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La lunga marcia verso la politica zero-Covid: il lockdown di Shanghai

Aggiornamento: 31 ago 2022

Figura 1: Medici cinesi che camminano lunga una strada deserta di Shanghai (STR / AFP via Getty Images)

1. Introduzione


Negli ultimi due mesi, più di 25 milioni di persone sono state confinate nelle loro case solamente nella città di Shanghai. Da inizio aprile 2022, i contagi sono aumentati in maniera vertiginosa nella “perla d’Oriente”, obbligando il governo centrale a compiere scelte drastiche attraverso una politica “dynamic clearing” (动态清零) , più nota a noi, come zero-Covid policy.

Si tratta di una misura restrittiva che mira ad azzerare i contagi tramite un duro lockdown e un’intensa campagna di tamponi a tutte le persone che hanno sintomi o che risiedono in un’area dove è presente anche un solo caso positivo. Mentre, dopo una prima fase incerta, il modello cinese è stato considerato come una guida per poter prevenire l’avanzata del virus, oggi si notano maggiormente i difetti e le lacune democratiche che contraddistinguono questo tipo di politica zero-Covid con caratteristiche cinesi.


Quest’ultimo lockdown a Shanghai è stato diverso rispetto a quelli passati, poiché è avvenuto in un momento in cui i principali partner occidentali di Pechino stavano rimuovendo ogni tipo di restrizione, facendo ripartire tutti gli aspetti della vita sociale e lavorativa del proprio Paese, mentre la città sembrava esser ricaduta nell’incubo che gli europei avevano vissuto nel marzo 2020.


La supply chain cinese era ferma, i lavoratori sono stati rinchiusi in casa o nel proprio ufficio e tutte le attività commerciali (escluse quelle poche legate al food delivery) sono state chiuse: ciò ha portato la popolazione a manifestare forme blande di protesta, le quali sono state sedate con risposte ancora più coercitive, come la costruzione artificiali di vere e proprie prigioni dentro i cosiddetti compound cinesi.

Ai primi di luglio, il governo ha annunciato la fine del lockdown; tuttavia, il pass sanitario rimane saldo tra le mani della dirigenza cinese ed in futuro potrebbe esser usato per scopi che esulano da quello per cui è stato concepito inizialmente.


2. L’inizio della pandemia e la reazione cinese


Il 31 dicembre 2019, il governo di Wuhan, nella provincia di Hubei in Cina, ha notificato al World Health Organization (WHO) che le autorità sanitarie stavano trattando 27 casi di polmonite di natura sconosciuta. Giorni dopo, i ricercatori in Cina hanno identificato un nuovo virus che aveva infettato decine di persone in Asia. Nel giro di pochi mesi, il Covid19 è stato rinvenuto anche in Europa, negli Stati Uniti d’America e nei Paesi più industrializzati dell’Africa.


La Cina è stata il primo Paese a muoversi per contrastare l’avanzata del virus, pertanto vanta un’ampia letteratura su quali misure adottare e quali politiche implementare. Una tra queste è sicuramente descritta nello studio effettuato da Wu e McGoogan, che sottolinea tre elementi rilevanti.


Il primo è legato all’esperienza cinese accresciuta con la SARS nel 2003, la quale aveva già fornito alcuni strumenti di prevenzione, identificazione e debellamento di questo tipo di virus.


Il secondo è appunto questa strategia mista che mira inizialmente a trovare la fonte del virus, per poi isolarla e, tramite ingenti investimenti sulla tecnologia di sorveglianza, cercare di individuare tutti i viaggiatori che possano manifestare i primi sintomi per sottoporre loro un test.


Il terzo, invece, è l’attuazione dei primi lockdown nella provincia di Wuhan il 24 gennaio 2020, chiudendo gli aeroporti e sospendendo tutti i trasporti pubblici per impedire a chiunque di entrare e uscire dal territorio.


Questi tre pilastri della strategia cinese sono stati fondamentali per cercare di contenere l’espansione del virus. Sebbene inizialmente queste scelte fossero molto criticate per le sue connotazioni ampiamente autocratiche e poco liberali, col passare del tempo e con l’esponenziale dilagare del virus, anche altri Stati hanno seguito misure simili (sebbene più morbide), tentando di ripercorrere la zero-Covid policy adottata da Pechino.


