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Oltre il genere: superare gli stereotipi per comprendere la radicalizzazione femminile nell'ISIL

Aggiornamento: 14 nov 2020

Zahra Halane, un'adolescente inglese di Chorlton, Manchester, fuggita in Siria nel 2014 per diventare una "sposa jihadista"

Il 27 febbraio 2019, la direzione esecutiva del Comitato Antiterrorismo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CTED) ha lanciato il suo terzo Trends Report intitolato The Gender Dimensions of the Response to Returning Foreign Terrorist Fighters.[1] Dall’analisi in esso presente emerge che, sebbene la partecipazione femminile a gruppi terroristici non è cosa nuova, esistono ancora notevoli lacune negli studi e nelle politiche per comprendere e affrontare le dimensioni di genere del terrorismo e dell’estremismo radicale.


La partecipazione femminile alle attività dell’ISIL

In passato, legioni di donne in El Salvador, Eritrea, Nepal, Perù, Sri Lanka si sono volontariamente unite a movimenti violenti e gruppi armati, a volte anche ricoprendo cariche di alto livello. In questi esempi, la partecipazione femminile ha spesso trovato le stesse motivazioni di quella maschile. Vivendo in società estremamente conservatrici, queste donne hanno dovuto confrontarsi con minacce alla propria appartenenza etnica, religiosa o identità politica. Tali minacce, piuttosto che qualsiasi questione di genere, potrebbero averle spinte a imbracciare le armi.[2]

Nell’ambito degli studi sul terrorismo la partecipazione femminile alle attività dell’ISIL è un argomento di forte interesse, soprattutto per quanto riguarda le modalità di reclutamento e il livello di mobilitazione ottenuto. Questo grazie alla costante attività di propaganda che ha permesso all’ISIL di raggiungere un’audience diversificata e globale, cosa che nessun’altra organizzazione terroristica è stata in grado di ottenere nella storia.

Nonostante l’attenzione suscitata da questo tema, ancora risulta difficile stabilire con esattezza il numero di donne che hanno viaggiato verso le zone di conflitto, i loro paesi di origine e altri dettagli demografici. In un recente rapporto[3] si stima che tra coloro che hanno viaggiato verso le zone di conflitto della Siria e dell’Iraq almeno 4.761 (il 13% circa) siano donne. Da questa analisi sono emerse anche significative differenze geografiche. Il paese che ha contribuito alla più alta proporzione di donne arruolate sarebbe l’Asia dell’Est, seguita dall’Est Europa, Nord Europa, Americhe, Australia e Nuova Zelanda; Asia Centrale, Sud Est Asiatico, Asia del Sud, Medio Oriente, Nord Africa e Africa Sub Sahariana. Tali differenze numeriche potrebbero essere la conseguenza di specifici fattori contestuali ma anche semplicemente il risultato di informazioni incomplete, poiché molti Stati non conducono disaggregazioni di genere dei dati raccolti in materia di terrorismo.[4]

I numeri a disposizione hanno anche mostrato che non esiste un unico profilo di donne che si sono arruolate in Siria e Iraq. Notevoli differenze sono apparse per quanto riguarda l’età (in contraddizione con lo stereotipo per cui solo giovani donne siano state attratte nella sfera dell’ISIL); lo stato matrimoniale e il livello di educazione (dimostrando che non esiste un link diretto tra terrorismo e basso livello di educazione).

In aggiunta alla provenienza geografica o alle differenze demografiche, anche le motivazioni a intraprendere il viaggio sono risultate estremamente variegate e generalmente distinguibili in drivers, push e pull factors. Tra i push factors più comuni rientrano il senso di discriminazione, persecuzione o di non appartenenza alla propria società, ricerca di indipendenza e risentimenti per le questioni di politica estera. I pull factor, invece, spaziano da motivazioni ideologiche, tentativi dell’ISIL di rappresentare l’affermazione femminile come risultato della partecipazione alle proprie attività, il compimento dell’obbligo all’hijra e la volontà di vivere nel rispetto di una più stringente legge islamica, supportare il progetto statale dell’ISIL, la ricerca di avventure, di un marito o di viaggiare e raggiungere il proprio uomo precedentemente arruolatosi, viaggiare con la propria famiglia (volendo o no) e anche cercare cure mediche gratuite o istruzione.[5]

In precedenti tentativi di descrivere questo fenomeno, le donne arruolatesi nell’ISIL sono state descritte come semplici ‘jihadi brides’, che hanno viaggiato verso le zone di conflitto per amore o avventura, ponendo anche una forte enfasi su possibili manipolazioni o coercizioni subite dalle stesse, in linea con una tendenza comune di attribuire ai soli uomini motivazioni razionali per le proprie azioni e riservare il campo dell’irrazionale alle donne.[6] In studi recenti, invece, le donne sono risultate essere ideologicamente motivate tanto quanto gli uomini.[7] L’aspetto della volontà sta suscitando crescenti attenzioni, dimostrando che la precedente interpretazione delle motivazioni femminili era empiricamente non corretta e politicamente pericolosa. Molti autori hanno infatti dimostrato che non solo negava la componente volontaria dell’azione femminile ma conduceva anche a notevoli lacune nella risposta contro il terrorismo.[8]


