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Le Tigri e il Dragone: Taiwan e Hong Kong nella loro sfida per la sopravvivenza contro Pechino

Aggiornamento: 14 nov 2020

(a cura di Francesco Di Paola)

Nella sfida tra il dragone e l’aquila si odono, chiari e assordanti, i ruggiti delle tigri. No, non è l’incipit suggestivo di un romanzo di Salgari, celeberrimo autore delle Tigri della Malesia, ma una metafora di quello che oggi appare il panorama geopolitico dell’Asia Pacifico. Il dragone, manco a dirlo, è la Cina mentre l’aquila è l’animale simbolo del governo federale degli Stati Uniti d’America che vede ormai nel drago cinese il suo principale rivale nella competizione per la leadership globale. La domanda del lettore a questo punto sorge spontanea, chi sono le tigri? Le tigri in questo caso sono due “entità” (chiamarli paesi o nazioni sarebbe quanto mai problematico) geograficamente molto vicine a Pechino ma che culturalmente si stanno dimostrando, mai come negli ultimi tempi, estremamente diverse e distanti e decisamente più affini al modello occidentale. Stiamo parlando dell’ex colonia di Hong Kong e della “provincia ribelle” di Taiwan. Facenti parte di quel novero di paesi orientali chiamate con l’appellativo di “tigri asiatiche” nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, con particolare riferimento alla loro straordinaria crescita economica. Oggi come non mai dimostrano di essere delle vere e proprie tigri in senso puramente politico.


Una tigre è pur sempre una tigre.

Non importa quanto minuscola essa possa essere nei confronti del drago, una tigre è pur sempre una tigre. Se braccata o messa alle strette essa reagirà con tutta la furia e la forza che la natura le ha donato, in una disperata quanto eroica battaglia per la sopravvivenza. Allo stesso modo oggi Taipei e Hong Kong affrontano Pechino sul terreno della geopolitica, ricercando alleati ad occidente, cercando appoggio e protezione sotto le grandi ali dell’aquila americana. In questo contesto, la pandemia scatenata dal Coronavirus si inserisce in un quadro già deteriorato negli ultimi mesi al fronte dei già numerosi tentativi da parte Pechino di riportare all’ordine le due entità territoriali.

È il caso di Taiwan, dove la pandemia scoppiata a gennaio ha progressivamente inasprito le già difficili e complesse relazioni tra Pechino e Taipei. A gennaio inoltre le elezioni presidenziali hanno di fatto riconfermato la presidente uscente Tsai Ing-wen alla guida del paese, da sempre fautrice dell’allontanamento da Pechino. La schiacciante vittoria di Tsai ha addirittura costretto il partito rivale, il Kuomintang, che invece durante le elezioni è stato portatore di idee più accomodanti e vicine alla Cina, a riconsiderare il rapporto con il dragone. Gli scontri e le manifestazioni andate in scena lo scorso anno ad Hong Kong infatti sono state percepite oltre lo stretto come un campanello d’allarme, segnale evidente che il modello “un paese, due sistemi” che Pechino promuove per attirare a sé Taipei, è in realtà un canto della sirena estremamente pericoloso.

In questo contesto si inserisce il Covid-19 appunto. Durante la crisi infatti Taiwan è progressivamente emersa come alternativa democratica alla Cina. Bullizzata ed estromessa all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per volere del drago, la tigre taiwanese ce l’ha fatta da sola e, smacco ancor più grave, lo ha fatto senza fare affidamento sulle notizie che arrivavano dal continente. Profondamente colpita nel 2003 dalla SARS a causa della mancanza di trasparenza delle informazioni che arrivano dalla Cina, Taipei ha da allora investito molto nella creazione di infrastrutture adeguate e di efficienti modelli di risposta. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ed oggi la piccola e combattiva Taiwan è un modello di contenimento del virus efficiente e democratico. Se ciò di per sé non bastasse, Taipei si è resa ancor più protagonista sulla scena internazionale facendo attivamente attività di lobby contro Pechino. Desiderosa, a suo dire, di condividere la sua esperienza con la comunità internazionale, Taipei ha cercato l’appoggio esterno per poter così partecipare all’ultima assemblea dell’OMS tenutasi lo scorso 18 maggio, respinta anche questa per volere di Pechino.

