Memorie della dittatura: così il Cile ricorda Pinochet
Aggiornamento: 1 nov 2020

Secondo Isabel Allende, la scrittrice contemporanea più famosa del Paese e la più letta della letteratura di lingua spagnola, il Cile ha molti volti. C’è quello descritto da Pablo Neruda, il poeta nazionale che nei suoi versi ne ha immortalato i paesaggi, gli aromi e il sorgere del sole. C’è un volto arrogante e materialista che convive a fatica con un volto depresso, attraversato dalle profonde cicatrici del passato.
Oltre ad avere molti volti, il Cile ha molteplici memorie della dittatura di Pinochet. Il modo in cui il Paese ricorda quel periodo buio, cominciato nel 1973 con il golpe contro Salvador Allende e terminato nel 1990, ci dice qualcosa sul carattere delle genti che lo abitano, almeno tanto quanto la sua mentalità insulare e l’orgoglio per la portentosa bellezza della loro terra.
Per capire pienamente la questione della memoria in Cile è necessario capire sia i cileni che in Pinochet vedevano un eroe sia coloro che lo consideravano un criminale.
La memoria è salvezza
Nonostante l’avvento dell’era democratica, alcuni cileni – una minoranza per lo meno – continuarono a ricordare il rovesciamento del governo di Salvador Allende da parte dei militari come una missione di salvataggio. Questo senso di salvataggio ha dato significato alla violenza politica messa in atto durante il regime militare.
È così per coloro che nel 1973 appartenevano alla aristocracia venida a menos, l’aristocrazia in declino composta da latifondisti ed ereditari terrieri, di ideologia prevalentemente conservatrice. Già durante i governi precedenti a quello di Allende vi erano stati tentativi di implementare una riforma agraria attraverso l’espropriazione dei latifondi del Cile centrale e meridionale e la loro riorganizzazione in cooperative agricole. Questi eventi sono ricordati dai discendenti di quell’aristocrazia rurale come la toma del presidente cristiano-democratico Frei, cioè l’espropriazione ingiusta che avevano subito e che aveva accelerato il loro declino. Più di ogni altra cosa, però, a Frei veniva imputato il fallimento nel contrasto ai gruppi rivoluzionari di sinistra che tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta stavano prendendo piede nel paese, come nel resto dell’America Latina, con azioni di guerrilla. Allende condusse una campagna elettorale nella quale proclamò l’obiettivo del socialismo e affermò che una transizione rivoluzionaria poteva essere condotta con mezzi elettorali e costituzionali: questi mezzi pacifici sarebbero stati implementati da un governo popolare, supportato da un’alleanza di lavoratori, contadini, poveri abitanti dei suburbi, giovani con una coscienza sociale molto forte e, infine, dalla classe media. Con questo progetto, Allende vinse le elezioni ma divenne un presidente di minoranza. Alla fine del 1972 ordinò i primi interventi di espropriazione e requisizione, una mossa che venne interpretata dalla destra cilena come la chiara dimostrazione del fatto che la rivoluzione era reale e non solo retorica. Fu in quel momento che le opposizioni cominciarono a mobilitarsi per fermare la rivoluzione di Allende. Ad uno sciopero generale sostenuto dal mondo degli affari e dai proprietari terrieri si aggiunsero la propaganda mediatica e le conversazioni tra gli ufficiali militari cileni e quelli stranieri, in particolare quelli statunitensi. L’obiettivo tacito era fermare una volta per tutte la rivoluzione, in modo da poter redistribuire la proprietà e il potere.
In questo contesto, secondo alcuni cileni – coloro che si sentivano maggiormente minacciati dalla rivoluzione costituzionale di Allende e che tuttora si fanno promotori della memoria come salvezza – la decisione dei militari di spodestare Allende e governare al suo posto avrebbe salvato il Cile da un destino violento e terribile. Per quanto riguarda la questione della violazione dei diritti umani, questi stessi cileni sostengono che le situazioni sociali particolarmente terribili spesso richiedono azioni di risanamento molto drastiche. Non che le morti fossero lodevoli, ma – detto brutalmente – costituirono il prezzo da pagare per mettere in salvo il Paese.
La memoria come salvezza divenne ben presto parte di un processo di distorsione della verità e disinformazione, poiché molti suoi sostenitori negarono la realtà delle esecuzioni segrete, dei rapimenti, delle sparizioni forzate e della tortura. È stato solo con l’avvento dell’era democratica e la formazione di una commissione d’inchiesta che questa minoranza di cileni ha cominciato a riconoscere la realtà dei fatti.
La memoria è rottura
Per alcuni cileni, invece, la memoria della dittatura è una ferita aperta, che fa fatica a rimarginarsi.
Questi cileni appartengono generalmente a una classe di migranti e lavoratori. Per loro, la memoria è una rottura infinita e disperata. È così per tante madres, quelle i cui figli furono internati a Tejas Verdes, un campo di concentramento poco fuori Santiago gestito dalla DINA, la polizia segreta del regime militare. Spesso i prigionieri politici – per lo più giovani attivisti di sinistra e membri del partito comunista – venivano torturati a Londres 38, un centro di detenzione situato nel centro di Santiago, per poi essere trasferiti a Tejas Verdes.
