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Parole, armi e anticapitalismo: qui il popolo comanda e il governo obbedisce

Aggiornamento: 18 mag 2022

Figura 1: Tipico cartello all'entrata dei territori zapatisti (Rebellyon.info).

1. Zapata: Tierra y Libertad


"La tierra es de quien la trabaja", "La terra è di chi la lavora". In tempi di espropriazione territoriale e sfruttamento dell'ambiente o della manodopera, questa frase appare più che rivoluzionaria e purtroppo antica. Infatti, se in precedenza era piuttosto conclamato il legame tra uomo e terra, ora essi tendono a trovarsi più che mai distanti e in condizione di reciproco svantaggio proprio a causa di tale allontanamento: la natura appare insofferente ai ritmi di vita dell’uomo contemporaneo, mentre quest’ultimo si presenta evoluto sotto molti punti di vista ma quasi del tutto impreparato in ciò che riguarda il rapporto con la Pachamama dei quechua.


La frase iniziale invece, che sembra richiamare una sorta di socialismo agrario, appartiene a Emiliano Zapata, uno dei comandanti della rivoluzione messicana contro la dittatura militare porfirista - rivoluzione che tra i suoi principali obiettivi aveva quello di restituire le terre ai contadini togliendole così a latifondisti e oligarchi. Dopo la caduta del regime, venne redatto il cosiddetto Plan de Ayala in cui erano elencate le principali idee di Zapata, riassunte poi nel celebre "Tierra y Libertad". L'opposizione di Zapata e del suo Esercito di Liberazione del Sud continuò anche nei confronti di leader successivi, quali Huerta e Carranza: dopo che il primo fu deposto, il secondo mise una taglia sulla testa di Zapata e lo fece assassinare (1919), portando l'esercito a scendere a patti col regime e, subito dopo, a sciogliersi.

Fig. 2: Parte del murales "Dalla Conquista al 1930" di Diego Rivera (Palazzo Nazionale di Città del Messico).

2. EZLN: genesi e primi passi


La storia dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) parte dalle montagne della Selva Lacandona, dove si nascose in clandestinità per circa una decina d'anni. L'EZLN, organizzazione militare fino al 2006, coniugava marxismo e socialismo libertario nell'ottica di una guerriglia; il suo obiettivo principale era creare un mondo nuovo, e alle basi di tale sogno c'erano "la lotta per il lavoro, la terra, l'alimentazione, la salute, l'educazione, l'indipendenza, la democrazia e la giustizia".


Se molti di questi valori possono sembrare scontati o utopici agli occhi di chi legge, vanno ricordati almeno due aspetti: in primo luogo, l'EZLN nasce in Chiapas, ovvero uno degli Stati più poveri del Messico in cui spesso mancano le condizioni di vita più essenziali; in secondo luogo, le premesse di una rivoluzione nel cosiddetto Sud globale non sono né devono per forza essere intrise della presunta ratio occidentale.


Il 1° gennaio 1994 fu il giorno in cui gli zapatisti, prevalentemente indigeni, presero il controllo di sette comuni del Chiapas: in uno di essi, il loro leader, il celebre Subcomandante Marcos, lesse proprio la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona e con essa dichiarò guerra al governo del Messico. Sempre quel giorno, infatti, era entrato in vigore il NAFTA (North America Free Trade Agreement) tra Messico, Stati Uniti e Canada con l'obiettivo di facilitare gli scambi commerciali tra questi Paesi, e tra i principi dell'EZLN c'era invece un rifiuto della globalizzazione. L'esercito tentò di rispondere a questa presa di potere sui comuni, nonostante la popolazione civile chiedesse un cessate il fuoco: dopo dodici giorni, il presidente in carica accettò di dialogare con l'esercito zapatista con la mediazione della diocesi di San Cristóbal.


Tale dialogo durò tre anni tra alti e bassi e giunse a una conclusione con gli accordi San Andrés che prevedevano la modifica della Costituzione col riconoscimento dei popoli indigeni e l'autonomia legislativa; gli accordi non furono rispettati, anzi venne intensificata la presenza militare nelle terre zapatiste.