La tensione scaturita dallo scontro diplomatico e dalla contro narrativa taiwanese ha profondamente inasprito la dirigenza cinese, segando un solco ancor più profondo tra le due sponde dello stretto. Taiwan, che negli ultimi anni ha visto il suo riconoscimento internazionale assottigliarsi sempre di più. Solo una manciata di paesi infatti oggigiorno riconosco l’isola e la Cina sta costantemente cercando di erodere questo esile basamento spingendo questi paesi ad abbandonare Taipei in favore di più proficue relazioni con Pechino. Gli ultimi ad abbandonare diplomaticamente l’isola sono stati i due stati insulari del Pacifico delle Isole Salomone e Kiribati. Tuttavia, il successo taiwanese nel contenimento della malattia ha riportato l’isola alla ribalta mediatica e come modello alternativo a quello repressivo e autoritario di stampo cinese. Un affronto che Pechino non può tollerare al fronte di rinato spirito combattivo di questa tigre che sembrava ormai destinata ad un lento e costante isolamento diplomatico.


Hong Kong, novella Costantinopoli

E arriviamo in fine ad Hong Kong. La città ribelle, fiera della sua identità e status privilegiato si erge combattiva ed eroica di fronte al titano cinese. Una novella Costantinopoli appunto, richiamando alla memoria di colui che è affascinato dalla storia, il parallelismo con quel bastione greco-bizantino che fino alla fine resistette alle pressioni dell’allora in ascesa impero ottomano. Ma per questa piccola (ancor più piccola di Taiwan) e combattiva tigre ci auguriamo un destino migliore.

I guai recenti per il Porto Profumato (significato dei caratteri cinesi che formano il nome della città, 香港) sono iniziati lo scorso 22 maggio, durante l’ultima Assemblea Nazionale del Popolo del Partito Comunista Cinese che di solito si tiene a Marzo ma che è stata posticipata di due mesi data la pandemia del virus SARS-Covid 2. Durante l’Assemblea infatti, è stata approvata una nuova risoluzione che consentirebbe a Pechino di approvare una nuova legge sulla sicurezza. Come riporta il South China Morning Post, la legge consentirebbe a Pechino di legiferare contro le interferenze straniere e di prevenire e punire severamente tutti quegli atti che il partito considera come tradimento, sedizione, secessione o di sovversione. La risoluzione inoltre permetterebbe a Pechino di creare nuove agenzie ad hoc che vigilerebbero sull’implementazione della nuova legge qualora fosse necessario.


L’articolo 23 della Basic Law, la mini-costituzione dell’isola, stabilisce che il governo di Hong Kong emani una sua legge sulla sicurezza nazionale proibendo ogni crimine contro il governo centrale di Pechino come quelli sopracitati. Il governo dell’isola ci aveva già provato nel 2003 ma, anche quella volta, le proteste scaturite avevano bloccato il tutto. Questa volta Pechino prova a forzare la mano e sfruttando l’articolo 18 per bypassare il governo di Hong Kong. L’articolo 18 infatti stabilisce che, per ciò che concerne la difesa o la politica estera, il Comitato Centrale del Congresso Nazionale del Popolo, in qualità di organo legislativo della Cina, ha il potere di aggiungere o eliminare leggi nazionali dalla lista dell’Annex III previa consultazione con il Comitato Centrale per la Basic Law della regione speciale di Hong Kong (SAR).

