diverse zone del Paese, specie il centro meridione, sono ancora sotto la pressione di Al Shabab, delle milizie dei clan, della missione AMISOM, attiva dal 2007 con più 20 mila uomini, e dei droni statunitensi.


2. La Somalia dei Clan

A differenza dei Paesi limitrofi, la Somalia vanta una notevole omogeneità etnico – culturale e religiosa, abbracciando un Islam sunnita. Il 56% della popolazione proviene dal mondo agricolo[7] e gran parte di essa è dedita alla pastorizia, con uno stile di vita semi – nomade durante i periodi della transumanza, o all’agro - pastorizia, specie nella fascia centro meridionale, dove sussistono le condizioni per sviluppare l’agricoltura.

Il tessuto sociale si divide in clan e sotto – clan, cerchie familiari stabilite su linee patrilineari, che segmentano la popolazione in un processo fluido e costituiscono un polo di identificazione e affiliazione primario. Tradizionalmente il clan ha costituito non solo una fonte di sicurezza, laddove i più potenti dispongono di una propria milizia, ma anche l’accesso alle risorse e ad una occupazione, in uno dei Paesi con il tasso di disoccupazione più alto al mondo. Tra i clan vige un diritto consuetudinario (xeer) che regola determinati aspetti della vita e dell’interazione tra gli stessi, governato dagli anziani religiosi dei vari gruppi. Questo sistema di norme interviene, ad esempio, nella risoluzione mediata dei conflitti o quando c’è da accordare sicurezza ad un clan che transita in territorio “straniero”.

Figura 1 Perry - Castañeda Library Map Collection

Nel Paese si distinguono quattro grandi famiglie: Darod, Hawiye, Dir e Digil Mirifle. I Darod si concentrano nella regione autonoma del Puntland a nord – est, nella Somalia centro meridionale, dove controllano Chismaio e in Etiopia orientale. Gli Hawiye, che insieme ai Darod costituiscono i clan più potenti, si localizzano nel centro meridione del paese, e i sotto - clan degli Abgal e Habr Gedir dominano la capitale Mogadiscio, città “cosmopolita”. Il clan Dir e i relativi sotto – clan si concentrano prettamente nel Somaliland, regione del nord che dal 1991 ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza. Infine i Digil - Mirifle, o Rahanweyn, sono stanziati nella regione di Bai dove si dedicano all’agro pastorizia (Somalia centrale) e, al pari delle altre minoranze, sono stati tra quelli maggiormente vessati dai clan più potenti[8]. La mappa sotto riportata ci permette di farci un’idea della localizzazione dei vari clan:


La politica è fortemente innervata dalla logica dei clan e, fin dalla formazione del governo transitorio, è stata seguita la formula 4.5, tutt’ora vigente. Quest’ultima prevede un sistema di assegnazione degli incarichi politici e burocratici a rotazione, dove ai quattro maggiori clan è attribuito ciascuno uno dei quattro punti, mentre lo 0.5 spetta ai clan minori e alle altre minoranze. La formula ha finito però per polarizzare la dinamica politica, creando instabilità e finendo per restringere il potere nelle mani dei Darod e degli Hawiye (specie i sub clan Abgal e Habr Gedir)[9], che si sono spartiti gli incarichi di vertice (presidente e primo ministro). I clan mediano tuttora anche il processo elettorale, che non prevede il suffragio universale (annunciato per il 2020) ma attribuisce il diritto di voto ad un gruppo di emissari indicati all’interno dei clan: il governo Farmajo, ad esempio, è stato eletto da 14 mila notabili inviati dai vari clan[10]. Inoltre, la previsione di uno Stato con un’architettura federale, non è riuscita a disinnescare le rivalità tra il governo centrale e gli stati regionali, che ruotano basicamente attorno alla ripartizione delle competenze e delle risorse.

La convivenza tra i clan appare tumultuosa e ad oggi si calcola che circa il 35% dei conflitti siano riconducibili a scontri tra o all’interno degli stessi, esacerbati dalle volatili relazioni di potere, da dispute irrisolte su confini artificiali e dall’accesso alle risorse[11]. Le ostilità attuali, di natura squisitamente locale e concentrati nella Somalia rurale, si estendono nel nord del paese (le regioni Sool e Sanaag), dove si registrano schermaglie tra le provincie autonome del Somaliland e del Puntland, ma soprattutto nella zona centro meridionale, ovvero nello Giuba e nel Galgudug[12]. Il dato che preoccupa maggiormente il governo centrale è che le milizie dei clan, che nel corso degli ultimi anni sono state incorporate all’interno dell’esercito nazionale al fine di ricostituirlo, rispondono ancora ad interessi tribali invece che a logiche nazionali. Nelle regioni del basso e medio Scebeli (Somalia centro meridionale), ad esempio, dove le condizioni climatiche garantiscono terreni agricoli di buona qualità, le brigate dell’esercito nazionale legate ai potenti sotto clan Abgal e Habr Gedir che sulla carta dovrebbero combattere contro Al Shabab, perpetrano violenze contro i clan più deboli, provocando land grabbing e sfollamenti forzati. Le stesse milizie degli Abgal e dei Habr Gedir, in lotta per il controllo degli affari più redditizi di Mogadiscio, mostrano inoltre come le violenze si producano anche all’interno dello stesso clan[13].

