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Migrazioni e clima, una correlazione inevitabile di dimensioni globali

Aggiornamento: 25 nov 2020

Fonte: The Guardian

Abstract


During the last six thousand years, mankind has lived in areas of the Earth characterized by an average temperature range between 11ºC and 15ºC, under favourable conditions for agriculture, breeding and survival. According to a recent study carried out by the Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS), by 2099 the world will be on average between 1.8ºC and 4ºC warmer than it is now, with significant changes in climate phenomena and therefore in geography and ecosystems.


The already-underway environmental alterations are having socio-political and economic repercussions, especially in the most vulnerable contexts such as those characterising a large part of the African continent, in particular the Sahel. By analysing the geographical distribution of the world's population the consequences of climate change are evident: the correlation between climate and human migration is inevitable, as presented here by Lake Chad Basin area case study.


1. Introduzione


Negli ultimi seimila anni il genere umano ha vissuto in zone della Terra caratterizzate da un intervallo di temperatura media compreso tra 11ºC e 15ºC, in condizioni dunque favorevoli per l’agricoltura, l’allevamento e la sopravvivenza. Secondo un recente studio realizzato dal Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS)[1], una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale, si prevede che entro il 2099 il mondo sarà in media tra 1,8ºC e 4ºC più caldo di quanto lo sia ora, con il rischio che le porzioni di terra in costante siccità, che ora ricoprono meno dell’1% del totale della superficie terrestre, possano passare dal 2% al 10% entro il 2050 fino a coprire quasi un quinto della superficie terrestre nel 2070. Inoltre, le frequenze e le intensità delle piogge sono destinate a cambiare: alcune zone del pianeta saranno maggiormente interessate da precipitazioni (è il caso delle zone monsoniche dell’Asia meridionale dove si prevede un aumento delle precipitazioni fino al 20%), mentre altre conosceranno una diminuzione delle precipitazioni a bassa e media intensità, con un drastico aumento di situazioni di siccità estrema (è il caso del continente africano che avrà fino al 10% in meno di precipitazioni annue con conseguenze evidenti sui processi di desertificazione e danni particolarmente gravi per l'agricoltura, soprattutto nella regione del Sahel).


Lo scioglimento dei ghiacciai sta innalzando il livello medio globale del mare, che dovrebbe raggiungere un livello compreso tra 8 cm e 13 cm entro il 2030, tra 17 e 29 cm entro il 2050 e tra 35 e 82 cm entro il 2100. Ciò equivale a dire che aumenteranno notevolmente i rischi di inondazioni per coloro che vivono vicino ai delta dei fiumi e in generale nelle zone costiere, con possibili sparizioni delle isole di piccole dimensioni. Utilizzando una proiezione di sensibilità climatica a medio raggio, alcuni studiosi hanno stimato che il numero di persone che subirà inondazioni raggiungerà cifre comprese tra i 10 e i 25 milioni all'anno entro il 2050 e tra i 40 e i 140 milioni all'anno entro il 2100.[2]

Fonte: Limes

2. Il clima come causa di migrazione forzata


Fra le possibili conseguenze del degrado ambientale, si è iniziato a parlare da diversi anni di un cambiamento nella distribuzione geografica della popolazione. A questo proposito, è importante parlare della cosiddetta “migrazione climatica”, fenomeno che riguarda coloro che sono costretti a lasciare forzatamente la propria casa e/o la propria terra di origine per circostanze ambientali.


Già nel 1990, il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC)[3] aveva anticipato che il maggiore impatto del cambiamento climatico si sarebbe avuto sulle migrazioni umane, con milioni di persone sfollate a causa di eventi climatici improvvisi e distruttivi, per esempio terremoti, alluvioni, tsunami, o che sceglievano di spostarsi per le condizioni di vita rese insostenibili da stress ambientali a manifestazione lenta come siccità e desertificazioni.