La risoluzione è stata a approvata lo scorso 28 maggio. Da qui in poi la palla passa al Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo il quale potrebbe presentare una bozza di legge già in pochi giorni. Tuttavia, saranno necessari ulteriori mesi prima che la legge entri in vigore ma già dalle prime battute è chiaro a tutti che il cambiamento a cui Hong Kong andrà in contro sarà epocale, di fatto secondo alcuni sancendo la fine del cosiddetto “un paese, due sistemi.” Molti commentatori in queste ore si sono spinti a definire la legge come la campana a morto per la città e il suo status privilegiato. Inoltre, già nelle ore successive alla pubblicazione della notizia migliaia di giovani manifestanti si sono riversati nelle strade per manifestare contro la decisione dell’Assemblea Nazionale, dando così nuovo slancio alle proteste viste lo scorso anno e interrotte solo con l’esplosione della pandemia. Lo scorso 4 giugno infatti, anniversario dei tragici eventi di Tienanmen, come ogni anno i manifestati si sono radunati a Victoria Peak, dove hanno dimostrato pacificamente nonostante il divieto imposto dalle autorità, fatto mai accaduto prima d’ora.

Ma non sono solo i giovani manifestanti di Hong Kong, preoccupati per lo status democratico della loro isola, anche l’establishment finanziario è seriamente preoccupato. Da sempre hub internazionale per il flusso di capitali, Hong Kong ospita numerose banche di investimento, edge founds e altri importantissimi investitori finanziari. Appresa la notizia, la paura ha subito investito i mercati, preoccupati del fatto che lo status finanziario e i privilegi di cui gode l’isola abbiano ormai le ore contante. Preoccupazioni accentuante dalle minacce del Segretario di Stato americano Mike Pompeo prima e rinvigorite dal presidente Donald Trump poi, di sospendere i privilegi di cui il porto profumato gode dal 1992 grazie all’Hong Kong Policy Act che consente al governo federale di trattare la città come entità separata dal resto del territorio cinese. La sospensione a tempo indefinito del Hong Kong Policy Act metterebbe di fatto fine allo status privilegiato che la città gode e la renderebbe automaticamente soggetta allo stesso tipo di restrizioni e dazi sui prodotti a cui tutta la Cina è stata e continua ad essere soggetta a causa della guerra commerciale con gli USA. Tra le altre tipologie di ritorsioni, Trump ha paventato anche l’utilizzo di sanzioni mirate contro quegli individui che direttamente o indirettamente si renderebbero responsabili della stretta su Hong Kong.

Vi è anche il rovescio della medaglia però. Imporre dazi e restrizioni commerciali alla città significherebbe anche danneggiare quelle stesse aziende e istituzioni finanziarie statunitensi che hanno fatto di Hong Kong la loro sede. In qualità di anello di congiunzione tra la Cina e il resto del mondo, Hong Kong è stata sempre la porta di accesso al mercato cinese per le aziende occidentali. In passato ciò ha creato benefici per tutti permettendo così di distribuire a ciascuno una propria fetta della torta. Mentre le grandi aziende estere avevano accesso all’immenso mercato cinese, Pechino si servita di Hong Kong come finestra sul mondo e come hub finanziario. Tuttavia, dal 1997, anno del ritorno alla Cina della città, il ruolo di Hong Kong all’interno del sistema finanziario ed economico cinese e andato man mano ad erodersi. Soffrendo la concorrenza di Shanghai come nuovo centro finanziario del paese e quella di Shenzhen come hub tecnologico e manifatturiero oggi Hong Kong è responsabile per circa il 3% del pil del dragone, mentre nel 1997 era di circa il 18%.


I possibili scenari futuri

Tirando le somme, cosa potremmo aspettarci nei prossimi mesi? Come al solito una domanda di non facile risposta. Le tensioni geopolitiche che si estendono aldilà dello stretto di Taiwan e che investono Taipei e Hong Kong non sono casi isolati. Ulteriori tensioni si registrano in questi giorni nel Mar Cinese Meridionale e lungo il confine sino-indiano, segno evidente che mai come ora Pechino sia sulla difensiva e si percepisca aggredita non solo dagli USA ma da un mondo che ormai ha scelto di credere che la Cina sia l’unica responsabile della pandemia in corso. L’aggressività statunitense, e le richieste sempre più impellenti da parte della comunità internazionale per un’indagine indipendente sulle cause che hanno scatenato la pandemia stanno spingendo Pechino a trincerarsi in posizione difensiva e allo stesso tempo a contrattaccare con aggressività sempre maggiore. È un gioco pericoloso. Soprattutto per chi è costretto dalla geografia a subire direttamente l’ira del drago.