Tuttavia, nonostante la strategia del governo cinese, i casi continuarono ad aumentare sia dentro che fuori il territorio nazionale. Pertanto, la Cina si vide costretta ad annunciare la chiusura dei suoi confini nel tentativo di contenere il virus. Ancora oggi, la Cina è isolata: è vero che pian piano Pechino sta riaprendo i suoi confini, ma sono poche le categorie di persone che vi possono entrare e, attraverso un rigido controllo sui visti e passaporti, nessuno, neanche gli stranieri che vorrebbero ritornare nella propria patria, possono lasciare il Paese.


La Cina si è trasformata in una gigantesca cassaforte.






Figura 2: Infografica sull’iter cronologico del Covid in Cina - tratti salienti

(Fonte: WHO Timeline - Covid19)


3. Il 2022 in Cina: misure che ricordano il 2020 in Europa


Il governo di Pechino, come la maggior parte dei Paesi europei, ha cominciato l’anno confidando di essersi lasciato alle spalle i mesi più bui. Dopo una maniacale attenzione sui controlli degli spostamenti e sui possibili casi di positività durante la “golden week”, cioè la prima settimana di ottobre che coincide con la vacanza nazionale più importante nella quale in media si spostano più di 600 milioni di cinesi per tutto il territorio, la preoccupazione principale di Xi Jinping risiedeva nella buona riuscita e nell’ottima immagine che gli avrebbe procurato la seconda Olimpiade di Pechino a febbraio.


Essendo il Paese chiuso ermeticamente, i giochi olimpici si sono rivelati uno show “a porte chiuse” di grande prestigio, tuttavia macchiato successivamente dall’invasione russa in Ucraina. Mentre il governo cinese, la sua comunità scientifica e l’opinione pubblica cercavano di smarcarsi dalla visione bipartisan sulla guerra che tuttora divide anche l’Europa, i casi di positività al Covid iniziavano a risalire a Shanghai. Data la frenetica vivacità della città in cui sono presenti anche molti stranieri dovuto al suo animo più “liberale” e internazionale rispetto ad altre metropoli cinesi, per evitare che questo contagio si diffondesse anche in altri territori vicini, il governo decise di attuare una strategia che dividesse la città in due parti: la prima (quella vicino alla costa) venne chiusa dal 28 marzo, successivamente la seconda parte (più a nord) venne inclusa nel lockdown a partire dal 1° aprile.


Sebbene i primi casi siano datati a inizio marzo, il governo ha deciso di procedere più lentamente con la chiusura poiché sia Shanghai che Pechino sono due cuori pulsanti dell’economia cinese: difatti, solamente Shanghai rappresenta il 3% del Pil in Cina ed il 10% del commercio totale cinese.


Sigillare questa città portuale nel periodo in cui i principali partner stavano riaprendo gradualmente i propri porti e le proprie attività economiche avrebbe rappresentato una perdita troppo grande per l’economia cinese, in termini di import/export e consumi interni, pertanto si è optato per una chiusura posticipata.


Tuttavia, il lockdown shanghainese ha rivelato la faccia più dura e inflessibile del Partito Comunista Cinese (PCC). Come già evidenziato, Shanghai è molto diversa dalle altre città. Non è un caso se viene soprannominata la “nuova grande mela cinese”: i colori, gli abitanti, le aziende e i suoni richiamano molto l’occidente. Infatti, fu una tra le prime città a rientrare nelle famose ZES (zona economica speciale) durante il periodo di riforme promosso da Deng Xiaoping per aprire i porti cinesi agli investitori europei.

E da ciò ne consegue che, negli ultimi 40 anni, gli abitanti di Shanghai sono stati a stretto contatto con la cultura occidentale: le sue libertà, le sue pluralità, i suoi vizi e i suoi segreti.


Pertanto, obbligare una popolazione pari a un terzo di quella italiana a rinchiudersi in casa e non farla più uscire per alcun motivo (né sanitari, né lavorativi, né emergenziali) ha creato molti problemi di disordine pubblico, dato che fino a un mese prima gli abitanti godevano di tutte quelle libertà “condizionate” che fanno da compromesso tra la società di Shanghai e il governo centrale.