Da anni vengono prodotti studi sulla correlazione tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate e che delineano uno scenario preoccupante che potrebbe condurre a una migrazione di massa legata al clima nei prossimi cinquant’anni. Tuttavia, prevedere quanti potrebbero essere i migranti climatici è molto complicato, da un lato per le difficoltà a districarsi tra le ragioni che spingono a migrare, e dall’altro per la mancanza di dati ufficiali sui movimenti interni ai singoli Stati dal momento che gli spostamenti legati al clima avvengono in prevalenza da un’area all’altra (in particolare da una zona rurale a una urbana) dello stesso Stato.[4]


Una ricerca pubblicata da Oxfam nel novembre 2017 riporta che le persone nei Paesi a basso e medio-basso reddito hanno circa cinque volte più probabilità di essere sfollate a causa di improvvisi disastri meteorologici rispetto alle persone nei Paesi a alto reddito.[5]

Diversi studi affermano che entro il 2050 i migranti climatici potrebbero essere almeno 200 milioni. Si tratta di un numero esorbitante, che rapportato in proiezione al totale della popolazione mondiale lascia presagire che entro il 2050 una persona su 45 nel mondo sarà sfollata a causa del cambiamento climatico.[6] In un rapporto pubblicato nel 2018, la Banca Mondiale ha analizzato gli effetti del cambiamento climatico in atto in Africa subsahariana, Asia meridionale e America Latina, concludendo che i cambiamenti legati al clima costringeranno circa 143 milioni di persone a migrare all’interno dello stesso Paese, regione o continente entro il 2050: 86 milioni di persone in Africa, 40 milioni in Asia del Sud, 17 milioni in America Latina. Si tratterà presumibilmente di spostamenti interni alla stesso Paese, regione o continente dalle aree più povere e vulnerabili dal punto di vista climatico, con importanti implicazioni per l’adeguatezza delle infrastrutture e dei sistemi di assistenza sociale.[7]

3. Il dibattito internazionale: rifugiati o migranti climatici/ambientali?


Intorno alla metà degli anni ‘90 si è iniziato a parlare del clima come fattore determinante nel fenomeno delle migrazioni. Per la prima volta, viene introdotto il termine "rifugiati ambientali" per riferirsi a persone costrette a spostarsi per ragioni legate all’ambiente.[8]

Da quel momento si è aperto un dibattito, ancora oggi profondamente attuale, sulla definizione da utilizzare per riferirsi alle persone in movimento a causa del cambiamento climatico. È giusto parlare di "rifugiati climatici" o sarebbe meglio utilizzare il termine "migranti climatici"?


La controversia non è solo di natura semantica, ma si basa su una serie di implicazioni reali derivanti dagli obblighi della comunità internazionale ai sensi del diritto internazionale e, più nello specifico, della normativa internazionale sulla protezione dei rifugiati.

La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (1951) definisce il termine “rifugiato” e specifica tanto i diritti dei migranti forzati quanto gli obblighi legali degli Stati di proteggerli. L’articolo 1 della stessa stabilisce che lo status di rifugiato è legato al “fondato timore di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica”. Ai sensi della Convenzione, le persone che lasciano il proprio Paese per motivi legati ai fattori di stress climatico non possono quindi essere considerate rifugiati perché l’ambiente o il clima non sono riconosciuti come agenti persecutori.


Sembra dunque più corretto utilizzare il termine “migranti ambientali/climatici”, che l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) definisce come “persone o gruppi di persone che, per ragioni impellenti di cambiamenti improvvisi o progressivi dell'ambiente che influiscono negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e si spostano all'interno del loro Paese o all'estero"[9].


Al di là della definizione utilizzata è importante assicurare che le grandi organizzazioni internazionali e regionali come le Nazioni Unite e l’Unione europea siano in grado di fornire assistenza a queste persone e che si impegnino a promuovere politiche e iniziative in grado di trovare una risposta tempestiva e adeguata alle conseguenze umane del cambiamento climatico.


