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Rohingya: il popolo meno voluto al mondo – Il marchio del Genocidio

Aggiornamento: 2 feb 2022

Nel novembre scorso avevamo guardato al Sud Est asiatico facendo un veloce accenno alla situazione che si profilava in Myanmar (ex Birmania) ed è urgente ora ritornarci e approfondire, perché la questione sta divenendo davvero preoccupante e i risvolti si stanno moltiplicando.

La questione in nucis: i Rohingya, un gruppo etnico apolide (giacché la possibilità di ottenere la cittadinanza birmana le è negata per legge dello Stato) di religione musulmana è perseguitata in fatto e in diritto dalla maggioranza buddhista, cui appartiene anche l’attuale presidente birmana, Aung San Su Ki, conosciuta in tutto il mondo come paladina dei diritti umani e colpevolmente silenziosa o (concedetemelo!) ipocrita sulla questione.

In Myanmar i Rohingya sono visti non solo come diversi in quanto musulmani, ma anche e soprattutto come intrusi – pur essendo in territorio birmano da almeno otto secoli - che provengono dal Bangladesh e che in Bangladesh devono tornare.


1. GENESI: IL MARCHIO DEL GENOCIDIO

Nonostante una presenza Rohingya sia attestata in quello che è l’attuale territorio birmano perlomeno dal XIII secolo, la radice del conflitto attuale va rinvenuta nel dominio coloniale britannico dal 1824 al 1948. Difatti, nel corso di quei decenni ci fu una significativa migrazione di lavoratori verso l’attuale Myanmar e che provenivano dagli attuali India e Bangladesh. E poiché l’attuale Myanmar era allora una provincial Indiana, tale migrazione fu considerata interna; esattamente come se adesso ci si spostasse dalla Calabria all’Umbria, per intenderci.

Finita la dominazione coloniale britannica, il governo birmano considerò quella migrazione come illegale e su tale illegalità basò il rifiuto di concedere la cittadinanza birmana alla maggior parte dei Rohingya, non includendoli tra le etnie (ben 135!) che invece avrebbero ottenuto la cittadinanza ai sensi dello Union Citizenship Act. Questo stesso atto giuridico tuttavia concedeva a quelle famiglie che vivevano in Myanmar da almeno due generazioni di richiedere la carta d’identità, opzione di cui molti Rohingya si avvalsero riuscendo anche ad avere una buona rappresentanza parlamentare. Nel 1962 le cose cambiarono: il colpo militare portò a un inasprimento della situazione. La nuova normativa infatti prevedeva tre livelli di cittadinanza, il più basilare dei quali (che sarebbe un equivalente della naturalizzazione) richiedeva che fosse data prova della permanenza della famiglia in Myanmar da prima del 1948 così come la buona conoscenza di una delle lingue nazionali. Nonostante molti Rohingya rispettassero di fatto tali requisiti, non avevano tuttavia la documentazione che lo dimostrasse o perché non era disponibile o perché era stata loro negata. Ciò comportò una drastica riduzione di diritti e opportunità in materia di istruzione, lavoro, movimento, matrimonio, libertà di culto e accesso ai servizi sanitari. I Rohingya non hanno diritto di voto e anche quando ottengono la naturalizzazione vi è per loro la limitazione per l’accesso ad alcune professioni: i Rohingya non possono diventare medici, giudici o avvocati né tantomeno funzionari dello Stato.

A questa ghettizzazione giuridica corrisponde anche una ghettizzazione geografica, giacché la quasi totalità dei Rohingya era concentrata in campi sovraffollati fuori dalla città di Sittwe, capoluogo dello Stato di Rakhine, senza potersi muovere liberamente nel resto del Myanmar.

Il Rakhine si affaccia sul Golfo del Bengala e confina con il Bangladesh ed è stata spesso territorio di repressione da parte delle forze governative: stupri, torture, incendi e assassini hanno spinto, sin dagli anni ’70, centinaia di migliaia di Rohingya a rifugiarsi in Bangladesh, Malesia, Thailandia e altri Paesi del Sud est asiatico.