Fig. 3: Donne zapatiste (DINAMOpress).

3. Estado paramilitar: il massacro di Acteal


Negli anni successivi, ci furono varie violazioni del cessate il fuoco: la più grave fu la cosiddetta Matanza de Acteal, durante la quale furono assassinati 45 indigeni tsotsil – membri dell'associazione pacifista Las Abejas – mentre pregavano nella chiesa del paese; secondo i testimoni, autori del crimine furono circa 90 paramilitari che si opponevano all'EZLN, ma il governo messicano condannò 20 indigeni che, dopo aver passato undici anni di prigione, vennero messi in libertà per irregolarità nel processo.

Fig. 4: Las mujeres de X’oyep, (Pedro Valtierra)

Negli anni successivi ci fu un continuo andirivieni di proposte di legge e cambiamenti della Costituzione in favore dei popoli indigeni, leggi e cambiamenti in realtà mai concretizzati che, assieme all’impunità di aggressioni e uccisioni, non fecero altro che inasprire la tensione tra zapatisti e governo messicano.


4. I primi anni duemila: dal locale al globale


Nel 2005, l'EZLN dichiarò uno stato di allarme rosso, a causa del quale le attività furono sospese e gli operatori delle ONG evacuati; contemporaneamente, i miliziani vennero chiamati a raggiungere le truppe sulle montagne. Se all'inizio si pensò fosse dovuto a un imminente scontro con gruppi paramilitari, poi si capì che si trattava di un'allerta dovuta all'organizzazione di un'assemblea che coinvolgeva tutti i popoli zapatisti e che puntava ad aprirsi a vari collettivi di sinistra: quest'assemblea divenne poi itinerante e girò il Messico per incontrare realtà locali, prevedendo anche incontri con gruppi esteri.

Fig. 5: La Marcha del Color de la Tierra a Città del Messico (2001)

Altri eventi rilevanti di quegli anni furono la marcia di circa 40mila zapatisti in cinque città del Chiapas (2012), l'apertura della prima scuola zapatista in cui veniva diffusa la loro visione della società (2013), la denuncia da parte dell'EZLN di un'aggressione contro degli indigeni del Chiapas e un'altra denuncia – dell'organizzazione Las Abejas, cioè quella i cui membri furono vittime del massacro di Acteal – riguardante un indigeno tzotzil assassinato (2015). A questo proposito, un altro comunicato di settembre 2021 riportò il sequestro di due autorità della giunta del buongoverno: vennero liberate dopo otto giorni ancora una volta grazie alla mediazione della diocesi di San Cristóbal: in quell'occasione, il Subcomandante Insurgente Galeano disse che il Chiapas era sull'orlo della guerra civile.


5. 2021: La Montaña in viaggio per la Vita


L'evento più recente e assolutamente inedito risale alla primavera dello scorso anno: infatti, il 26 aprile 2021 venne annunciata la partenza prossima della nave "La Montaña" verso "la geografia che chiamano Europa". Se tra gli obiettivi c'era quello di interfacciarsi con gruppi europei, alla base era presente anche una forte consapevolezza riguardante l'Occidente e i suoi modelli; così si scriveva appunto nella pagina Enlace Zapatista:

"Le cosiddette «comunità rurali» sono classificate come «poco sviluppate» o «arretrate» perché la circolazione del denaro, cioè delle merci, è inesistente o molto limitata. Non importa che, ad esempio, il loro tasso di femminicidi e violenze di genere sia inferiore rispetto a quello delle città. I successi dei governi si misurano dal numero di aree distrutte e ripopolate da produttori e consumatori di merci, grazie alla ricostruzione di quel territorio. Dove prima c’era un campo di grano, una sorgente, un bosco, ora ci sono alberghi, centri commerciali, fabbriche, centrali termoelettriche, … violenza di genere, persecuzione della differenza, narcotraffico, infanticidi, tratta di esseri umani, sfruttamento, razzismo, discriminazione. In breve: c-i-v-i-l-i-z-z-a-z-i-o-n-e."
Fig. 6: Zapatisti a bordo de "La Montaña", nave usata per attraversare l'Oceano Atlantico e giungere in Europa (El Pais).