4. Uno sguardo su Africa Sub-sahariana e Sahel


Secondo gli ultimi bilanci (2019) dell’Internal Displacement Monitoring Centre[10] il numero di migranti africani in fuga da contesti di conflitto è di circa 4.6 milioni, quello in fuga da disastri è di 3.4. Insieme vanno a comporre circa il 24% degli spostamenti mondiali. Tra i push factors principali, i cambiamenti climatici con tutto ciò che comportano a diversi livelli e nei diversi aspetti socio-politici e economici. Gli spostamenti di massa in Africa subsahariana non rappresentano solo una crisi umanitaria in crescita, ma anche un ostacolo sempre più importante allo sviluppo regionale[11]. L’Africa subsahariana è particolarmente sensibile alle variazioni ambientali: seppur una parte sostanziale della popolazione sia urbanizzata, molte sono le comunità nomadi e/o semi nomadi che rimangono dipendenti dalle risorse naturali in zone remote e di difficile accesso. Gran parte dei Paesi del continente, inoltre, è caratterizzata da infrastrutture inefficienti; da istituzioni deboli e poco credibili, spesso coinvolte in interessi faziosi. L’alto tasso di povertà[12] influisce negativamente sulla resilienza agli shock climatici delle comunità locali, spesso bersaglio di gruppi militanti armati, come quelli islamici ideologici, in un meccanismo che si autoalimenta.


Parallelamente, con l’acuirsi dell’effetto serra, l’innalzamento delle temperature, il verificarsi di eventi catastrofici sia in termini di maggiore frequenza che di maggiore intensità, il cambiamento climatico ha ripercussioni significative su stabilità e sicurezza, soprattutto nei contesti già a rischio a causa delle pressioni demografiche legate alle migrazioni e alla scarsità delle risorse.


Nello specifico, nel Sahel povertà, disuguaglianza ed emarginazione socio-politica, clientelismo, discriminazioni etnico-religiose, dipendenza dall'agricoltura, degrado ambientale[13], crescita demografica costituiscono una combinazione che si può prevedere si tradurrà in una crescente migrazione forzata, soprattutto interna[14]. I cambiamenti climatici, in gran parte dovuti all’attività dell’uomo sulla Terra, vengono annoverati tra i primi push factors in particolare dalla suddetta area, con diverse implicazioni regionali.[15]

5. Il Bacino del Lago Ciad: un caso di studio


Il bacino del lago Ciad, un sistema idrologico semi-arido nell'Africa centro-occidentale, comprende parti significative del Niger, del Ciad, del Camerun e della Nigeria, e è una delle zone maggiormente povere e più a rischio di siccità nel mondo.

Bacino del Lago Ciad. International Atomic Energy Agency (IAEA), Integrated and Sustainable Management of Shared Aquifer Systems and Basins of the Sahel Region, Lake Chad Basin, 2017, p. 4.

La popolazione molto giovane, composta da numerosi gruppi etnici[16], è concentrata nella parte meridionale più fertile (a nord ci sono le zone più aride), e ha una crescita demografica annuale stimata al 2.8% dalle Nazioni Unite.[17]


Il lago rappresenta la principale fonte di acqua dolce per circa 40 o 50 milioni[18] di persone dedite principalmente a attività produttive tradizionali, quali agricoltura, pesca, allevamento, artigianato. Tuttavia, il cambiamento climatico con periodi estesi di grave siccità, e la cattiva gestione idrica (inquinamento, costruzioni di dighe e deviazioni in Niger e Nigeria) hanno contribuito all’impressionante riduzione del 90% della sua superficie tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso [19]. A partire dagli anni ‘90, la superficie del lago ha recuperato parte delle sue dimensioni grazie alle precipitazioni nella parte ovest del Sahel, seppur si tratta di fenomeni sempre più violenti e concentrati. [20]


Le alterazioni climatiche modificano inevitabilmente gli habitat locali con conseguenze sulle attività di sussistenza. Tradotto in termini pratici una minore quantità e biodiversità di fauna e di flora[21] disponibili costringe le comunità locali a diversificare le loro fonti di reddito, quindi le loro abitudini alimentari e gli stili di vita. Così, per esempio, alcune comunità nomadi sono divenute semi nomadi accostando l’attività agricola all’allevamento, o sostituendo gli animali passando da cammelli e bovini a ovini e caprini. Similmente alcuni gruppi di pescatori si sono rivolti all'agricoltura, ritrovando poca disponibilità di fauna ittica causata sia dallo sfruttamento eccessivo della stessa, sia dal prosciugamento del lago che ha fatto emergere terra coltivabile sostituendo zone di pesca.