Alla radice dei conflitti, riavvolgendo il nastro della storia somala, si può notare come i clan siano stati abilmente manipolati ed influenzati da vari attori, interni ed esterni, che hanno speculato sul concetto di clan per difendere i propri interessi privati. A livello interno c’è chi ha tratto enormi profitti dalla guerra e guarda con timore la ricostruzione di uno stato centrale, che ne ridurrebbe il potere accumulato e tornerebbe ad esigere una tassazione. A livello esterno, invece, si affollano varie potenze estere che hanno fatto ricorso all’intramontabile tattica del divide et impera per mantenere il Paese debole e disunito. Già agli albori del Novecento, ad esempio, i coloni britannici esasperarono i conflitti interni pro domo loro, così come gli stessi Stati Uniti hanno finanziato alcuni clan nella lotta contro lo jihadismo. A livello regionale, invece, anche l’Etiopia e il Kenya, intervenute a più riprese negli affari interni somali, temono una Somalia unita, in grado di avanzare pretese sulle loro regioni largamente abitate da somali. Un altro attore che, nonostante i proclami unificanti, è stato risucchiato nei labirinti tribali, è Al Shabab.


3. Al Shabab

Nato tra il 2004 e il 2006 come costola delle Corti Islamiche, Al Shabab (“Giovinezza”), continua a rappresentare la minaccia più grave per la stabilità del Paese, seppur in declino dal 2011. Attualmente il raggio di azione del gruppo armato si è sensibilmente ridotto e si limita ad attacchi terroristici esplosivi contro i civili o, rare volte, con attacchi frontali alle truppe dell’AMISOM. La sua presenza nel Paese è oggi ambivalente: nella Somalia più ricca e integrata istituzionalmente, come a Mogadiscio, agisce in maniera occulta, mentre nelle zone rurali centro meridionali vanta un controllo più radicato e agisce come un proto Stato, specialmente nella valle dello Giuba o, meno capillarmente, nella regione autonoma lealista del Puntland, dove è presente anche una cellula dello Stato Islamico (circa 250 uomini). La promessa di uno stipendio attrae molti giovani somali ma, tra le proprie file, il gruppo ospita anche numerosi foreign fighters, che hanno assunto anche posizioni di comando, sancendo di fatto lo spostamento graduale del gruppo su dimensioni più internazionali. Negli ultimi anni il gruppo islamista, la cui struttura interna non è monolitica e a livello numerico è stimato tra le 3 e 6 mila unità[14], ha subito molte defezioni e notevoli perdite lungo la linea di comando, con alcune correnti che sono state cooptate dal governo federale, che ha proposto varie amnistie. Nel tentativo di adattarsi all’attuale condizione asimmetrica il gruppo da più di un decennio porta avanti una strategia regionale, tessendo un filo che corre tra il Kenya, il Gibuti, l’Uganda e la Tanzania[15].

Dal punto di vista economico Al Shabab gestisce un business estremamente proficuo che, sebbene non facilmente quantificabile, conta su una varietà di entrate e su un sistema di riscossione meticoloso e centralizzato, più efficiente del governo centrale. Nelle zone di controllo colloca check point sulle vie di comunicazione, dove viene applicata una tassa forzosa sul transito di veicoli e di beni capace di generare circa 5 mila dollari al giorno per ciascuno: quello di Jameeco, tra Mogadiscio e Baidoa, genera un profitto di 10 milioni di dollari annui. Attraverso l’installazione dei ckeck point il gruppo fondamentalista è riuscito anche a controllare e tassare parte degli aiuti umanitari internazionali, che ammontano circa a un 1 miliardo di dollari annui. Al Shabab adotta la stessa tattica usata dai warloard in passato, che affamavano gli sfollati interni per far arrivare aiuti internazionali, di cui in seguito prendevano possesso[16]. Sempre attraverso i check point, passa anche la rendita derivante dal commercio e dall’esportazione del carbone: un business complessivo di 150 milioni di dollari annui, vietato dagli organismi internazionali dal 2012 proprio per tagliare una fonte di finanziamento ai jihadisti. Al Shabab, inoltre, applica tassazioni sulle attività agricole, riscuote la zakat (forma di tassazione sancita dal Corano) in maniera forzosa nelle zone rurali ed estorce il pizzo ai business più redditizi di Mogadiscio e di Chismaio[17]. Da molte fonti appare anche come il gruppo sia finanziato da altri Paesi arabi, come il Qatar o l’Arabia Saudita, ma finora non ci sono prove certe a riguardo.

