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La de-radicalizzazione

Aggiornamento: 4 set 2021

1. Introduzione


Il termine “de-radicalizzazione” indica tutti quegli interventi che mirano a distogliere il soggetto da un’ideologia / azione violenta, accostandosi nella lotta al terrorismo alle cosiddette hard measures (come le operazioni militari e di polizia). Si tratta di un processo complesso che deve partire necessariamente dalla conoscenza della persona e del suo ambiente familiare e sociale, con lo scopo di comprendere i fattori di stimolo e attrattivi che abbiano attivato il percorso di radicalizzazione, nonché quelli protettivi che possano favorirne la chiave di uscita. Consiste in un approccio globale in quanto finalizzato alla cura dell’individuo nel suo insieme e non alla sola radicalizzazione, attraverso l’utilizzo di tutti gli strumenti psico-educativi che si possano ritenere utili.[i]


Nell’ambito del radicalismo islamista, la de-radicalizzazione rappresenta un concetto a impulso istituzionale; nel 2016, conseguentemente al verificarsi di molteplici attentati a carico di appartenenti all’ISIS, il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU esortò gli Stati membri a istituire centri di riabilitazione e strategie di reintegrazione per i foreign fighters di ritorno, accogliendo un approccio onnicomprensivo che includesse lo sviluppo di centri nazionali per l’assistenza e la de-radicalizzazione[ii], richiamando inoltre quanto già attuato in Arabia Saudita[iii].


Il contrasto alla radicalizzazione appare, oggi più che mai, un tema centrale in quanto, come sostenuto dall’esperto svedese di radicalizzazione Magnus Ranstorp: “COVID19 and extremism are the perfect storm[iv]. L’isolamento e la maggiore esposizione all’ecosistema virtuale hanno infatti aperto nuove opportunità di proselitismo e reclutamento a gruppi estremisti[v].


2. Il disengagement


Il termine “de-radicalizzazione” viene da tempo accostato anche al concetto di “disengagement, ossia quel processo fisico e psicologico attraverso il quale il terrorista cessa di compiere azioni violente (disengagement fisico) e cambia opinioni e convincimenti sul suo aderire alle idee e azioni del gruppo di appartenenza (disengagement psicologico). Questo approccio ha origine dal Ciclo IED di John Horgan[vi] il quale, nello studio del processo di radicalizzazione, sostiene la maggiore utilità e pertinenza di un’analisi positivista basata sul comportamento osservabile, cioè “di quello che le persone coinvolte nel terrorismo fanno veramente, anziché di come sono”. La teoria di Horgan deriva da una carenza di studi approfonditi sulle motivazioni e i comportamenti che portano gli adepti ad abbandonare il terrorismo, nonché dalla constatazione che, a differenza dei gruppi terroristici di natura rivoluzionaria (come le Brigate Rosse in Italia), i gruppi etno-nazionalisti sono più resistenti al tempo e adattabili politicamente.[vii]


3. Le trappole psicologiche


Per un soggetto radicalizzato non è facile disimpegnarsi dal gruppo, si tratta infatti di un processo psicologico certamente non indolore. Nel momento in cui nel terrorista comincia ad insinuarsi il dubbio dell’abbandono si innescano una serie di “trappole psicologiche”, causate dal fatto che il soggetto, attraverso l’involvement e l’engagement, sviluppa un’identità dipendente dal gruppo[viii]. La perdita del consenso e del sostegno del gruppo funge quindi da deterrente, l’abbandono del gruppo non comporta sic et simpliciter il ritorno alla vita precedente perché, nel frattempo, molti legami possono essere stati distrutti, ovvero perché è necessario salvaguardarsi dalle ritorsioni del gruppo.