Fonte: RIZZO, J., A Shrinking Lake and a Rising Insurgency Migratory Responses to Environmental Degradation and Violence in the Lake Chad Basin, Africa, 2015, p. 18.

Nonostante i casi di resilienza, le comunità escono indebolite da tali cambiamenti, che spesso aumentano la concorrenza, scatenando lotte legate alla quantità e all’accessibilità delle risorse che non risultano sufficienti per tutti. L’impatto negativo sull’occupazione, sul reddito, sui prezzi (gonfiati) delle merci, sulla sicurezza alimentare e sulle capacità tradizionali endogene di risoluzione dei problemi è esacerbato dall’esodo verso i centri urbani (che allontanano le persone dalle loro reti di resilienza originali) e non solo.[22]


La combinazione di disordine ambientale, vulnerabilità istituzionale[23] insicurezza socio-politica causano un aumento di movimenti transfrontalieri[24], sia di civili che di militanti alle quali sono legate, sovente, ondate di violenza. Tali spostamenti sono spesso caratterizzati da ritorni spontanei che si rivelano essere degli insuccessi a livello di reinserimento socio-economico. Dunque, chi ritorna si ritrova a vivere in condizioni di precarietà in varie forme di insediamenti locali temporanee, che a loro volta alimentano ulteriori spostamenti nelle aree di intervento umanitario, aumentando, così, la dipendenza dagli aiuti senza alcuna prospettiva sostenibile.[25]

Location and number of IDPs by administrative region under laid with conflict events. Fonte: International Organization for Migration, IOM, Within and Beyond Borders: Tracking Displacement in the Lake Chad Basin, 2019, p. 21.

È possibile inquadrare in tale contesto le violenze e le attività illecite, sempre più incidenti nell’ultima decade, perpetrate dal gruppo islamico ideologico Boko Haram[26], le cui incursioni e la cui sopravvivenza sono favorite dalle lingue di terra e le isole che sono emerse dal prosciugamento del lago, le quali rappresentano dei validi avamposti isolati e poco accessibili. Più in generale i gruppi armati traggono vantaggio dalla geografia trasformata, cavalcano i contrasti di colore etnico interni alle comunità, spesso legati all’accesso alle risorse in base ai nuovi assetti ambientali, sfruttano la porosità dei confini con le loro attività illecite e violente.

6. Conclusioni


L’instabilità climatica, dovuta in gran parte all’attività umana, è una condizione globale che non si può gestire con armi o con leggi, ma solo cambiando gli stili di vita in ogni parte del pianeta.


Se i cambiamenti climatici da soli non sono la causa assoluta di migrazioni forzate, sono sicuramente fattori decisivi laddove esiste già una qualche vulnerabilità, come esemplificato nel caso di studio sul Bacino del Lago Ciad. Ciò non vale solo per i Paesi più poveri o instabili, ma riguarda anche i Paesi più ricchi, incluso il Vecchio Continente europeo, che deve assolutamente allinearsi lungo un’ottica di politiche migratorie a lungo termine e non basarsi sul mero contenimento dei flussi. Se infatti sono ancora pochi i casi di migranti che si spingono in Europa per cause ambientali, occorre sottolineare che è difficile prevedere cosa accadrà sul lungo termine.


