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La Nigeria di Boko Haram, un orrore dimenticato


Ormai qualche anno fa, aveva suscitato grande indignazione e risonanza mediatica internazionale il rapimento delle 276 giovani nigeriane ad opera del gruppo terroristico di sedicente matrice islamica Boko Haram, cadendo poi gradualmente nel dimenticatoio, come spesso accade per le vicende che sono troppo lontane (materialmente e psicologicamente) dalla vita quotidiana. Eppure, Boko Haram non ha mai smesso di fare paura, continua la sua opera di lotta armata nel nord della Nigeria, con il pretesto di voler combattere i costumi e le ‘infiltrazioni’ occidentali nel Paese e continua a mietere vittime a dei ritmi allarmanti: il 20 agosto 2018 un attacco terroristico nello stato del Borno ha riportato un bilancio di diverse decine di morti (le stime non sono ancora certe ma variano da 19 a 63 vittime), mentre il 31 ottobre altre 12 persone sono morte in attacchi multipli ad opera di Boko Haram nelle periferie di Maiduguri. E a ben vedere, ci si accorge che il rapimento delle studentesse di Chibok è solo l’apice di un terrificante iceberg che ha radici ed entità molto più profonde di quello che si potrebbe immaginare, come mostra anche il rapporto adottato dall’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), in cui emerge un preoccupante quadro di povertà e bisogni umanitari, di cui spesso l’azione di Boko Haram costituisce una delle cause principali, anche oggi.


Nigeria: terra di povertà su enormi risorse

La Nigeria, uno stato sostanzialmente povero, ricchissimo di risorse e idrocarburi è, dal punto di vista governativo, diviso in una serie di entità autonome (36 Stati) e costituisce uno Stato federale. Ciascuna entità ha una sua amministrazione locale con un grado di autonomia più o meno ampio. Strettamente collegata alla situazione politica è, poi, l’architettura religiosa. Sotto questo profilo, infatti, si è realizzata una singolare situazione, tale per cui il Paese è essenzialmente spaccato in due, non solo idealmente, ma anche geograficamente (come mostra la cartina, dell’Atlante Geopolitico Treccani, 2015): al sud, vive una maggioranza di cristiani (che ammonta a circa il 55% della popolazione), mentre a nord, area peraltro molto più povera del sud, vive il restante 45% della popolazione che professa invece la religione islamica.

Come spesso capita nei Paesi che si trovano a sperimentare fenomeni terroristici, è proprio nelle zone più povere del nord nigeriano che Boko Haram ha trovato terreno fertile per proliferare. Infatti, nonostante una crescita economica piuttosto significativa negli ultimi anni, che ha portato la Nigeria a diventare una delle economie più forti dell’Africa centrale, tale crescita si è rivelata piuttosto impari, aumentando il divario tra le diverse fasce della popolazione e, conseguentemente, il risentimento tra i più poveri che, in Boko Haram, hanno visto un’alternativa all’abbandono da parte delle istituzioni e all’endemica povertà.

Tra gli Stati che hanno sperimentato fenomeni di questo tipo vi è proprio il Borno, regione situata nell’area nordorientale della Nigeria, e che è divenuta tristemente nota per essere la ‘patria’ in cui Boko Haram è nato e si è sviluppato. La popolazione di questo stato, tra i più poveri della Nigeria, ha pagato il prezzo maggiore, e ancora oggi vive in una situazione umanitaria molto fragile, che rischia di sfociare in una vera e propria tragedia, sia in termini umanitari, sia in termini sanitari.

Ma portare aiuto e soccorso non è facile e le preoccupazioni per la sicurezza degli operatori sono molteplici. Boko Haram non risparmia nessuno, neppure chi lavora per migliorare la salute delle persone, come ci ricorda la drammatica vicenda di Hauwa Mohammed Liman, che lavorava in un ospedale gestito dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, ed è stata brutalmente uccisa il 16 ottobre, dopo alcuni mesi di prigionia. Ancora oggi, Boko Haram non è stato affatto sconfitto e, anzi, uccide senza pietà.