Nell’interazione con i clan si è assistito ad un sensibile cambiamento di Al Shabab nel corso degli anni, dovuto anche al suo ridimensionamento. Nonostante il gruppo, per propria costituzione, sia nato come forza unificante, negli anni di apogeo si appoggiava soprattutto sui maggiori clan, su tutti gli Hayiwe. La rapida perdita di terreno lo ha costretto a cambiare tattica, perdendo il consenso dei clan più potenti e dovendo forgiare alleanze opportuniste con i clan e le minoranze più deboli e marginalizzate, a cui può garantire sicurezza e protezione[18]. Nelle regioni maggiormente critiche il campo di battaglia è però spesso molto confuso e non è inusuale, ad esempio, assistere al tentativo di alcune milizie di spacciarsi per nuclei di Al Shabab o per gruppi non identificati[19].


4. Interessi stranieri

La posizione geostrategica del Corno d’Africa pone la Somalia al centro di molte attenzioni da parte di potenze regionali e globali che, negli ultimi decenni, hanno ingaggiato una corsa commerciale e militare all’Africa. Dal Golfo di Aden, risalendo per lo stretto di Bab el Mandeb fino al Canale di Suez, infatti, transita il 10% del traffico di merci mondiale via mare, l’8% del petrolio mondiale e un flusso occulto illegale di armi, sostanze stupefacenti e rifiuti tossici. È più che naturale, quindi, ritenere che i circa 3 mila chilometri di costa somala possano fare gola a molti. Al di là dell’aspetto commerciale, nel Paese si sono concentrati la lotta globale al terrorismo e alla pirateria, il contenimento occidentale dell’avanzata cinese e le schermaglie in atto tra le potenze del Golfo.

Figura 2 ISPI

Tra le potenze estere si assiste ad una compresenza di attori, alcuni di lunga data, come gli Stati Uniti, l’Etiopia e il Kenya, altri più recenti, come gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar. Riguardo Etiopia e Kenya, di cui si è già detto in precedenza, la volontà di mantenere una Somalia debole e disunita spinge i Paesi limitrofi ad intrecciare accordi con i governi regionali, come il Somaliland per Addis Abeba e la regione dello Giuba per Nairobi. Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono intervenuti nel Paese finanziando azioni militari e attraverso l’utilizzo di droni, che hanno colpito più volte anche la popolazione civile innocente. Oltre alla lotta contro il terrorismo islamico, il gigante statunitense guarda con preoccupazione alla rapida espansione della Cina in Africa, la quale considera la Somalia uno snodo centrale nella via della seta marittima cinese e ha recentemente inaugurato una base militare nel Gibuti, entrando in competizione diretta con Camp Lemonnier, tra le basi più importanti degli Stati Uniti in Africa. In termini di sicurezza, sono presenti al largo delle coste somale anche diverse missioni navali europee e a bandiera iraniana contro la pirateria, fenomeno locale che investe prettamente il nord della Somalia e che, seppur in diminuzione, riaffiora sporadicamente.

Un’altra grande partita che riverbera nel Paese rimanda a una delle fratture recenti del mondo arabo, che oppone il Qatar all’asse formato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Bahrein. La competizione giova ad alcuni attori locali, come Somaliland e Puntland, che puntano ad aumentare la propria autonomia. Un caso paradigmatico in tal senso l’ha rappresentato il contenzioso aperto tra Emirati - primo Paese in termini di investimenti diretti esteri -, il governo centrale somalo e il Somaliland, sulla gestione della base militare di Berbera, occhieggiata da Abu Dhabi. Gli Emirati controllano, tra gli altri, anche il porto di Bosaso (Puntland), zona in cui approdano consistenti flussi illegali di armi. Sull’altra sponda, il Qatar, che ha versato nelle casse del governo centrale somalo 400 milioni di dollari di aiuti finanziari, fa pressione per contenere l’influenza degli Emirati Arabi Uniti. Gli attriti regionali si ripercuotono sulla politica interna e negli ultimi mesi gli Stati regionali, sponsor della linea saudita, hanno severamente criticato la posizione di neutralità assunta dal Presidente Farmajo nello scacchiere arabo, decidendo a fine 2018 di congelare collettivamente le relazioni con il governo centrale.

Infine, la Turchia, che destina in Somalia la quota più grande di aiuti umanitari di tutta l’Africa, ha adottato una politica differente rispetto agli altri Stati, muovendo il mondo imprenditoriale e quello delle organizzazioni non governative nel Paese e adoperandosi per ricostruire o potenziare importanti infrastrutture, tra cui l’aeroporto di Mogadiscio, porti e ospedali e stabilendo nel 2017 la sua prima base militare in Africa, sempre nella capitale[20].