È nell’interesse dell’Unione iniziare fin da ora a elaborare politiche migratorie inclusive che tengano in considerazione gli effetti del clima e che prevedano adeguati meccanismi di tutela di migranti che si spostano perché costretti a farlo. Purtroppo, il fatto che nel nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, presentato e adottato dalla Commissione lo scorso settembre, la questione climatica come causa di migrazione non venga assolutamente menzionata, dimostra ancora una volta la mancata lungimiranza (e il mancato interesse) delle istituzioni a muoversi nella giusta direzione.


Peraltro, ne va della stessa unione politica europea, tanto più che la migrazione potrebbe essere una grande opportunità per un continente vecchio, in recessione, che, indebolita dal dibattito interno su una politica estera per niente unificata, deve fare delle scelte coraggiose per emergere maggiormente sul piano internazionale divenendo così una valida e vera alternativa agli Stati Uniti.

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Migrazioni e clima
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Note

[1] Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS), Future of the human climate niche, May 26, 2020 117 (21) 11350-11355, https://www.pnas.org/content/pnas/117/21/11350.full.pdf. [2] Nicholls, R.J., and Lowe, J., Benefits of mitigation of climate change for coastal areas, Global Environmental Change, 14, 2004, https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0959378004000445.

[3] Il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC) è l'organismo delle Nazioni Unite che si occupa di studiare gli effetti del surriscaldamento globale. Maggiori informazioni sulla missione e sulle attività dell’IPCC sono disponibili al seguente indirizzo: https://www.ipcc.ch/. [4] https://ehs.unu.edu/news/news/5-facts-on-climate-migrants.html. [5] Oxfam International, Uprooted by climate change. Responding to the growing risk of displacement, Briefing Paper, November 2017, https://oi-files-d8-prod.s3.eu-west-2.amazonaws.com/s3fs-public/file_attachments/bp-uprooted-climate-change-displacement-021117-en.pdf. [6] International Organization for Migration (IOM), Migration and Climate Change, IOM Migration Research Series, no. 31, 2008, https://publications.iom.int/system/files/pdf/mrs-31_en.pdf. [7] World Bank Group, Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration, 2018, https://openknowledge.worldbank.org/handle/10986/29461.

[8] International Organization for Migration (IOM), Migration and Climate Change, IOM Migration Research Series, no. 31, 2008, https://publications.iom.int/system/files/pdf/mrs-31_en.pdf. [9] International Organization for Migration (IOM), Migration, Environment and Climate Change: Evidence for Policy (MECLEP) – Glossary, July 2014, https://publications.iom.int/system/files/pdf/meclep_glossary_en.pdf?language=en. [10] Centro di ricerca sulle migrazioni di cui si avvalgono sia l’OIM che le Nazioni Unite https://www.internal-displacement.org/ [11] A tale proposito citiamo la Convenzione di Kampala, strumento regionale giuridicamente vincolante, è stata firmata nel 2009 e è entrata in vigore nel 2012 (https://au.int/en/treaties/african-union-convention-protection-and-assistance-internally-displaced-persons-africa ). Essa mira a ridurre il numero di persone sfollate per conflitti e disastri, garantendone la protezione, seppur le situazioni risultano complicarsi laddove sono coinvolti interessi economici privati (multinazionali), e le misure per mitigare il crescente rischio non sono state chiaramente inquadrate giuridicamente. [12] Cfr. BEEGLE, K., CHRISTIAENSEN, L., Accelerating Poverty Reduction in Africa, World Bank Group, 2019, pp. 39-40. [13] Dopo una grave e prolungata le siccità che hanno colpito il Sahel tra gli anni '70-'80 che sono state considerate come una delle prime conseguenze importanti del cambiamento climatico globale nel secolo XX. Sin dall’inizio degli anni ‘90 si assiste ad un incremento medio annuale delle precipitazioni. Nonostante questa tendenza, l'attuale cambiamento climatico sembra avere un impatto variabile che influisce di anno in anno sulla quantità di precipitazioni durante le stagioni delle piogge, aumentando la vulnerabilità dell'economia regionale, basata principalmente su attività agro-pastorali. PHAM-DUC B., SYLVESTRE F., PAPA F., FRAPPART F., BOUCHEZ C., CRETAUX J.F., The Lake Chad hydrology under current climate change, Scientific Report, Nature, 2020. [14] I dati attuali mostrano che la grande maggioranza di coloro che sono costretti a spostarsi (oltre il 90%) sceglie di rimanere nella regione, piuttosto che viaggiare in Europa. Ciò è dovuto in gran parte alla mancanza di risorse materiali necessarie per lasciare il continente. Per maggiori informazioni cfr. BEEGLE, K., CHRISTIAENSEN, L., Op. cit., 2019, pp. 39-40. [15] Nel 2017 lo stesso European Council on Foreign Relations: TORELLI, S.M., Climate-driven migration in Africa, European Council for Foreign Relations denuncia i cambiamenti climatici tra i primi push factors; Più recentemente il Report IDCM 2020, afferente ai dati del 2019 (cfr. Bibliografia) sottolinea come la regione sia sempre più protagonista di conflitti inter-etnici e di spostamenti di massa con implicazioni regionali.