La memoria come rottura si manifesta in due modi. Da un lato, vi è chi sceglie di vivere il trauma individualmente e che si sforza di onorare e mantenere il ricordo dei propri cari scomparsi in modo intimo e riservato. Dall’altro, la memoria si trasforma in una lotta per trovare ciò che resta delle vittime della violenza politica. Questo attivismo, che si concretizza – tra le altre cose – nelle marce annuali al cimitero per la memoria dei morti e gli scomparsi di Santiago, dimostra quanto sia sbagliato pensare che la memoria intesa come rottura possa rendere le persone solo ed esclusivamente delle vittime. Un trauma di questa portata, collettiva e individuale, è profondamente brutale e ancora irrisolto.
Nell’attivismo dei sostenitori della memoria come rottura risiede la convinzione che non si possa mentire alla Storia. Per questo, l’istituzione di una commissione per la verità ha costituito un momento tremendamente importante. Le indagini sulle violazioni dei diritti umani, le morti e le sparizioni forzate, infatti, sono state indispensabili per avviare il processo di risanamento di quella ferita.
La memoria è persecuzione e risveglio
Oggi la parte della classe media che all’epoca della dittatura trovava nei cristiano-democratici il proprio riferimento politico concepisce la memoria come persecuzione e risveglio. Ciò è particolarmente vero per coloro i quali dovettero confrontarsi con l’esperienza della persecuzione dei propri cari. La rivelazione drammatica della brutalità della dittatura, la paura della sofferenza inflitta ai loro cari, nonché la loro coscienza cristiana hanno alimentato una memoria concepita come risveglio dalla mancata immediata percezione della vera natura del regime.
In questo senso, la persecuzione si è rivelata anche un momento di risveglio dell’impegno sociale e dei valori che sembravano sopiti e ha dato avvio a un periodo di ispirazione e affermazione comunitaria. La solidarietà e la creatività si manifestavano in molti modi. Le ollas comunes, ad esempio, erano simili a delle mense popolari dove, oltre a servire pasti, la resistenza cilena si riuniva per incontrarsi e prendere coscienza. Le arpilleras, le donne che tessevano tele decorative, sfruttavano la loro arte per raccontare le condizioni di vita durante la dittatura: i desaparecidos, ma anche la fame, la disoccupazione, la mancanza di alloggi e le difficoltà della vita quotidiana attribuite al governo Pinochet. Sulle tele vi erano ricamati messaggi politici come “Libertà per i prigionieri politici”, “Dove sono la verità e la giustizia?”, o anche “No alla legge antiterrorismo”. Cucire era un atto individuale, ma il valore delle tele era collettivo. Era un tentativo di metabolizzare la violenza della vita collettiva cilena, che spesso si iscriveva anche nella vita intima e personale degli individui.
La memoria è un rimorso
La tradizione orale del rimorso è il racconto di coloro che, anche involontariamente, si resero complici della dittatura militare. È il caso delle madri che accompagnavano i figli alla stazione di polizia dopo la loro convocazione. I loro ragazzi non sarebbero più tornati a casa. Ciò che spiega questa sottile complicità è la mancata percezione della brutalità del regime e della gravità della repressione. A rendere più complicata e dolorosa la memoria del rimorso contribuisce il fatto che lo Stato cileno non si sia mai assunto la responsabilità dell’accaduto, trasferendo questa responsabilità sui familiari delle vittime.
La memoria è indifferente
Per molti, comunque, oggi la memoria è una scatola chiusa. È così per coloro che commentano le violazioni dei diritti umani commessi dal regime dicendo: “A mi no me afectó”. Non essendo stati toccati in prima persona dagli eventi più tragici della dittatura, questi cileni coltivano una memoria dell’indifferenza. Sostengono altresì la tesi secondo cui è meglio dimenticare il passato, o quantomeno non parlarne in pubblico. Di fronte a temi troppo divisivi come il carattere della dittatura e le violazioni dei diritti umani, è meglio per tutti guardare avanti. Ma è davvero così?
Le molteplici memorie della dittatura, spesso contrastanti, raccontano la complessità della società cilena di ieri e di oggi. Anche se non tutti i cileni ricordano la dittatura allo stesso modo, è importante notare che il Cile non ha dimenticato. L’elaborazione e il superamento dei traumi è, in un certo senso, un fatto personale e collettivo allo stesso tempo. Anche se non sono sufficienti, i luoghi della memoria sono tracce indispensabili di ciò che è stato. Dopo tutto, non si può mentire alla Storia.
Per approfondire:
· Allende Isabel, Il mio paese inventato, Feltrinelli, 2013.
· Council on Hemispheric Affairs, Chilean Women’s Resistance in the Arpillera Movement, in http://www.coha.org/chilean-women’s-resistance-in-the-arpillera-movement/
· Londres 38, espacio de memorias, http://www.londres38.cl/1937/w3-channel.html
· Stern Steve J., Remembering Pinochet's Chile: On the Eve of London 1998, Duke University, 2006.