Le fasi precedenti al disengagement possono inoltre aver inciso profondamente nel soggetto a livello psicologico determinando, una volta uscito, stati depressivi e/o il ricorso all’abuso di sostanze. Gli esiti del disengagement e la possibilità di ritorno alla normalità dipendono quindi da molti fattori, di ordine sia interno che esterno all’individuo, motivo per il quale lo sviluppo di programmi di assistenza in questa fase può risultare determinante a favorire la risocializzazione.[ix]


4. L’esperienza europea


Da oltre un decennio, vari Paesi dell’Europa investono importanti risorse nella realizzazione di programmi di de-radicalizzazione. Regno Unito, Olanda e Danimarca sono stati i pionieri in materia ma, anche grazie all’impulso della Commissione Europea, la maggior parte degli Stati Europei oggi ha adottato delle politiche di contro-radicalizzazione.


Alcune misure intraprese sono di carattere preventivo e generale, ad esempio attività rivolte all’intera comunità islamica, includendo incontri interculturali, corsi di integrazione [x]e altre iniziative volte a diminuire le tensioni sociali[xi]. Tali programmi di “ingegneria sociale”, pur considerati utili da un punto di vista dell’integrazione, non sono quelli che riscontrano il maggior favore tra gli esperti di antiterrorismo. Riscontrano invece maggiore entusiasmo i programmi mirati a specifici individui già radicalizzati, siano essi soggetti che presentano “indizi di radicalizzazione” ovvero individui che hanno subito condanne per terrorismo – alcuni di questi programmi hanno difatti luogo nelle carceri. Nonostante iniziative di questo tipo siano spesso parte di una strategia nazionale, vi sono alcuni tratti comuni quale, ad esempio, la formazione di un’unità specializzata a livello locale, che include generalmente esperti di radicalizzazione, psicologi, assistenti sociali e, in alcuni casi, ex militanti[xii]. Il primo compito di un’unità specializzata è quello di creare contatti con qualsiasi soggetto che nella propria giurisdizione possa entrare in contatto con elementi radicalizzati (presidi e insegnanti nelle scuole, Imam, assistenti sociali, vigili di quartiere, ecc.)[xiii].


5. Il modello dell’Arabia Saudita


Uno dei programmi di de-radicalizzazione più studiati e completi al mondo è quello proposto dall’Arabia Saudita, che vede il suo fulcro nel Mohammad Bin Naif Counseling and Care Center di Riyadh. Tale organizzazione, secondo la definizione ufficiale, consiste in un “istituto di correzione che si occupa di riabilitazione intellettuale attraverso una metodologia scientifica specializzata basata sulle leggi islamiche e principi umanitari”[xiv]. La struttura è dotata di un consiglio superiore presieduto dal Ministro dell’Interno e di comitati consultivi indipendenti di natura scientifica, oltre che di un centro studi e ricerche interno il quale ha tra i suoi compiti quello di valutare i programmi della struttura. I “beneficiari” del programma sono tutti soggetti che hanno già scontato la pena in carcere.


Dal punto di vista operativo, il Bin Naif Center opera su tre piani successivi: (i) Fase di counseling, si fonda su colloqui individuali e di gruppo con personale esperto al fine di confutare le errate convinzioni e correggere la devianza culturale, basandosi sul concetto chiave della “moderazione”[xv]; (ii) Fase di riabilitazione, ha lo scopo sviluppare conoscenze e abilità nei beneficiari; (iii) Fase di cura, mira alla reintegrazione e all’adattamento/adeguamento sociale.


Il programma sociale non si occupa solamente dei problemi personali che riguardano la figura del beneficiario, ma coinvolge anche i suoi rapporti interpersonali, sia i familiari più intimi che altri soggetti con i quali entrerà in contatto una volta lasciato il centro.[xvi]