Come scrissero poi il 14 dicembre dello stesso anno, una volta tornati in Chiapas, gli zapatisti si ripromisero di rivedere quanto appuntato e appreso durante gli incontri con persone e gruppi di altre latitudini, convinti che solo tramite tante piccole reti locali si potesse – e si possa ancora – raggiungere un cambiamento globale.


Ad ogni modo, se è rilevante e doveroso ripercorrere la storia di questo movimento distante e diverso che pur è arrivato a far parte perlomeno della cultura di massa, è opportuno approfondire le parole già riportate sopra, analizzare tre dei suoi pilastri e chiederci in che misura essi potrebbero venire interiorizzati anche nei nostri ritmi e stili di vita.


6. Primo pilastro: la comunicazione

Fig. 7: Subcomandante Marcos (Al Jazeera).

La comunicazione è sempre stata un tratto fondamentale dell'EZLN, poiché era ed è il loro modo di arrivare tanto alle istituzioni quanto al popolo. Il principale comunicatore è il Subcomandante Marcos – dal 2014 auto-rinominatosi Subcomandante Galeano poiché la sua immagine pubblica era diventata "una distrazione (...), un travestimento pubblicitario": grande sostenitore e promotore di idee socialiste ed anarchiche combinate con l'indigenismo, i suoi tratti distintivi sono una pipa, un fazzoletto rosso e il classico passamontagna usato dagli zapatisti. Quest'ultimo, ormai diventato un simbolo quasi turistico, sembra avere due ragioni di esistere: la prima è che ricorda i guerrieri maya che si dipingevano il viso di nero prima di andare a caccia o in guerra, la seconda è che agli zapatisti non interessa di essere guardati in viso quanto piuttosto di essere ascoltati; loro, i senza volto che nessuno, per cinquecento anni, si prese la briga di guardare o sostenere. Come si legge in Enlace Zapatista, "il passamontagna dimostra che il governo non guardava gli indigeni quando si mostravano, ora che si nascondono (il viso) invece si accorgono di loro."


È proprio in questa pagina che vengono pubblicati scritti di vario genere nati spesso e volentieri dalla penna di Marcos: poetica, diretta ed ironica, ha meravigliato e conquistato il mondo tramite storie indigene, figure emblematiche e lessico ed immagini condivise.


7. Secondo pilastro: princìpi e modus vivendi

Fig. 8: Locandina scolastica con un caracol e scuola zapatista (desinformemonos.org)

Nei primi anni duemila, vari comunicati del Subcomandante furono estremamente utili poiché illustrarono il modus operandi degli zapatisti, che per l'appunto si organizzavano in comuni di autogestione dove il cibo veniva prodotto in maniera comunitaria e servizi sanitari ed educativi erano gratuiti o supportati da ONG: soprattutto, questi comuni erano assolutamente indipendenti da un governo già di per sé indifferente ai bisogni delle realtà periferiche e indigene. Nello specifico, gli zapatisti sono soliti organizzarsi nei cosiddetti caracoles, ovvero zone autogestite in cui si riuniscono le popolazioni e il cui lavoro viene monitorato dalle giunte di buon governo che, a rotazione, cercano di promuovere la trasparenza ed evitare casi di corruzione.