Come ha sottolineato il professor David Zweig, direttore del Center for China’s Transnational Relations dell’Università di Hong Kong, mai come ora potrebbe essere indispensabile una “exit strategy” per quelle aziende che hanno ad Hong Kong una loro sede. “Se siete gli amministratori delegati di una azienda americana con sede ad Hong Kong o anche quelli di una cinese e non avete una strategia d’uscita dall’isola allora dovreste essere licenziati” ha affermato molto schiettamente Zweig. Bisognerà attendere ancora un po' per capire quale sarà l’impatto reale della nuova legge. Il governo di Pechino tenta di rassicurare il settore finanziario affermando che la legge andrà a colpire solo un ristretto numero di individui e che non c’è da temere per il business ma le minacce di sospendere lo status economico privilegiato che arrivano da Washington fanno presagire tempi ben più bui per l’isola. Alcuni segnali già cominciano a manifestarsi. La banca di investimento giapponese Nomura per esempio sembra intenzionata ad abbandonare il porto profumato per salpare verso lidi più stabili e tranquilli, mete di approdo palpabili sembrano essere Shanghai o Singapore. Solo il tempo potrà dirci se quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è davvero l’atto finale di Hong Kong, ma in generale possiamo dire che difficilmente continuerà ad essere business as usual.

Per quanto riguarda Taiwan invece è probabile che assisteremo a nuovi scontri e rotture nei prossimi mesi. Il virus ha inasprito le divisioni culturali tra le due Cine e un riavvicinamento, anche parziale, è alquanto improbabile. Le recenti minacce del generale Li Zuocheng potrebbero far temere addirittura per un’escalation militare nella regione ma tale scenario viene considerato altamente improbabile dai più. Pechino è ben consapevole della lunga ala dell’aquila americana che si allunga sull’isola e in questa fase di indebolimento economico non è di certo disposta a rischiare lo scontro.

Inoltre, le relazioni con gli USA sono ai minimi storici. Tenendo conto delle imminenti elezioni statunitensi le prospettive sono tutt’altro che rosee. Viene ormai dato per scontato che il tema Cina avrà un enorme impatto nel dibattito elettorale man mano che ci si avvicina alla data di novembre. In previsione di ciò è lecito aspettarsi ulteriori escalation in quelle aree che sono ormai percepite come i principali punti di faglia tra Washington e Pechino. Occhi sulla regione pertanto poiché nello scontro geopolitico tra l’aquila e il drago si udiranno chiari e distinti i ruggiti delle tigri.


Bibliografia

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2. T. Cheung and K. Chung, Two Sessions 2020: new law will “prevent, frustrate and punish” acts in Hong Kong that threaten national security, top official says, South China Morning Post, 22 May 2020

3. J. Lam and K. Chung, What does Beijing’s new national security law for Hong Kong cover, and who should worry?, South China Morning Post, 22 May 2020

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5. T. Cheung and K. Chung, Two Sessions 2020: National People’s Congress approves resolution to impose security law on Hong Kong, South China Morning Post, 28 May 2020

6. Tiananmen vigil as it happened: thousands of Hongkongers defy ban to mark anniversary of June 4 crackdown, South China Morning Post, 4 June 2020

7. M. Magnier, Hong Kong is no longer autonomous from China, US determines, as Mike Pompeo makes certification that may mean sanctions, South China Morning Post, 27 May 2020

8. O. Churchill, Donald Trump says US to end Hong Kong trade privileges as ‘it is no longer autonomous from China’ after new security law introduced by Beijing, South China Morning Post, 30 May 2020

9. N. Sin, How important is Hong Kong to the rest of China, Reuters, 5 Sept 2019

10. S. Zheng, US-China tensions expected to escalate further after Donald Trump promises action over Hong Kong, South China Morning Post, 30 May 2020

11. THE LEX COLUMN: Nomura’s Hong Kong move reflects wider concern, Business Live, 7 June 2020

12. M. Chan, Chinese general says Beijing will “resolutely smash” any separatist moves by Taiwan, South China Morning Post, South China Morning Post, 30 May 2020

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