Il vero dramma di questo lockdown, tuttavia, consisteva nell’inefficienza del coordinamento tra il governo centrale e quello locale. Il cibo elargito dal partito era poco e molto spesso non arrivava alle periferie della città, costringendo i cittadini a razionare ciò che rimaneva loro per non morire di fame. Inoltre, vi era anche l’incognita di quando sarebbe finito il lockdown e se ci sarebbe stato un intervento della polizia per prelevare le persone e portarle a uno dei Shanghai Covid isolation center qualora fosse stata segnalata la positività del vicino di casa.


Anche questi ultimi centri, idealmente, potevano essere considerati come una grande soluzione per contenere il virus: tuttavia, concettualmente, si sono rivelati un enorme errore.


Molto spesso venivano introdotte persone non affette da Covid, che, entrando in contatto con persone positive, si positivizzavano a loro volta proprio all’interno di tali centri. I Covid center si presentavano come enormi capannoni con bagni e docce comuni. Vi erano centri più moderni e puliti, mentre altri erano sovraffollati e poco curati. Per terminare questo tipo di “soggiorno”, se la persona in quarantena fosse risultata negativa dopo due tamponi, allora sarebbe stata riaccompagnata a casa.


Da quando è stata attivata questa nuova misura coercitiva, Shanghai ha vissuto il vero saldo controllo del Partito Comunista Cinese: controlli a campione, droni, recinzioni, prelievi di persone e arresti.


Si è fatto tutto il possibile affinché il sistema sanitario cinese non crollasse davanti agli occhi puntati addosso degli altri attori globali, i quali non aspettavano altro che la Cina implodesse e facesse cadere il mito di Paese socialista più avanzato e moderno rispetto a quelli occidentali.


Tuttavia, la Cina è riuscita a resistere a questa ondata e dal 1° giugno 2022 ha iniziato ad allentare le misure restrittive, permettendo ai residenti di Shanghai di poter uscire per un paio di ore al giorno.

L’alleggerirsi del lockdown ha portato ottimismo sia tra le file del governo che tra gli abitanti di Shanghai: col passare delle settimane il ritorno alla vita normale non era più un miraggio, ma una solida realtà, considerando che il governo riapriva gradualmente sempre più quartieri, permetteva ai negozianti di lavorare e riattivava le linee di trasporto principali.


La svolta internazionale si ebbe ad inizio luglio quando il governo annunciò di aprire il proprio Paese all’ingresso di connazionali che non riuscivano a rientrare a casa da due anni e di fungere, invece, da scalo verso Paesi terzi per i turisti stranieri. È un passo avanti molto significativo se si tiene in considerazione il fatto che durante questi due anni di isolamento turistico, vi sono stati alcuni mesi in cui neanche i diplomatici potevano giungere a Pechino. Tuttavia, bisogna ricordare che i test anticovid e i “green pass” sono ancora necessari sia per i cinesi che vogliono rientrare nel proprio Paese, sia per gli stranieri che vi transitano. La Cina sta sicuramente testando una riapertura controllata per potersi presentare il prossimo ottobre (ricordiamoci la golden week) non solo con una grande affluenza di cinesi, ma anche un importante ritorno dei turisti stranieri. Ogni azione intrapresa dal governo è mirata ad avere degli effetti e conseguenze a lungo termine che permettano alla Cina di ritornare a pieno regime, sia da un punto di vista economico, che sanitario che turistico.

Figura 3: Shanghai illuminata di notte (via Pexels)

4. Conseguenze economiche, politiche e sociali


Come in ogni altro Paese, il Covid19 ha avuto effetti molto significativi anche nella Repubblica Popolare Cinese. Uno tra questi è sicuramente legato alla struttura economica di Pechino. L'economia cinese ha sofferto particolarmente a causa dell'epidemia, più di quanto gli economisti si aspettassero. Le rigide misure di contenimento combinate con le chiusure economiche nei Paesi chiave per la ripresa economica della Cina, hanno gravemente limitato la loro crescita. Il 2020 è l'anno in cui i leader cinesi avrebbero celebrato il raddoppio della propria economia in un decennio, ma come ha osservato Yukon Huang al Carnegie Endowment, il coronavirus ha "cancellato quelle previsioni". Di fronte a queste sfide, tuttavia, la Cina è stata l'unica grande economia a essere cresciuta nel 2020, anche se con il tasso annuo più basso (2,2%) dal 1976.