Se alcuni hanno apprezzato la nascita di queste realtà autonome in cui il popolo si fa garante del popolo stesso, altri hanno reputato che uno Stato dentro a un altro Stato potesse essere una fonte di rischio: il primo punto, però, è che questo Stato nasce per la mancanza dello Stato d'origine, che abbandona le comunità o, se le considera, le sfrutta assieme alle loro risorse naturali; il secondo punto è che questo Stato non ha nulla a che vedere con quelli esistenti nella maggior parte del pianeta. Infatti, lo zapatismo si presenta come un movimento di sinistra, civile, pacifico e, soprattutto, anticapitalista: vi è alla radice una forte opposizione nei confronti del neoliberismo e, nello specifico, delle sue derive a livello ambientale, economico e umano. Come veniva anticipato sopra, c'è una grande differenza nel modo di vivere, poiché il loro si basa, tra le altre cose, sulla sacralità della natura, sul diritto a una vita degna, sull'autodeterminazione dei popoli; tutti princìpi che a parole sono propri anche delle élite occidentali, ma che nei fatti vengono spesso calpestati in nome di una libertà che nelle sue sfumature spesso ha un prezzo caro, mai pagato dai pochi ricchi.


Ad ogni modo, nelle comunità zapatiste ci sono 7 princìpi su cui si fonda la convivenza pacifica e autonoma di queste popolazioni:

  1. Obbedire e non comandare;

  2. Rappresentare e non sostituire;

  3. Scendere e non salire;

  4. Servire e non servirsi;

  5. Convincere e non vincere;

  6. Costruire e non distruggere;

  7. Proporre e non imporre.

Princìpi semplici, essenziali, teorici garanti di giustizia, equità, benessere e rispetto: eppure, sembra che noi, a un oceano di distanza, siamo incapaci di farli nostri e metterli in pratica.


8. Terzo pilastro: la lotta (anche armata)


“Siamo il prodotto di 500 anni di sfruttamento”. Così inizia la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona. Se escludiamo la prima insurrezione del 1994, con la conseguente presa di potere su alcuni comuni del Chiapas, all'EZLN non viene ricondotta alcuna azione violenta. Anche le marce – da quella del 2001 arrivata fino a Città del Messico a quella più recente contro la guerra svoltasi il 13 marzo 2022 – sono sempre state pacifiche e volte alla creazione di un dialogo con la società civile, pur rifiutando i canali politici proposti dal Messico quali alleanze o formazioni di partiti.


Nonostante gli zapatisti siano prevalentemente apprezzati in virtù dei loro principi cardine, la matrice militare dell'organizzazione fa storcere il naso ad alcuni. Tuttavia, prima di entrare nel nucleo della questione "lotta armata", si riporta qui di seguito quanto disse il subcomandante Marcos il 18 gennaio 1994, poco dopo l'insurrezione:

"Di cosa dobbiamo chiedere scusa? Per cosa ci perdoneranno? Per non morire di fame? Per non tacere nella nostra miseria? Per non aver accettato umilmente l'enorme carico storico di disprezzo e abbandono? Per aver ricorso alle armi quando abbiamo trovato tutte le porte chiuse? (...) Per aver portato fucili alla battaglia, anziché arco e freccia? Per aver imparato a lottare prima di farlo? Per essere tutti messicani? Per essere soprattutto indigeni?" (...) Per non arrenderci, venderci, tradire noi stessi?"
Fig. 9: Membro della guerriglia in Chocó (Colombia), fotografia di Andrea Aldan. (universocentro.com)

Anche l'EZLN pubblicò qualcosa sul tema un mese dopo:

"...noi non corriamo alle armi per il gusto di uccidere e morire... Per i nostri figli e figlie non ci sono scuole né medicine, non ci sono vestiti né alimenti, non c'è un tetto degno sotto cui conservare la nostra povertà. Per i nostri bambini ci sono solamente lavoro, ignoranza e morte. La terra che abbiamo non serve a niente. I nostri figli devono cominciare a lavorare già quando sono molto piccoli per poter avere qualche alimento, vestito o farmaco... mangiano le stesse cose nostre: mais, fagioli e peperoncino. Non possono andare a scuola e imparare la lingua perché il lavoro uccide durante il giorno mentre la malattia durante la notte. Così vivono e muoiono i nostri bambini e bambine da 501 anni. Noi, i loro padri, madri, fratelli e sorelle, non vogliamo più essere colpevoli di non far nulla per i nostri figli. Abbiamo cercato cammini di pace per avere giustizia e abbiamo trovato morte; abbiamo trovato sempre dolore e dispiacere. Non ce l'abbiamo fatta più... Erano troppo grandi il dolore e il dispiacere. E quindi abbiamo dovuto arrivare al cammino della guerra, perché quello che chiedemmo con la voce non fu ascoltato."