Conclusione

Una maggiore comprensione della dimensione di genere presente nei fenomeni di radicalizzazione, nonché dei differenti ruoli svolti da uomini e donne nell’ISIL, ha conseguenze importanti per la definizione di contromisure e strategie preventive nonché per la determinazione di misure riabilitative e reintegrative. Nella sua “campagna di arruolamento”, l’ISIL ha dimostrato di saper far propria questa dialettica di genere. I suoi messaggi verso le donne, spesso trasmessi da reclutatrici, sono risultati molto più complessi del semplice cliché di unirsi al califfato per pura devozione. Varie analisi hanno dimostrato che nelle società occidentali questi messaggi sono scaturiti frequentemente in una narrativa di condanna per la mancanza di rispetto nei confronti delle donne musulmane. Al contrario, nelle campagne per reclutare gli uomini i toni utilizzati erano volti a rinforzare l’idea della mascolinità attraverso un’apologia della violenza contro le donne e della prevalenza dei diritti degli uomini rispetto a quelli delle donne.[9]

Va poi considerato che il reclutamento femminile è probabilmente avvenuto online.[10] La mancanza di accesso agli spazi pubblici da parte delle donne avrebbe reso la loro radicalizzazione offline molto più complicata rispetto a quanto avvenuto per gli uomini. Inoltre, dai dati disponibili è emerso che molto spesso gli uomini avrebbero svolto ruoli di supporto senza un diretto coinvolgimento negli scontri armati. Al contrario, le donne avrebbero svolto ruoli da perpetratrici, reclutatrici, propagandiste, ideologhe e sostenitrici. In varie occasioni, donne che in origine erano vittime sono diventate perpetratrici sia per migliorare la propria condizione sia come risultato dell’indottrinamento a idee radicali.[11] Un tale dettaglio risulta fondamentale per comprendere il fatto che le donne dell’ISIL hanno partecipato e partecipano alla violenza estremista nei modi più variegati e anche se non combattono possono sempre giocare un ruolo fondamentale nel diffondere idee radicali e spingere altri ad imbracciare le armi.

[2] The Women of ISIS, Understanding and Combating Female Extremism https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2014-08-21/women-isis

[3] Joana Cook and Gina Vale, ‘From Daesh to ‘Diaspora’: Tracing the Women and Minors of Islamic State,’ International Centre for the Study of Radicalisation, 2018.

[5] Nelly Lahoud, “Empowerment or Subjugation: An analysis of ISIL’s gendered messaging” UN Women, June 2018, 

http://www2.unwomen.org/-/media/field%20office%20arab%20states/attachments/publications/lahoud-fin-web-rev.pdf?la=en&vs=5602 ; European Parliament, “Radicalisations and violent extremism – focus on women: How women become radicalised, and how to empower them to prevent radicalisation”, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, December, 2017, 46. 

http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2017/596838/IPOL_STU(2017)596838_EN.pdf ; Hoyle, Becoming Mulan?; Erin Marie Saltman, and Melanie Smith, Till Martyrdom Do Us Part (London: Institute for Strategic Dialogue, 2015), https://www.isdglobal.org/wpcontent/uploads/2016/02/Till_Martyrdom_Do_Us_Part_Gender_and_the_ISIS_

Phenomenon.pdf; Pearson, “Women, Gender and Daesh Radicalisation”; Erin Marie Saltman, and Ross Frennet, “Female Radicalization to ISIS and the Role of Women in CVE” in A Man’s World? Exploring the Roles of Women in Countering Terrorism and Violent Extremism, ed. Naureen Chowdhury Fink, Sara Zeiger, and Rafia Bhulai (Abu Dhabi: Hedayah, 2017), 142–64; Nick Paton Walsh et al., “ISIS Brides Flee Caliphate as Noose Tightens on Terror Group”, CNN, 17 July 2017,

[6] Caron Gentry and Laura Sjoberg, Mothers, Monsters, Whores: Women’s Violence in Global Politics, Zed Books, 2007; Mia Bloom, Bombshell, University of Pennsylvania Press, 2011.

[7] Anita Peresin, and Alberto Cervone, “The Western Muhajirat of ISIS”, Studies in Conflict & Terrorism 38, no. 7 (2015): 500; Mia Bloom, and Charlie Winter, “The Women of ISIL”, Politico, 12 July, 2015, https://www.politico.eu/article/the-women-of-isil-female-suicide-bomber-terrorism/

[8] Anne Jacobs, ‘The Evolution Of Women In The Islamic State,’ Washington Institute for Near East Policy, 26 September 2017.

[9] Nelly Lahoud, ‘Empowerment or Subjugations: An Analysis of ISIL’s Gender Messaging,’ UN Women, June 2018.

[10] Pearson and Winterbotham, ‘Women, Gender and Daesh Radicalisation,’ p. 66-67.

[11] Agathe Christien and Rebecca Turkington, ‘Women, Deradicalization, and Rehabilitation: Lessons from an Expert Workshop,’ Georgetown Institute for Women, Peace and Security, April 2018, p. 3.

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