5. Un Paese da ricostruire

Nel 2019 la Somalia è un Paese ancora tutto da ricostruire e parlare di post conflitto potrebbe essere un termine azzardato per descrivere la situazione corrente. In questi lunghi e sanguinosi anni di guerra si sono concentrati tanti poteri occulti, molti altri sono in disputa perenne e alcuni attori, interni ed esterni, dimostrano interessi egoistici nel mantenere il Paese debole. Molti ex signori della guerra ora indossano le vesti di facoltosi uomini d’affari o di zelanti predicatori religiosi, mentre Al Shabab, seppur severamente indebolita, controlla ancora parte del Paese e infiltra la capitale e le sue zone strategiche. Una sequela di scandali affiorano a più riprese, come gli aiuti provenienti dalla cooperazione internazionale magicamente scomparsi e finiti nelle tasche di Al Shabab, militari costretti a vendere le proprie armi al mercato nero per sussistenza, o le morti di civili causate dall’AMISOM e dai droni statunitensi. Un Paese acefalo, con un governo federale fragile composto, in controtendenza con il passato recente, da tecnocrati provenienti dalla diaspora somala, senza forti affiliazioni tribali. La formula 4.5 non riesce a garantire un potere centrale forte, che nella ricerca di legittimità interna finisce con il pestarsi i piedi con gli Stati regionali, in combutta con i Paesi esteri. L’esercito, la cui ricostruzione è una delle priorità dell’agenda di governo, rimane anch’esso permeato da dinamiche tribali, è ancora sotto dimensionato e fortemente dipendente dalle missioni straniere, mentre tra i vari battaglioni si registrano notevoli differenze in termini di equipaggiamento, salari e livello di addestramento. Il Paese, se vuole uscire dalla trappola di un conflitto che si autoalimenta, deve risolvere prioritariamente il problema della sicurezza interna, che dallo scoppio della guerra è stata fortemente privatizzata e appaltata a molteplici attori, tra cui le milizie dei clan, quelle legate ai vecchi warloard, ma anche alle agenzie di sicurezza private ed estere. Tragicamente, allo stato attuale, ognuno appare intento a giocare una partita tutta sua, in un fitto ginepraio in cui le mosse sul campo si aggiustano alle contingenze e all’interesse egoistico del momento.

[1] D. QUIRICO, Il Grande Califfato, Padova, 2015, p. 205

[2] F. BROWN, Tragedy in Somalia: Clan, Colonizers, Superpowers and the Cult of Personality, Columbus, 1993

[3] D. MORGAN, Reuters, Us funding Somali warloards – intelligence experts say, Londra, 2006

[4] K. MENKHAUS, Oxford University, The Crisis in Somalia: Tragedy in Five Acts, Oxford, 2007, pp. 369 - 380

[5] GLOBAL SECURITY, Somalia Civil War

[6] UNHCR, CCCM Somalia Overview

[7] WORLD BANK, Data Somalia Rural Population, 2018

[8] ASYLUM RESEARCH CONSULTANCY, Situation in South and Central Somalia (including Mogadishu), 2018, pp. 323 - 326

[9] K. MENKHAUS, Oxford University, The Crisis in Somalia: Tragedy in Five Acts, Oxford, 2007, pp. 360 - 365

[10] F. SCHAAP, Spiegel Online, The Business of Fear in Boomtown Mogadishu, Amburgo, 2017

[11] ASYLUM RESEARCH CONSULTANCY, Situation in South and Central Somalia (including Mogadishu), 2018, p. 84

[12] CRISIS GROUP, Instruments of Pain (III): Conflict and Famine in Somalia, Nairobi/Bruxelles, 2017

[13] ASYLUM RESEARCH CONSULTANCY, Situation in South and Central Somalia (including Mogadishu), 2018, pp. 102 - 105

[14] B. STARR R. BROWNE, CNN, US Airstrike in Somalia kills more than 100 al – Shabaab militants, Atlanta, 2017

[15] CRISIS GROUP, Al Shabaab Five Years after Westagate: Still a Menace in East Africa, Buxelles/Nairobi, 2018

[16] S. KILEY, Cnn, Funding Al Shabaab: how aid money ends up in terror group’s hands, Baidoa, 2018

[17] UN SECURITY COUNCIL, S/2018/1002, 2018, pp. 22 - 28

[18] P. CHONKA, Tony Blair Institute for Global Change, What You Need to Know to Understand al – Shabaab, London, 2016

[19] ACLEDDATA, Somalia – September 2017 Update, 2017

[20] T. CORDA, G. DENTICE, M. PROCOPIO, ISPI, Corsa al Corno d’Africa: interessi globali e competizione regionale, Milano, 2018

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