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Sanzioni americane e petrolio iraniano: una nuova guerra energetica?

Aggiornamento: 14 dic 2020


(di Greta Zunino) A Maggio 2018 il governo degli Stati Uniti ha annunciato il ritiro unilaterale dall'accordo sul nucleare iraniano, il JCPOA, lo strumento che ha permesso la sospensione delle sanzioni nei confronti del paese mediorientale a partire da Gennaio 2016. Nel Novembre 2018, gli USA hanno reintrodotto le sanzioni preesistenti, andando a colpire non solo la già vacillante economia iraniana, ma anche gli Stati e le compagnie che avevano ricominciato a ricucire i legami economici con il paese.


Tra i settori più compromessi, quello petrolifero: prima dell'imposizione dell'ultima ondata di sanzioni infatti, l'Iran era il sesto produttore mondiale di greggio; il petrolio contribuiva al 70% dell'export e al 50% degli introiti statali del Paese.


Se nel Maggio 2018 l'esportazione di greggio iraniano si attestava poco al di sopra dei 2,5 milioni di barili al giorno (b/d), a Novembre gli stessi volumi superavano di poco il milione.

Le implicazioni di questo drastico calo sono molteplici e vanno a toccare tre attori principali: gli USA, l'Iran stesso e quelle che chiameremo le terze parti - i Paesi indirettamente coinvolti nella tempesta delle sanzioni, in qualità di consumatori o investitori.


Da un punto di vista energetico, la reintroduzione delle sanzioni favorisce gli Stati Uniti per due motivi: i Paesi soliti importare petrolio iraniano si ritrovano costretti a cercare nuovi fornitori e gli USA, grazie al boom di produzione di idrocarburi non convenzionali, saranno ben lieti di colmare, almeno in parte, il vuoto lasciato dal concorrente mediorientale. In secondo luogo, una diminuzione dei volumi di greggio sul mercato globale porta, in misura più o meno evidente, ad un aumento del prezzo della materia prima: tale aumento sarebbe visto di buon occhio dai produttori americani, che operano in un contesto, quello del non-convenzionale, bisognoso di un prezzo più elevato per sostenere i costi necessari alla produzione[1].


L'Iran, come è facile immaginare, non ha che da perdere dall'applicazione delle nuove sanzioni. Al di là dell'impatto su un'economia già in difficoltà, le sanzioni, intaccando la disponibilità di capitali e l'accesso ai beni materiali stessi, rischiano di rallentare considerevolmente gli investimenti e la manutenzione delle infrastrutture legate alla produzione di petrolio, con un impatto temporale di lungo termine. Eliminate le sanzioni, rimettere in moto il settore richiederebbe somme ingenti, rischiando di danneggiarne la competitività irrimediabilmente.


Il triangolo degli attori del "grande gioco" iraniano si chiude con le "terze parti", i Paesi che finora hanno importato greggio iraniano o hanno investito nel settore. Essi hanno perso, o stanno perdendo, un partner importante, sia in qualità di fornitore di materia prima che di Paese ricco di opportunità di investimento. Esemplare il caso di Total, tra le prime compagnie a riprendere gli investimenti in Iran dopo la cancellazione delle sanzioni del 2016, ma anche tra i primi ad interrompere le proprie rinnovate attività nel Paese una volta annunciate le nuove sanzioni americane nel 2018. L'Unione Europea si è mobilitata per introdurre un meccanismo finanziario in grado di permettere alle compagnie europee di continuare a fare affari con l'Iran, ma il rischio di vedere stracciati i propri legami commerciali con gli USA spingeranno la maggior parte degli investitori europei, come Total, ad abbandonare ogni attività nel paese.