Già nell’aprile 2013 ci fu una recrudescenza del fenomeno, ma dopo l’elezione di Aung San Su ki nel 2016 si sperava ci sarebbe stata una svolta; ciò non avvenne. Dopo l’uccisione di nove poliziotti di frontiera nell’ottobre 2016, il governo accusò i combattenti di un gruppo armato Rohingya e le truppe cominciarono a riversarsi nei villaggi del Rakhine che furono teatro di gravi e ripetute violazioni dei diritti umani, soprattutto stupri ed esecuzioni stragiudiziali, sempre negati dal governo. Un mese dopo, un funzionario ONU accusò il governo birmano di star portando avanti una vera e propria pulizia etnica a danno dei Rohingya che nel giro di pochi mesi lasciarono in 87.000 il Paese per rifugiarsi nel vicino Bangladesh.

Nel febbraio 2017, le Nazioni Unite pubblicarono un rapporto in base al quale le truppe governative avevano con molta probabilità commesso crimini contro l’umanità (stupri di gruppo, uccisioni – incluse quella di bambini e neonati, brutali percosse, sparizioni e altre gravi violazioni dei diritti umani) nella repressione avviata nell’ottobre 2016. Questo rapporto porterà all’istituzione di una Commissione d’inchiesta che esamineremo più avanti.

Nel frattempo, nel settembre 2016 Aung San Suu Kyi aveva affidato all’ex Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan il compito di individuare delle modalità con curare le divisioni di lungo corso esistenti nella regione. Mossa che qualcuno ha considerate solo un modo utilizzato dalla San Suu Kyi per pacificare l’opinione pubblica globale e provare a dimostrare che sta facendo il possibile per risolvere la questione.

Il percorso da seguire per raggiungere una soluzione di lungo periodo è piuttosto chiaro, seppur complesso e arduo, ed è stato scritto nero su bianco sul rapporto finale dell’Advisory Commission presieduta da Kofi Annan. Tale rapporto, cui il governo birmano ha dichiarato di volersi vincolare (anche su invito pressante del Segretario Generale ONU Guterres che temeva una “catastrofe umanitaria” se la violenza non avesse avuto fine, così come del Commissario per i Diritti umani Zeid bin Ra'ad al-Hussein che definiva la brutale operazione di sicurezza birmana contro i Rohingya nel Rakhine “un esempio da manuale di pulizia etnica”), è stato reso pubblico il 23 agosto 2017 e ha individuato specifiche aree di intervento: lo sviluppo socio-economico del Rakhine, la ridefinizione delle procedure per la concessione della cittadinanza, la concessione della libertà di movimento ai Rohingya, l’accesso di questi ultimi alla vita politica e alla conseguente rappresentanza, il miglioramento della sicurezza all’interno delle comunità e lo sviluppo di un dialogo intercomunitario a tutti i livelli dello Stato. A queste si aggiungono:

- il rafforzamento delle relazioni bilaterali con il Bangladesh fisiologicamente molto interessato dalla questione;

- la sistemazione delle persone attualmente sfollate all’interno del Myanmar [si è infatti detto che i Rohingya attualmente vivono concentrati in dei campi, di cui l’Advisory Commission suggerisce lo smantellamento dopo una ricollocazione dei Rohingya sul territorio nazionale; in attesa di ciò, si invita il governo a garantire condizioni di vita dignitosa all’interno dei campi, con particolare riguardo alle questioni sanitarie, educative e abitative);

- la raccomandazione al governo birmano di candidare il sito di Mrauk U (nel nord del Rakhine) a patrimonio dell’umanità UNESCO oltre che di individuare e proteggere i siti storici, religiosi e culturali di tutte le comunità che vivono nel Rakhine.



Difatti, la situazione richiede una risposta politica ancor più che meramente securitaria.

Ciononostante, dopo soli due giorni dalla pubblicazione del rapporto, vi è stato un nuovo e definitivo climax nel conflitto interno. Residenti e attivisti hanno descritto scene in cui l’esercito sparava indiscriminatamente su uomini, donne e bambini Rohingya completamente disarmati. Il governo ha parlato di 100 morti (10 poliziotti, un soldato e un funzionario dell’immigrazione oltre a 77 ribelli)dopo che uomini dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), armati di machete, esplosivi e armi di piccolo taglio, hanno fatto un’incursione contro le postazioni della polizia nella regione. Si tratta di un gruppo di insorgenza Rohingya, prima conosciuto come Harakah al-Yaqin, che nel tempo ha compiuto attacchi contro 30 postazioni di polizia, dopo aver lanciato il suo primo attacco nell’ottobre 2016. Esso ha la sua base “militare” nel nord dello Stato di Rakhine (probabilmente nelle città di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung) e ha la sua origine nella segregazione in cui da decenni vivono i Rohingya ulteriormente messa in evidenza dalle repressioni governative dell’autunno 2016.