[16] Composta da diversi gruppi etnici. Per maggiori informazioni cfr. il seguente sito web https://www.nigrizia.it/atlante alla sezione Informazioni. [17] Con notevoli disparità tra i quattro paesi che compongono l’area. Per un approfondimento cfr. il rapporto UNFPA Demographic Dynamics and the Crisis of Countries around Lake Chad , West and Central Africa Regional Office, 2017 [18] World Food Program Lake Chad Basin, Desk Review, 2016, p. 6, i report dell’ IDCM, più recenti, danno altri numeri che oscillano tra i 40 e i 50 milioni. [19] Nel febbraio 2018, un programma di ricerca e conservazione da 6,5 milioni di dollari per preservare il bacino del Lago Ciad è stato lanciato nella capitale della Nigeria, Abuja. I Paesi partecipanti sono Camerun, Ciad, Niger, Nigeria e Repubblica Centrafricana. https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2019/12/14/unione-africana-prioritario-salvare-sahel-bacino-del-lago-ciad/ [20] Il lago Ciad ha un sistema idrologico molto complesso, per maggiori dettagli cfr PHAM-DUC B., SYLVESTRE F., PAPA F., FRAPPART F., BOUCHEZ C., CRETAUX J.F., The Lake Chad hydrology under current climate change, Scientific Report, Nature, 2020. [21] Per esempio il kreb, una miscela di cereali provenienti da una dozzina o più di erbe selvatiche, ad oggi di difficile reperibilità, era in precedenza un'importante fonte di cereali per i pastori del Bacino. [22] World Food Program, WFP, Lake Chad Basin, Desk Review, 2016. [23] che si ripercuote sull’incapacità di sostenere e implementare interventi sostenibili promossi anche dalle organizzazioni internazionali come FAO, e LCBC. [24] Migrazioni che sono favorite anche da accordi di integrazione regionale, quale, per esempio l’ Economic Community of West African States (ECOWAS) https://www.ecowas.int/, o il più recente African Continental Free Trade Area (AfCFTA) https://www.africancfta.org/ [25] Multinational Joint Task Force (istituita dalla Lake Chad Basin Commission sin dagli anni ‘90), La Lake Chad Basin Commission http://www.cblt.org/ è stata istituita nel 1964 da Camerun, Niger, Nigeria, Ciad (+ Rep Centrafricana e Libia rispettivamente nel 1996 e nel 2008) al fine di gestire il lago e le risorse ad esso connesse in modo sostenibile, per preservare l’ecosistema, la pace e promuovere l’integrazione regionale.

[26] Emerso in Nigeria nel 2009, si diffonde negli anni seguenti attraverso i Paesi del bacino, fino a culminare in una crisi nel 2014. La diffusione e la presa di potere di Boko Haram corrisponde alle vicende interne al gruppo in quegli anni https://www.internazionale.it/notizie/2015/01/12/cos-e-boko-haram

Bibliografia


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Sitografia


wcaro.unfpa.org


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