Spesso e volentieri, in Occidente si critica a priori il fare ricorso alla violenza, si criticano le proteste troppo accese, si critica la lotta armata. Cresciamo educati alla pace, e non ci sarebbe nulla di male se non fosse che spesso e volentieri, con questa abitudine alla calma piatta, dimentichiamo che c'è chi tale calma non se l'è potuta permettere: le ragioni spaziano dalla mancanza delle condizioni più basilari di sopravvivenza all'esproprio dei propri territori, dalla violenza che fin dall'infanzia permea le vite di alcune persone ai civili uccisi quasi quotidianamente dallo Stato o dai paramilitari - nel 2021 in Colombia sono stati uccisi 154 attivisti, solo fino a questo mese del 2022 sono 50.


Né il Messico né il movimento zapatista sono gli unici esempi: oltre al Chiapas messicano, infatti, c'è il Chocó colombiano, in cui, come in un triste specchio riflesso, lo Stato è assente e la gente vive nella miseria. Anche là esiste un ELN, un Esercito di Liberazione Nazionale il cui capo ricorda – in un'intervista con la giornalista Andrea Aldana – che "la guerra diventa un progetto di vita là dove non c'è lo Stato." Possiamo dunque biasimare o colpevolizzare chi alla violenza risponde con la violenza? Perché la violenza dello Stato, neppure tanto subdola in America Latina - crea meno scandalo rispetto a quella popolare? Forse, come scriveva Bertolt Brecht, “Tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono”.


9. Conclusioni


Indubbiamente restano delle questioni aperte, e non c’è da stupirsene troppo: Centro e Sud America sono luoghi che ci possono sembrare esotici e affascinanti, ma sono connotati anche da forti contraddizioni, drammi e vitalità. Se ci limiteremo a guardare quel sub-continente con i nostri occhi occidentali, sarà difficile - se non impossibile - cercare di comprenderne le ragioni e le lotte: se ci opporremo aprioristicamente alla violenza, non potremo capire per esempio la resistenza indigena; se continueremo a essere convinti della nostra superiorità tecnologica, ci sembreranno demodé, banali e disprezzabili i discorsi che parlano di legame con la natura e autosufficienza; se non ci renderemo conto del prezzo del capitalismo o del neoliberismo, continueremo a vivere nella mancata consapevolezza dei rischi e nell’indifferenza verso chi quei rischi li sta già correndo, scontando una pena che non gli apparterrebbe di per sé.

Fig 10: The Zapatista Caracoles |Chiapas Support Committee (chiapas-support.org)

Ad ogni modo, vogliamo concludere con questo quadro, con queste donne – madri, lavoratrici, combattenti –, con quel "Un altro mondo è possibile"; e vogliamo utilizzare le parole del Subcomandante Marcos o chi per lui le pubblicò in Enlace Zapatista:

"Lo zapatismo è la grande risposta, un’altra, ai problemi del mondo?
No. Lo zapatismo è tante domande. E la più piccola può essere la più inquietante: tu, che fai?
Di fronte alla catastrofe capitalista, lo zapatismo propone un vecchio-nuovo sistema sociale idilliaco e con esso ripete le imposizioni di egemonie ed omogeneità ora «buone»?
No. Il nostro pensiero è piccolo come noi: sono gli sforzi di ciascuno, nella sua geografia, secondo il suo calendario e i suoi modi, che consentiranno, forse, di liquidare il criminale e, contemporaneamente, rifare tutto. E tutto vuol dire tutto.”

(scarica l'analisi)

Parole, armi e anticapitalismo_qui il popolo comanda e il governo obbedisce_Maria Casolin
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