Nel marzo 2017 l’ARSA ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava di essere obbligato a “difendere, salvare e proteggere la comunità Rohingya […] al meglio delle nostre possibilità poiché legittimati ai sensi del diritto internazionale a difendere noi stessi in linea con il principio di autodifesa”.

Inevitabilmente, tuttavia, le azioni violente dell’ARSA indeboliscono e danneggiano le istanze dei Rohingya (aumentando le divisioni sociali e accrescendo il sentimento anti-musulmano), ma al contempo la censura da parte della comunità internazionale li spinge a migliorare ulteriormente la propria capacità di combattimento. Il 25 agosto 2017 il governo birmano li ha ufficialmente dichiarati per legge “gruppo terrorista” da un lato a ragione, ma dall’altro creando ad hoc una lotta “al terrorismo internazionale” per giustificare la repressione interna (difatti non vi è alcuna evidenza a supporto di un qualche collegamento tra l’ARSA il jihad internazionale e lo stesso gruppo ne abbia preso le distanze, sempre nella dichiarazione di marzo 2017, sebbene secondo l’International Crisis Group avrebbe legami con i Rohingya che vivono in Arabia Saudita). Il 9 settembre i componenti dell’ARSA hanno dichiaro un mese di cessate-il-fuoco unilaterale nel Rakhine per consentire i gruppi di aiuto di affrontare la crisi umanitaria nell’area.

Da quando è iniziata l’ultima repressione governativa, sono stati distrutti ben 362 villaggi (di cui 55 totalmente rasi al suolo, al fine di eliminare - secondo HRW - le prove dei crimini commessi contro i Rohingya). Secondo Medicine senza frontiere (MSF), almeno 6700 Rohingya, di cui almeno 730 bambini minori di 5 anni, sono stati uccisi nel primo mese di violenze; mentre Amnesty International ha denunciato centinaia di stupri ai danni di ragazze e donne da parte dei militari birmani. Dal canto suo, il governo parla di 400 morti, affermando che le operazioni di pulizia contro i ribelli sarebbero terminate già il 5 settembre 2017, sebbene molti reportage da parte dei corrispondenti della BBC mostrerebbero evidenza del contrario.

Qualunque sia a ogni modo la responsabilità dell’ARSA nel suscitare la repressione governativa, quest’ultima non è giustificabile avendo preso le sembianze di ciò che lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite ha definito “le caratteristiche del genocidio”. Accuse rispedite al mittente dal governo birmano, prima dalla stessa Aung San Su Kyi che in un atteso messaggio televisivo del 19 settembre 2017 ha condannato tutte le violazioni dei diritti umani nel Rakhine, parlando però al contempo anche di un “enorme iceberg di disinformazione” sui fatti che si stavano verificando; poi dai vertici dell’esercito birmano che quando, nella visita di Papa Francesco del novembre 2017, questi – pur non usando esplicitamente la parola “Rohingya” – ha parlato della necessità di accettazione e rispetto per tutti i gruppi etnici all’interno del Paese, gli hanno risposto che in Myanmar non c’è alcuna discriminazione e che l’esercito andava plaudito per aver mantenuto “pace e stabilità”.

Significativo è che nelle ultime settimane due giornalisti della Reuters (Wa Lone, 32 anni, e Kyaw Soe Oo, 28) siano stati condannati a sette anni di detenzione per aver raccontato i massacri compiuti dal governo nel Rakhine, e nello specifico l’uccisione stragiudiziale di dieci Rohingya nel villaggio di Inn Din avvenuta nel settembre 2017. Agli appelli internazionali per la loro scarcerazione in nome della libertà di stampa ed espressione, la leader Aung San Suu Kyi ha affermato che i due giornalisti non sono stati condannati a causa del loro lavoro ma perché hanno violato la legge, e nello specifico l’Official Secret Act”. L’attuale Commissario per i Diritti umani, Michelle Bachelet, ha affermato che la detenzione dei due “manda un messaggio a tutti I giornalisti birmani, ossia che non possono operare liberamente ma devono piuttosto scegliere tra l’autocensura e il rischio di essere processati”.