Le origini e l’ascesa

Era il 2002, quando Mohamed Yusuf fondò l’organizzazione Boko Haram, nota anche come Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihad, un gruppo di matrice islamica, che gradualmente ha ‘guadagnato’ un’accezione terroristica e che, almeno inizialmente, si proponeva di lottare contro i costumi occidentali. Il suo significato letterale, infatti, è “l’educazione occidentale è peccato”. È grazie al sostegno economico che, in modo occulto, perviene dal richiamato stato del Borno e dallo stato di Kano (un’altra area in cui ancora oggi regna una situazione di violenza generalizzata) che Yusuf riusciva a fondare la sua madrasa, una scuola islamica per apprendere il Corano e, così facendo, diffondere le proprie idee tra la popolazione. La richiamata povertà del nord e il risentimento verso il sud giocava in questo caso un ruolo cruciale: Yusuf identificava nella corruzione delle élite più ricche degli stati del sud la testimonianza delle infiltrazioni occidentali e dei danni che queste creavano specialmente nei confronti della popolazione del nord. Tuttavia, nei primi anni, l’azione di Boko Haram viene minimizzata: il gruppo non è bene armato, non pare strutturato né organizzato per compiere operazioni di ampia portata e agisce specialmente contro leader locali e caserme.

📷Il 2009 è l’anno della repressione e della repentina insurrezione, che mostra il lato più temibile di Boko Haram, la violenza indiscriminata, diretta a donne e bambini senza alcuna distinzione anzi, questi ultimi usati come scudi oppure ordigni umani. Inoltre, la distruzione delle scuole e gli attacchi diretti agli insegnanti mostrano un chiaro tentativo di spargere il terrore, indirizzando la violenza verso coloro che sono percepite come testimoni e diffusori dell’apostasia occidentale. L’episodio che scatena la spirale di una violenza che non si è ancora del tutto spenta è l’uccisione in carcere del fondatore Yusuf, che si rivela essere un vero e proprio momento di svolta nel gruppo e che fa seguito a una repressione piuttosto ampia del gruppo da parte delle forze governative. In breve, tuttavia, il gruppo si riorganizza e in pochi mesi torna a fare ancora più paura di prima, questa volta perché agisce in modo sempre più indiscriminato. Esso, peraltro, può anche contare sul crescente supporto di un altro gruppo. Infatti, proprio negli stessi anni che seguono l’insurrezione di Boko Haram, anche un altro attore sta ottenendo sempre maggiore risonanza internazionale, e la connessione tra i due gruppi interviene a rendere ancora più complessa la lettura delle carte in tavola. Nello stesso periodo, in un’altra area del pianeta, neppure troppo lontana dalla Nigeria, si sta sviluppando quello che sarebbe poi divenuto nel 2014 il c.d. Stato Islamico, che ha tutti gli interessi a finanziare lo sviluppo di Boko Haram in Nigeria (e la sua diffusione nei territori circostanti), per vantare un hub del terrore anche in quest’area del continente africano.

E se, quindi, i terroristi di Boko Haram fino a quel momento erano sostanzialmente male armati, il cambiamento di questi mesi è evidente: crescono le forniture di armi, fino a rendere Boko Haram uno dei gruppi più temuti e sanguinari di tutto il continente. Del sedicente Stato Islamico, delle sue origini e della sua pericolosità attuale abbiamo parlato, sempre in questa rubrica, in un post che potete rileggere qui.

La violenza di Boko Haram è talmente grave e persistente che l’allora presidente nigeriano, Goodluck Jonathan (in carica dal 2010 al 2015) è costretto a dichiarare lo stato d’emergenza negli stati maggiormente colpiti dall’attività del gruppo, il Borno, Yobe e Adamawa. La conseguenza materiale della dichiarazione dello stato d’emergenza è una diffusione dell’esercito su tutto il territorio coinvolto, ma questo non è abbastanza per fermare la violenza. Non è sufficiente infatti schierare l’esercito dove la risoluzione di un problema deve fare i conti con cause molto più profonde e radicate di una sollevazione di minore entità. Quasi a drammatica testimonianza del sostanziale fallimento della politica governativa, è proprio nel 2014 che si realizza il gravissimo episodio del rapimento delle giovani studentesse di Chibok, che sono sequestrate dai miliziani armati mentre si recano a scuola. Sullo sfondo della foto scattata alle studentesse è chiaramente visibile una bandiera, che testimonia la affiliazione tra Boko Haram e lo Stato Islamico.

A partire dal 2015, infatti, Boko Haram adotta ufficialmente come propria la bandiera utilizzata anche dal Califfato. Il gruppo afferma la propria affiliazione ufficiale allo Stato Islamico nel marzo 2015 e il comunicato è seguito da una risposta di al-Baghdadi che annuncia la diffusione dello Stato Islamico fino all’Africa occidentale e di aver accettato l’affiliazione da parte di Boko Haram.