Nonostante l’epidemia e le restrizioni annesse, i Paesi hanno richiesto a gran voce merci cinesi nel 2021, anno in cui hanno iniziato a rimuovere le misure anti Covid e a far ripartire la propria economia: difatti, le esportazioni hanno raggiunto un livello record, con la Cina in aumento dell' 8,1%.


Da un punto di vista diplomatico, il Covid ha avuto un grande impatto anche sul progetto campione di Pechino, la Belt and Road Initiative (BRI). Nel giugno 2020, il Ministero degli Affari Esteri cinese ha stimato che il 50-60 % dei progetti nell'ambito della BRI erano stati "seriamente colpiti" dalla pandemia del coronavirus. L'impatto maggiore sull'iniziativa cinese potrebbe essere stato il risultato di restrizioni agli spostamenti e alla circolazione delle merci, anche se altri lo hanno imputato prevalentemente ai Paesi che hanno aderito all'iniziativa: difatti, molti di questi (tra cui Egitto, Bangladesh, Pakistan e Tanzania) hanno annunciato che stavano rinviando o rivedendo i progetti finanziati dalla Cina. Secondo una ricerca del lab Aid Data, alcuni partner, tra cui il Kazakistan e la Bolivia, hanno persino annullato progetti rispettivamente per 1,5 miliardi di dollari e 1 miliardo di dollari, mentre Camerun, Costa Rica, Ecuador, Etiopia, Sudan e Zambia ne hanno sospeso altrettanti per un totale di 3,3 miliardi di dollari.


Tuttavia, ciò non ha influito più di tanto sull’apparato interno della Cina. Tra le varie dimensioni statali condizionate dalla pandemia, la sfera politica è quella che ha tremato di meno. Nonostante la leadership cinese sia politicamente forte, il Covid è stato un duro test da superare, poiché un errore di troppo, come ad esempio il collasso della sanità pubblica, avrebbe potuto far capitolare la dirigenza cinese e far decadere quello status aureo di Xi Jinping, specialmente in vista del XX Congresso Nazionale di ottobre.

È normale pensare che la crisi a spirale sia apparsa come una potenziale minaccia per il Partito Comunista Cinese: i suoi leader che si caratterizzano come infallibili, percepiscono qualsiasi rumoroso disordine sociale o fallimento di alto profilo della politica come un pericolo per la loro legittimità alla guida del Paese. Per esempio, un crollo della sanità pubblica non in grado di reggere la pressione dei contagiati e di rimanere al passo con le vaccinazioni come i suoi competitor europei, avrebbe potuto rappresentare un serio rischio per il mandato celeste del partito, andando a incrinare il patto tacito secondo cui il governo ha il pieno potere politico, ma in cambio, esso si prende cura del cittadino. Inizialmente, il governo aveva mal gestito la prima fase della pandemia: difatti, prima di attuare le misure restrittive a Wuhan, più di cinque milioni di residenti erano già andati via, trasportando con sé il virus.


Il vero shock che ha colpito mediaticamente l’audience sia a livello nazionale che internazionale è stata una tragedia, figlia dell’autoritario mal governo del partito: Li Wenliang, un medico di Wuhan, tra i primi scienziati a riconoscere il nuovo virus e ad avere condiviso informazioni critiche in un gruppo di chat online a fine dicembre 2019, fu costretto dalle autorità locali a ritrattare, nonostante quelle informazioni fossero di vitale importanza per poter approntare per tempo una strategia a livello globale contro il virus. Questo medico contrasse il Covid e morì, diventando da un lato un eroe popolare per il suo coraggio dimostrato in prima linea contro il virus e dall’altro lato un pretesto per le critiche al regime. Il sospetto di uno scandalo arrivò fino al Presidente Xi Jinping. Un giornale del Partito Comunista suggerì che Xi sapesse anticipatamente dell’esistenza del virus e fosse direttamente coinvolto nella gestione della politica del governo quando la pandemia scoppiò a inizio gennaio 2020, coinvolgendolo così nella risposta scoordinata. Tuttavia, queste accuse non durarono molto data la ferrea e inamovibile posizione di Xi a capo della guida del Partito e del Paese. È da notare, però, come anche i piani più alti del governo cinese abbiano ricevuto qualche scossone, pur non portando ad alcun cambiamento straordinario.