2. ESODO E DILUVIO: SENZA PATRIA E SOMMERSI DALL’ACQUA

Sono circa un milione e 100.000 persone che, dopo anni di persecuzioni subite dai buddhisti birmani, persecuzione che ha raggiunto il climax nell’estate del 2017, si stanno gradualmente spostando verso il Bangladesh. Oltre 168.000 Rohingya hanno lasciato il Myanmar tra il 2012 e il maggio 2017 (dati ONU), e di questi l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) evidenzia che circa 87.000 si sono spostati in Bangladesh tra l’ottobre 2016 e il luglio 2017.

Tra il 2012 e il 2015 oltre 112.000 Rohingya hanno tentato il pericoloso viaggio verso la Malesia attraverso il Golfo del Bengala e il Mare delle Andamane.

Prima dell’inizio delle violenze dell’agosto 2017, c’erano circa 420.000 rifugiati Rohingya nel sud est asiatico e circa 120.000 Rohingya sfollati all’interno del Myanmar; successivamente, oltre 650.000 Rohingya si sono spostati in Bangladesh e più di 1000 sono stati uccisi in Myanmar (dati UNHCR). Il risultato di questi flussi è che ora in Myanmar resterebbero circa 300.000 Rohingya dei 2 milioni che vi risiedevano prima.

I Rohingya sono arrivati nell’area di Cox’s Bazaar (un distretto del Bangladesh), in fuga dall’esercito che, sostenuto dalla popolazione locale buddista, stava incendiano i villaggi e attaccando e uccidendo i civili.

Prima di agosto 2017, c’erano già circa 307.500 Rohingya rifugiati che vivevano nei campi, in insediamenti improvvisati e presso comunità ospitanti (dati UNHCR). Da agosto 2017 in poi ne sono arrivati altri 687.000, numero che aveva reso urgente il ricollocamento dei Rohingya prima che la stagione dei monsoni facesse stragi giacché i vari siti si trovano in zone a rischio di smottamenti e allagamenti.

Il Bangladesh vorrebbe costruire ulteriori rifugi, ma al contempo vorrebbe limitare la libertà di movimento dei Rohingya che con i nuovi arrivi sono andati a creare un sostrato di popolazione “in stato di bisogno” pari a 1,3 milioni di persone, inclusi i gruppi tribali considerati a loro volta tra gli «ultimi» del Bangladesh. L'acqua potabile e il cibo scarseggiano, la situazione igienica si deteriora ogni giorno di più. Migliaia di famiglie, compresi i bambini (che si stima sia il 60% dei Rohingya arrivati), stanno dormendo all'aperto perché non hanno altro posto dove andare. Prioritario è anche garantire parti non traumatici per salvaguardare le donne che, a nove mesi dalla fuga e dalle violenze sessuali da parte dei soldati e dei miliziani birmani che l’hanno accompagnata, hanno dato e stanno dando alla luce migliaia di bambini. In questa situazione, l’aiuto dei governi e delle organizzazioni internazionali resta pertanto necessario, pressoché indispensabile.

Le piogge monsoniche sono iniziate il 10 giugno e hanno già provocato «significativi danni strutturali» ai campi, con oltre 14.000 persone coinvolte nei primi quattro giorni. Acqua e fango stanno ricoprendo le colline su cui, nei mesi precedenti, le foreste hanno lasciato il posto alle tende. Gli smottamenti e gli allagamenti rischiano di trascinare con loro almeno 30.000 persone e i loro rifugi precari, assieme alle malattie che minacciano soprattutto anziani e bambini.


3. RITORNO O ESILIO: CI SARA' MAI UNA PATRIA PER I ROHINGYA?

Il Bangladesh considera la maggior parte di coloro che hanno attraversato i confini – cosa che spesso le autorità di Dakka hanno tentato di impedire - e che stanno vivendo fuori dei campi appositamente allestiti come “infiltrati illegalmente” nel Paese. Ciononostante, il Ministro degli Esteri bengalese ha definito la violenza contro i Rohingya in Myanmar “un genocidio”.