Tra il 2015 e il 2018, il gruppo continua a spargere il terrore nella regione. Diversi sono i rapimenti che si verificano in questi anni, mentre il Governo, anche forte del supporto fornito da alcuni Stati occidentali (tra cui Stati Uniti, Cina e Israele) inizia una controffensiva più capillare, facendo liberare tra il 2016 e il 2017 alcune delle ragazze rapite a Chibok e procedendo all’arresto e alla condanna di sospetti membri del gruppo. In diverse dichiarazioni, il Ministro della Giustizia annuncia l’arresto di decine di sospettati e l’erogazione di numerose condanne a pene detentive, erogate anche in tempi relativamente brevi.

Ma le violenze non si arginano tant’è che continuano le notizie di attentati periodicamente compiuti specialmente nel Borno. E questo a dispetto delle dichiarazioni del nuovo Presidente Muhammadu Buhari che, sin dalla fine del 2015 ha affermato più volte che Boko Haram era stato sconfitto dall’esercito governativo. L’ultima dichiarazione è avvenuta nel gennaio 2018, quando il Presidente, pur ammettendo che si verificano talora alcuni attacchi isolati, ha ribadito che Boko Haram è tecnicamente sconfitto. Eppure, la situazione sembra ben lungi dall’essere quella che ha descritto Buhari.


La situazione attuale e i ‘risvolti internazionali’

Giunta ormai al suo decimo anno, la crisi in Nigeria non pare affatto essere sul punto di risolversi. La situazione negli stati più a nord continua a essere molto instabile. Gli attentati si susseguono a ritmi molto elevati, mietendo costantemente vittime tra i civili e aggravando una situazione umanitaria che riesce ad essere solo in parte fronteggiata. Come mostra il già richiamato rapporto di OCHA, pubblicato a ottobre 2018, le persone che hanno bisogno di protezione, a vario titolo (tutela sanitaria, igienica, alimentare e altre necessità primarie) sono circa 6 milioni. Ma i dati riportati sono anche più gravi: il report evidenzia che dall’avvio del conflitto oltre 27.000 persone sono state uccise, quasi due milioni di persone sono sfollate all’interno del Paese, migliaia di donne e ragazze sono state rapite e centinaia di bambini sono stati utilizzati come ordigni umani. E i numeri più recenti sono altrettanto preoccupanti, raggiungendo addirittura circa 150 bambini (tra cui anche bambine) sfruttati per compiere attentati terroristici nel solo 2017. Inoltre, i problemi che questo fenomeno ha causato e, sebbene nel sostanziale silenzio internazionale, continua a causare, valicano ampiamente i confini dello Stato nigeriano: una delle conseguenze forse più rilevanti a livello internazionale, è l’impatto che Boko Haram ha sui flussi migratori. Tale impatto si verifica in primo luogo sui Paesi vicini. L’area in cui Boko Haram è particolarmente attivo, infatti, ossia lo Stato del Borno, è anche uno Stato di confine, che si affaccia su altrettanto fragili Stati (il Camerun, il Ciad e il Niger), in cui la situazione migratoria è sempre in fluida evoluzione. È naturale dunque che i primi Paesi che maggiormente risentano dei flussi di profughi che cercano di sfuggire alla violenza di Boko Haram siano gli Stati più prossimi a queste persone, che cercano così di trovare la salvezza varcando il confine, quando non è possibile trovarla nei confini statali. Ma la situazione ha conseguenze ben più ampie. Non si tratta infatti soltanto di una migrazione di breve periodo, in cui le vittime di Boko Haram fuggono, attraversano il confine e cercano rifugio negli Stati circostanti. Si tratta di un fenomeno di ben più ampia portata, in cui le vittime sono portate a fuggire per cercare di stabilirsi per periodi più lunghi altrove, spinte dalle feroci violenze di un gruppo che è ormai attivo da oltre 15 anni. Ed è in questi casi che il ruolo di Boko Haram come fattore di spinta delle migrazioni (push factor) diviene particolarmente evidente.

Basti pensare che i nigeriani sono stati una delle prime nazionalità per numero di sbarchi sulle coste italiane sia nel 2016 (circa 36.000 persone), sia nel 2017 (circa 18.000 arrivi). Un flusso ingente, ma tutto sommato non sorprendente, a cui peraltro è necessario sommare le cifre non conosciute relative alle tante persone che, nel corso del viaggio, si sono fermate in uno degli altri Stati di transito (Niger o il Ciad) prima raggiungere la Libia oppure che sono trattenute proprio in Libia.

Eppure, in Nigeria non c’è la guerra, dicono in molti. Sì, forse non c’è un conflitto interno né un conflitto internazionale: però c’è Boko Haram che forse è anche peggio.


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