6. Prospettive future


Alcuni recenti studi hanno evidenziato come mediante un approccio multi-agenzia attraverso l’Area Penale Esterna[xvii] vi sia l’opportunità unica di lavorare con i giovani radicalizzati in un ambiente di comunità che supporti la reintegrazione sociale e la responsabilizzazione dell’individuo, attingendo al potere delle relazioni umane attraverso reti di comunità, famiglie, amici, mentori (formatori), oltre che alla collaborazione congiunta di funzionari di area penale esterna e professionisti che lavorano in prima linea. Questo tipo di proposta si basa sulla considerazione che la prigione rappresenta, talvolta, uno spazio favorevole alla diffusione dell’estremismo violento, mostrando così la scarsa efficacia della mera pena detentiva per fini rieducativi. Tra le principali figure che intervengono nei programmi multi-agenzia si trovano: il case manager, ossia il responsabile del trattamento e del piano di reintegrazione, egli garantisce la qualità degli interventi integrati e la coerenza delle azioni dei diversi enti durante il processo di reintegrazione; il mentore, il quale svolge le funzioni di figura di collegamento tra i giovani, la loro comunità, le forze dell’ordine e la comunità giudiziaria (soprattutto nel caso in cui i giovani appartengano a minoranze che faticano a riconoscere l’autorità del sistema giudiziario che ha in carico il loro processo)[xviii]; le famiglie, considerate parte attiva nel programma; le comunità di riferimento e le associazioni tra immigrati quali, ad esempio, le comunità islamiche moderate – che ad oggi svolgono ancora un ruolo ancora troppo marginale nei sistemi di prevenzione e giustizia.[xix]


7. Il ruolo delle vittime


È importante ricordare che, nella maggior parte dei casi, il contesto di reinserimento del responsabile è lo stesso luogo dove si trovano le vittime dei crimini da lui perpetrati. Nei crimini legati al terrorismo la vittimizzazione secondaria[xx] e terziaria[xxi] si estende a gran parte della comunità, generando un clima di paura sociale e ansia, oltre che un naturale rifiuto nei confronti dell’aggressore.[xxii]


È essenziale aiutare le vittime a trasformare le loro perdite e sofferenze in una forza costruttiva necessaria alla prevenzione dell’estremismo violento, fornendo forum e spazi in cui condividere quanto vissuto. La testimonianza delle vittime potrebbe dimostrarsi quindi uno strumento utile per la de-radicalizzazione, presentando le conseguenze dell’estremismo. Le loro esperienze avrebbero così l’effetto di generare un prestigio decrescente nella vita dei sedicenti combattenti, evidenziando l’aspetto più inaccettabile che la narrativa violenta cerca di nascondere. I sopravvissuti, rappresentando le conseguenze degli atti estremisti violenti, contribuirebbero pertanto a negare lo status di eroi attribuito dalla retorica estremista.

Nel sistema penale italiano, il processo minorile contiene, rispetto a quello ordinario, maggiori spazi per interventi di mediazione e di conciliazione tra autore e vittima del reato. Un esempio è rappresentato dalla possibilità, in occasione dell’udienza preliminare, dell’applicazione di una sanzione sostitutiva tra le cui prescrizioni può prevedersi la riconciliazione con la vittima[xxiii]. Questi provvedimenti rientrano in una logica di restorative justice, modello volto alla ricomposizione della lacerazione delle relazioni sociali prodotte dal reato, piuttosto che all’inflizione di una punizione[xxiv].


8. Il caso di Trieste


Un caso di concreta ed efficace applicazione di un programma di de-radicalizzazione nell’ambito del processo penale minorile è stato riscontrato a Trieste. Si è trattato di un percorso individuale personalizzato rivolto ad un minorenne indagato per proselitismo e sostegno all’ISIS[xxv], con una particolarità che ne ha favorito il tempestivo intervento: l’avvio già nella fase delle indagini preliminari.

L’autore del reato è un italiano allora quindicenne, figlio di immigrati musulmani, che frequentava regolarmente la scuola e si recava di rado in moschea. Il profilo denotava una conoscenza solo superficiale e distorta della religione islamica. Secondo il consulente tecnico del Pubblico Ministero, il ragazzo si trovava in posizione in cui l’adesione al movimento jihadista avrebbe potuto sopperire ad una crisi identitaria[xxvi].