Dal punto di vista sociale, invece, la popolazione cinese ha visto con i propri occhi quanto possa essere autocratico il proprio Paese, soprattutto se sotto minaccia. La dirigenza cinese è andata dritta per la sua strada ignorando non solo i comunicati internazionali, ma anche gli esperti nazionali.


A tratti, i cinesi hanno sperimentato una specie di campagna sanitaria in stile Mao, nella quale, chiunque fosse contrario veniva oscurato o allontanato, e si seguiva solamente la direzione indicata dal Partito, non considerando le altre. Nonostante ciò, l’impatto del Covid a livello sociale si è registrato maggiormente nelle grandi città, mentre nelle campagne è stato quasi nullo. Perciò, oltre ad esserci stata una specie di epifania su quanto controllo avesse il governo sulle loro vite, gli altri effetti generati dalla pandemia si possono ricondurre a quelli sperimentati anche in Europa: alti tassi di disoccupazione, calo del reddito familiare, aumento dei prezzi, e l’interruzione dell'apprendimento degli studenti.


5. Da strategia a politica zero-Covid

Figura 4: Codici sanitari identificativi in Cina (via Getty Images)

La strategia di Pechino contro il Covid si è evoluta nel tempo, infiltrandosi nella cultura cinese per rendersi poi parte integrante della loro vita. In Cina, oggi, se si vuole prendere un treno o entrare in banca è necessario un codice di salute identificativo (green pass) che attesti la negatività al virus. Funziona un po’ come un semaforo:

  • se l’applicazione segnala il colore verde, è possibile accedere a qualunque posto;

  • se segnala il giallo, vuol dire che c’è stato un possibile contatto con un positivo al Covid e, pertanto, vige l’obbligo di fare una quarantena di 7 giorni a casa;

  • se, invece, segnala il colore rosso, vuol dire che l’utente dell’applicazione in questione è positivo al Covid e deve fare una quarantena di 14 giorni a casa.

Il passaggio da strategia a politica è stato uno step fondamentale per il Partito Comunista Cinese nell’affrontare e contenere il virus. Quando si parla di strategia, ci si riferisce il più delle volte ad una impostazione astratta di modi e mezzi che devono essere adoperati per raggiungere gli obiettivi generali preposti. Invece, la politica è la sua tangibile e concreta realizzazione, la quale porta a degli effetti e delle conseguenze.


Di come il governo di Pechino abbia affrontato la pandemia ne è stato già discusso ampiamente in precedenza, tuttavia, non è stato ancora affrontato il ruolo e il valore che hanno (e avranno) questi nuovi codici identificativi. La stessa dirigenza cinese si è resa conto di come lo strumento in possesso potesse essere un’arma a doppio taglio: non solo può e deve essere usata per contrastare e individuare nuovi casi di Covid, ma inizia ad avere anche una valenza coercitiva e autoritaria.


L’episodio della protesta dei correntisti di tre banche a cui sono stati congelati i loro depositi ha mostrato uno degli effetti di una politica che faccia utilizzo in futuro di questo nuovo dispositivo sanitario virtuale. Lo scorso giugno, centinaia di persone avevano deciso su WeChat di recarsi nella provincia centrale di Henan da tutta la Cina per protestare contro un blocco di quasi due mesi sull'accesso ad almeno 178 milioni di dollari di depositi. Conoscendo l’identità di chi era in viaggio per protestare, il governo cinese ha deciso preventivamente di far diventare di colore rosso il loro codice sanitario, impedendo loro di poter giungere al luogo d’incontro concordato.