Allo stato attuale, è difficile valutare l'impatto concreto della nuova ondata di sanzioni sul mercato globale di greggio e sull'Iran stesso; il più grande motivo di incertezza è dato dai cosiddetti "waivers", le deroghe accordate dal governo americano ad otto, poi ridotti a sei, Paesi particolarmente dipendenti dal greggio iraniano. Tali deroghe saranno assicurate fino a Maggio 2019, ma non vi è alcuna certezza circa la loro estensione o rimozione. Tra i paesi beneficiari della deroga spicca la Cina, il maggiore Paese importatore di greggio iraniano e quello che ad oggi ha beneficiato, in misura pari all'India, del waiver più generoso. La Cina gioca un ruolo interessante nella partita del petrolio iraniano anche in qualità di bluffeur: come già accaduto nel corso delle precedenti sanzioni, il paese del Sol Levante sembra non farsi scrupolo di aggirare gli obblighi internazionali importando greggio iraniano illegalmente, per mezzo di navi petroliere di cui si perde accidentalmente il segnale più spesso che altrove. Non si tratta di volumi in grado di stravolgere il macro-scenario, ma che ci fanno capire fino a che punto la necessità primordiale di accesso all'energia possa spingere compagnie o addirittura Paesi all'imbroglio, al conflitto, al compromesso, allo scandalo.

Per concludere: dalla reintroduzione delle sanzioni economiche da parte degli USA sull'Iran, la produzione petrolifera di quest'ultimo è calata di oltre il 50% nel giro di soli sei mesi. L'impatto delle misure sanzionatorie sull'Iran e sul mercato globale del greggio è difficile da valutare, in quanto delle deroghe sono state accordate a sei Paesi che importano volumi di petrolio notevoli dal paese mediorientale e non è chiaro se saranno mantenute e in che misura. Se a Maggio 2018 il prezzo del greggio si è attestato ad una media di 73$/barile, a Dicembre, con un export iraniano diminuito di quasi 1,5 milioni di barili, il prezzo è sceso ad una media di 54$/barile, a testimonianza del fatto che altri fattori hanno contribuito in misura maggiore alla formazione del prezzo e che altri produttori sono potenzialmente in grado, e probabilmente anche felici, di sopperire alla diminuzione di volumi iraniani sul mercato. Come già citato, per esempio, gli Stati Uniti, ma anche l'Arabia Saudita e la Russia, dotati di una notevole "spare capacity".


Il peggiore scenario possibile, per l'Iran, sarebbe l'applicazione della linea dura da parte delle Casa Bianca, vale a dire la cessazione dei wavers e il conseguente crollo delle esportazioni di greggio a zero. Un tale scenario, con un ulteriore milione di barili al giorno resi indisponibili, avrebbe probabilmente un impatto concreto sui prezzi a livello mondiale. I produttori americani ne gioirebbero, ma non si potrebbe dire lo stesso per i ben più numerosi consumatori di petrolio, con il conseguente impatto sull'intera economia americana e mondiale.


Gli Stati Uniti hanno il coltello dalla parte del manico, ma basta un passo falso per far pendere l'ago della bilancia a proprio sfavore, incluso aumentare i costi che pesano sulle spalle dei propri cittadini così come accordare ingenti possibilità di guadagno ad un nemico, ora più che mai, quale la Russia, o all'Arabia Saudita, ormai vera e propria concorrente sul piano energetico.

Gli USA continueranno ad avere la meglio nella guerra dell'oro nero ?



 


[1] Si tratta del meccanismo opposto a quello che ha portato al crollo del prezzo del greggio da una media di quasi US$100/barile nel 2014 a poco sopra i US$40 nel 2016. Allora, ingenti volumi riversati sul mercato avevano prodotto un’eccesso di offerta, facendo diminuire drasticamente i prezzi. In molti hanno interpretato la dinamica come uno scacco messo in gioco dall’Arabia Saudita per spazzare via la nascente industria americana del non-convenzionale. Il piano Saudita ha sì mandato in bancarotta un numero notevole di Compagnie statunitensi, ma non é riuscito ad annientare del tutto il rivale che al contrario, ha sfruttato il momento di difficoltà per sviluppare nuove tecniche e business models che hanno permesso di tagliare i costi e rendere l’attività più flessibile e competitiva.

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