Il minorenne, dopo aver ammesso le condotte denunciate, grazie anche alla collaborazione dei genitori, ha acconsentito all’immediato avvio del progetto. Sotto il coordinamento dell’Ussm[xxvii], è stato “scollegato” da internet al fine di distoglierlo dall’intensa propaganda dell’ISIS a cui era sottoposto e assegnato ad attività di volontariato, con lo scopo di riattivare in lui delle emozioni anestetizzate dall’isolamento sociale. All’Udienza Preliminare, su richiesta dell’imputato e con il parere favorevole del PM, il giudice ha incaricato l’Ussm di elaborare un progetto per lo svolgimento della “messa alla prova[xxviii]. Il progetto, in seguito alla nomina di un’équipe peritale composta da uno psicoterapeuta e un mentore musulmano esperto in processi di reclutamento, è stato predisposto con tre obiettivi: 1) descrivere la personalità e le condizioni psicologiche e culturali dell’indagato; 2) individuare le cause e il livello di adesione all’ideologia estremista[xxix]; 3) realizzare un programma di rivisitazione da attuare nell’immediato.[xxx]

9. Conclusioni


I vantaggi di investire nella redazione di protocolli di prevenzione e di de-radicalizzazione, condivisi a livello nazionale, potrebbero essere molteplici. Anzitutto, i costi di simili interventi sono molto più contenuti dei costi che lo Stato dovrebbe sostenere per investigazioni (comunque in parte necessarie per il monitoraggio dei beneficiari dei programmi), iter giudiziari e detenzioni prolungate. Questo tipo di azioni consentirebbe inoltre di recuperare soprattutto soggetti la cui radicalizzazione può essere imputata a errori e falsi miti di gioventù, evitando che ciò si tramuti, col tempo, in tragiche e irrevocabili scelte di vita.

Una tematica molto delicata appare invece la scelta delle comunità musulmane a cui fare riferimento, senza le quali i programmi di de-radicalizzazione avrebbero scarse possibilità di successo.


Non sembra vi sia ragione di credere, considerata la dimestichezza degli adolescenti nell’uso di strumenti informatici e il periodo di isolamento sociale causato dall’emergenza Covid-19, che il coinvolgimento di minorenni nella propaganda terroristica, come nel caso di Trieste trattato, si limiti ad accadimenti isolati.

Risulta quindi importante poter attivare con urgenza, fin dalle prime fasi del procedimento penale, dei percorsi di uscita e avere la possibilità di adeguare gli interventi allo specifico caso individuale, strutturandoli in percorsi educativi personalizzati, anche se basati su principi comuni.


Nonostante programmi come quello saudita siano, di fatto, difficilmente applicabili tout court in Europa, gli stessi possono rappresentare un modello di partenza da studiare e da utilizzare per costruire un’azione comune da adattarsi alla realtà occidentale, favorendo specialmente lo sviluppo degli interventi in area penale esterna.


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La De-Radicalizzazione - Raffaele Lorenz
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Note