Nel novembre 2017, Bangladesh e Myanmar hanno siglato un accordo per il rientro – sotto forma di rimpatrio volontario - in territorio birmano di 650.000 rifugiati Rohingya nell’arco di due anni. Un accordo che riprende quello siglato in una situazione simile negli anni ’90. Il Myanmar ha istituito due centri ricettivi e un campo provvisorio vicino al confine, nello Stato di Rakhine, per ricevere i primi arrivi. L’ONU ha tuttavia precisato che le condizioni interne birmane al momento non contribuiscono a un rientro sicuro, dignitoso e sostenibile, e la responsabilità per realizzare tali condizioni grava sulle autorità birmane. Stesso può dirsi per il successivo accordo, in medesima salsa, del 18 gennaio 2018. Difatti, per i profughi passare da campi in cui hanno almeno una dignità riconosciuta, oltre che necessità vitali garantite dal sostegno locale e internazionale, a una terra per essi ostile, in centri di accoglienza simili a campi di concentramento che li isolerebbero dalla popolazione birmana, è qualcosa di totalmente insensato. A maggior ragione se ad oggi, come ha ribadito il 18 giugno scorso davanti al Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti umani anche l’ormai ex Alto commissario Onu Zeid Ra’ad Al Hussein, il Myanmar non ha mai consentito l’accesso ai funzionari ONU perché verificassero la situazione dei diritti umani nel Paese.

Al contempo, a fine gennaio 2018 il Bangladesh ha ripreso un vecchio piano del 2015 per il ricollocamento di decine di migliaia di rifugiati Rohingya verso una remota isola “a rischio alluvione” definita inabitabile dagli attivisti per i diritti umani. In base a tale piano, dunque, le autorità bengalesi trasferirebbero i “cittadini” birmani senza documenti sull’isola di Thengar Char (conosciuta anche come Char Piya), nel Golfo del Bengala, non curanti che essa sarebbe stata totalmente inghiottita dalle acque nella stagione dei monsoni.

Tuttavia, dopo mesi di ipotesi, spunta Bhasan Char, un isolotto alluvionale lungo 12 chilometri e largo 14 emerso appena dieci anni fa grazie ai detriti che si sono accumulati alla foce del fiume Meghna, dove il governo di Dacca è pronto a spostare 100 mila degli oltre 700 mila Rohingya che da più di un anno si sono rifugiati nell’estremo Sud del Paese.

I primi trasferimenti sull’isola, che si trova a un’ora di barca dalla terraferma, dovrebbero iniziare a giorni. La Marina bengalese, proprietaria dell’area, ha investito 280 milioni di dollari nel progetto nonostante il parere contrario delle agenzie ONU e della comunità internazionale. Tutta questa solerzia è probabilmente dovuta alle elezioni politiche in programma a fine anno con la relativa convinzione dell’attuale la premier Sheikh Hasina che il tema Rohingya, nonostante i mille problemi del Paese, avrà un peso importante.

L’inaugurazione del campo (completato all’80% e che dovrebbe essere ultimato entro un mese e mezzo), prevista per il 4 ottobre scorso, è stata rinviata all’ultimo.


4. IL GIUDIZIO UNIVERSALE

Come anticipato, il 24 marzo 2017 – subito dopo la pubblicazione del rapporto – il Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite attraverso la risoluzione A/HRC/RES/34/22 (proposta dall’Unione europea e supportata da altri Stati, tra cui gli USA) ha istituito una missione internazionale indipendente che investigasse sui presunti crimini, al fine di garantire la piena responsabilità per gli autori dei crimini e giustizia per le vittime. Tra gli Stati che hanno votato contro la risoluzione vi sono, oltre al Myanmar, anche Cina, India e Cuba. Il team investigativo, composto da Marzuki Darusman (Indonesia), Radhika Coomaraswamy (Sri Lanka) e Christopher Dominic Sidoti (Australia), ha rilasciato per tre dichiarazioni di aggiornamento sul proprio lavoro (settembre e dicembre 2017, marzo 2018) prima di consegnare il proprio rapporto finale sulla situazione dei diritti umani in Myanmar (anticipato il 27 agosto e pubblicato nella versione dettagliata il 18 settembre 2018). Il testo, di ben 444 pagine, afferma che il Tatmadaw (l’esercito birmano) ha commesso “i più gravi crimini previsti dal diritto internazionale”. Il rapporto racconta di donne legate agli alberi, per i capelli o per le mani, e poi violentate; di bambini piccoli che provavano a scappare dalle case in fiamme ma costretti a rientrare dentro e bruciare; ampio uso di torture con bastoni di bambù, sigarette e cera calda; mine piazzate sulle strade di fuga dai villaggi per uccidere le persone non appena iniziavano a fuggire alle incursioni dell’esercito.