La minaccia esistenziale al dominio del partito derivante dall'epidemia è al centro di questa nuova politica zero-Covid. Durante uno stato emergenziale, ogni tipo di pericolo verso l’integrità dell’apparato governativo centrale deve essere eliminato, a tutti i costi. Questo è anche uno dei motivi per cui Pechino si è chiusa ermeticamente e non ha permesso alcun accesso da fuori.


Occuparsi della pandemia con i mezzi a loro disposizione e debellare ogni minaccia è stato l’imperativo categorico sospinto da una naturale propensione a proteggersi, sia dalla potenziale ricaduta di una crisi sanitaria a livello nazionale che avrebbe sollevato dubbi sulla competenza di Xi Jinping, sia dal rischio più profondo che il sistema di governance sarebbe stato offuscato e poi messo in discussione dal pubblico in generale.


La politica zero-Covid è ancora attiva e ha raggiunto il suo apice con l’obbligo di vaccinazione per poter accedere ad alcuni luoghi pubblici a Pechino, come centri sportivi, luoghi di intrattenimento e altri luoghi di ritrovo sociale. Questa misura è stata adottata dopo la comparsa di alcuni casi nella capitale cinese, e, come è consuetudine fare con ogni nuova misura che adotta il governo cinese, non è escluso che, qualora ciò comportasse un successo nella lotta contro il virus, quest’obbligo venga esteso anche ad altre città.


Nonostante l’89% della popolazione cinese sia totalmente vaccinata, questa politica non verrà presumibilmente mai abbondonata, perché si è compreso che, essendo versatile, può essere usata per altri scopi, come il caso della protesta alle banche. È forse lo strumento che il PCC necessitava per completare la sua gigantesca macchina di sorveglianza: non basta più vedere attraverso le telecamere e i droni dove si dirigono le persone, ora il governo vuole essere anche capace di poter bloccare loro anche l’accesso verso questi luoghi. Anche questa volta, uno strumento mirato al benessere collettivo e allo specifico campo medico è stato condizionato, assumendo i tipici connotati del socialismo con caratteristiche cinesi.


6. Conclusioni


La marcia verso lo zero-Covid è ancora lunga e probabilmente non avrà mai fine.


Individuare un nemico invisibile e ostile a tutta la popolazione permette di far muovere il governo con più autoritas e leggerezza di quanto potrebbe in tempi normali.


La parabola del Covid in Cina è stata rocambolesca. Pechino è partita con l’essere un esempio da seguire in quanto baluardo contro il virus per poi terminare con un lockdown al limite del “civile” e l’uso discriminato di un mezzo governativo. Tuttavia, quest’ultimo fattore non concerne solamente la sfera domestica, ma anche quella internazionale. Recentemente, i capi del FBI e MI5 hanno affermato che la Cina rappresenta “la più grande minaccia a lungo termine per la nostra sicurezza economica e nazionale” in quanto interferisce in maniera voluminosa nelle politiche degli altri Paesi, sotto forma anche di spionaggio industriale. Ciò significa che la macchina della sorveglianza cinese si estende oltre i confini del proprio Paese e che cerca di trovare luogo specialmente negli Stati in via di sviluppo nei quali vi sono importanti investimenti.


È per questa ragione che la lunga marcia verso lo zero-Covid non è finita, ha solo cambiato faccia.


Il Covid è stato solo la ratio per cui si sono creati questi strumenti governativi altamente sorveglianti e la pandemia è stata la necessità per cui sono stati applicati alla vita delle persone.


Inoltre, pochi giorni fa, Reuters ha affermato che è stata identificata una nuova variante di Omicron a Shanghai. Ciò inquieta i cittadini per un possibile nuovo lockdown, se si considera che il “rischio del dilagarsi del virus attraverso la società è molto alto”, come ha sostenuto il commissario della salute Zhao. In inverno, si vedranno sicuramente nuovi risvolti in questo campo: pertanto, a fine anno, la comunità internazionale riuscirà a comprendere se la politica zero-Covid sia stato un fallimento totale o sia solo un pretesto per le consuete politiche governative con caratteristiche cinesi.


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Bibliografia

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