Secondo il team della Missione internazionale d’inchiesta, il Tatmadaw ha sviluppato un “clima di comando tossico” in cui diffusi abusi dei diritti umani sono diventati la regola, e ha richiesto che tutti i leader militari birmani, incluso il comandante in capo Min Aung Hlaing, fossero processati per genocidio (infatti, nel nord del Rakhine, si sono realizzati stermini di massa e deportazioni in modalità “simili per natura, gravità e ambito a quelli richiesti dall’intento genocidiario”), crimini contro l’umanità e crimini di guerra (tra cui uccisioni, detenzioni, sparizioni forzate, torture, stupri, schiavitù sessuale e altre forme di violenza sessuale, persecuzione e riduzione in schiavitù). Giacché non hanno avuto accesso al territorio birmano, il rapporto si basa sull’intervista di 875 testimoni che hanno lasciato il Paese.


Ciononostante, al momento al Consiglio di sicurezza è impedito di comminare eventuali sanzioni dal veto esercitato dalla Cina, storicamente alleata del Myanmar e la quale chiede alla comunità internazionale di “supportare gli sforzi del Myanmar di salvaguardare la stabilità del suo sviluppo nazionale”

Questo medesimo veto impedisce al Consiglio di sicurezza di deferire la questione alla Corte Penale internazionale (Cpi) ai sensi dell’art. 13 lett. b) dello Statuto di Roma.

Pertanto, il 9 aprile 2018 il procuratore della Cpi, Fatou Bensouda, ha chiesto alla Corte di valutare la sussistenza della sua giurisdizione. Difatti, non essendo il Myanmar uno Stato Parte dello Statuto e non essendo possibile il deferimento da parte del Consiglio di sicurezza, certamente la Corte non può giudicare i fatti avvenuti su territorio birmano, ma giacché la deportazione dei Rohingya – avviata con la “pulizia etnica” messa in atto dal 25 agosto 2017 - si conclude su territorio bengalese (e il Bangladesh è Stato Parte), potrebbe essere possibile giudicare i leader militari birmani perlomeno per questo specifico fatto.

Il 6 settembre 2018 la Camera preliminare, dopo aver esaminato le osservazioni delle vittime, del governo bengalese e dopo aver preso atto di una dichiarazione pubblica del Myanmar di non collaborazione, ha affermato la giurisdizione della Corte. Ciò perché, esaminando nel merito la questione, la Corte ha fornito due specifiche importanti:

a. l’art. 7.1 lett. d) dello Statuto, che elenca tra i crimini contro l’umanità la “deportazione ed il trasferimento forzato di popolazioni”, deve essere interpretato nel senso di prevedere due distinte condotte criminose, che differiscono per luogo finale del trasferimento: la deportazione si ha quando la popolazione è trasferita nel territorio di un altro Stato, mentre il trasferimento forzato avviene entro i confini nazionali;

b. secondo l’art. 7.2 lett. d) il crimine di deportazione è a condotta aperta, essendo costituito non solo dall’espulsione ma anche da tutta una serie di atti coercitivi tra cui privazione dei diritti umani, omicidi, violenze sessuali, torture, sparizioni forzate, saccheggi.

Sulla base di questi presupposti e in applicazione dell’art. 12.2 lett. a) dello Statuto che autorizza la Cpi a esercitare la propria giurisdizione nello Stato Parte in cui si è verificata la condotta, la Corte conclude di avere giurisdizione affermando che sarebbe sufficiente che almeno uno degli elementi della fattispecie criminosa ex art. 5 sia stato posto in essere nello Stato che ha accettato la giurisdizione della Corte (in questo caso lo Stato in cui si conclude la condotta criminosa). Con tale decisione, i giudici hanno dato mandato al procuratore Bensouda di procedere a una preliminary examination sulla situazione, in modo da valutare se sia raggiunta la soglia richiesta dallo Statuto per formulare l’istanza di apertura delle investigazioni ufficiali, e dunque la vera e propria fase processuale.

A settembre 2018, il Canada ha revocato la cittadinanza onoraria alla (ormai ex) attivista per i diritti umani Aung San Suu Kyi e ha riconosciuto con legge del Parlamento il genocidio a danno dei Rohingya.




Per saperne di più, vi segnaliamo un reportage della CNN e la pagina Facebook “The Stateless Rohingya

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