[i] C. CAPARESI, L. TAMBORINI, Una metodologia innovativa per la deradicalizzazione nel processo penale minorile – l’esperienza di Trieste, Gnosis 1/2019 – Rivista italiana di intelligence, 2019, p. 163. [ii] L. VIDINO, Deradicalization in the Mediterranean: Comparing Challenges and Approaches, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 2018, p. 141. [iii]Si veda infra il paragrafo n. 5: “Il modello dell’Arabia Saudita”. [iv] P. CRUICKSHANK, D. RASSLER, A view from the CT Foxhole: A Virtual Roundtable on COVID-19 and Counterterrorism, CTC Sentinel, Vol. 13, 2020, p. 3. [v] Uno studio pubblicato nel 2020 da F. PETTINARI, Radicalizzazione jihadista: il tempo di attivazione dei radicalizzati, in #ReaCT2020, n. 1, Anno 1, Edizioni START InSight, Lugano, p. 23, indica come il tempo di attivazione dei jihadisti si riduca notevolmente quando il processo di radicalizzazione ha luogo online piuttosto che attraverso contatti personali. [vi] J. HORGAN delinea tre fasi distinte e successive che contraddistinguono il processo di radicalizzazione, lo IED: 1) l’involvement o fase del coinvolgimento; 2) l’engagement o fase dell’impegno effettivo; 3) il disengagement o fase del disimpegno e della rinuncia. [vii] J. HORGAN, Psicologia del terrorismo, ed. Edra, Milano, 2015, pp. 66-67. [viii] Per un approfondimento sul tema del “gruppo” e della “pseudospeciazione” si rimanda all’analisi dell’autore: Profili criminologici e vittimologia del terrorismo, AMIStaDeS – Fai Amicizia con il Sapere, par. 5-6 (https://www.amistades.info/post/profili-criminologici-e-vittimologia-del-terrorismo). [ix] E. MEI, Terrorismo – Antropo-fenomenologia, profili criminologici e giuridici, Società Editrice Universo, Roma, 2019, p. 140. [x]Si tratta di interventi e programmi diretti a prevenire fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista, nonché a favorire la deradicalizzazione e il recupero in termini di integrazione sociale, culturale e lavorativa dei soggetti coinvolti. Particolare attenzione viene posta all’ambito scolastico, attraverso piani che mirano al dialogo interculturale e interreligioso, volti alla diffusione della cultura del pluralismo nonché all’integrazione degli alunni stranieri, al fine di individuare soluzioni operative e organizzative per un effettivo adeguamento delle politiche di integrazione alle esigenze di una scuola multiculturale. In Italia, nel corso della XVII legislatura la Camera dei Deputati è giunta all'approvazione di una proposta di legge finalizzata all'introduzione di una serie di misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista, la quale prevede l'istituzione del Centro nazionale sulla radicalizzazione (CRAD) presso il Dipartimento delle libertà civili e dell'immigrazione del Ministero dell'interno, che elabori annualmente il piano strategico nazionale di prevenzione dei processi di radicalizzazione e di adesione all'estremismo violento di matrice jihadista e di recupero dei soggetti coinvolti nei fenomeni di radicalizzazione. Si rimanda per maggiori approfondimenti alla Proposta di legge DAMBRUOSO ed altri: "Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista" (3558). [xi] L. VIDINO, J. BRANDON, Countering Radicalization in Europe Countering Europe, International Centre for the, the Study of Radicalization, Kingʼs College, London 2012. [xii] Ad Amsterdam è stata creata un’apposita “Information House” all’interno della municipalità, in Danimarca invece questo tipo di attività si appoggia spesso a una struttura preesistente chiamata SSP (Social services, School, Police). [xiii] L. VIDINO, Nuove misure di deradicalizzazione in Italia, OASIS, 2017, p. 3 ss. [xiv] Decreto Regio emanato nel 2014 da Re Abdullah sul contrasto al terrorismo. [xv] Per molti decenni, una rigida interpretazione dell’Islam secondo il credo wahhabita ha favorito, in alcuni casi, la diffusione di idee estremiste che hanno portato anche alla formazione di una comunità jihadista all’interno del Regno. [xvi] F. CONTI, La deradicalizzazione in Arabia Saudita: il Mohammed Bin Naif Counselling an Care Center, Europa Atlantica, 2020, pp. 6-8; L. VIDINO, Op. Cit., p. 3. [xvii] Le misure in area penale esterna sono stabilite da decisioni giudiziali e possono consistere: nell’osservazione di alcune regole di condotta; come ad esempio nell’obbligo a partecipare a programmi di riabilitazione (sottoponendosi ad alcol test e test antidroga); nella restrizione di determinati diritti (sorveglianza elettronica, residenza forzata); nel lavoro con le famiglie dei trasgressori; nella riparazione dei danni; nell’aiuto alle vittime. [xviii] La figura del mentore può essere ricoperta anche da ex-terroristi delusi dalle organizzazioni terroristiche. Essi hanno una maggiore credibilità di altri quando si tratta di demistificare le storie jihadiste e interrompere il processo di radicalizzazione. La voce dei disertori erode e sfida l’immagine di unità e determinazione che le organizzazioni terroristiche desiderano trasmettere, oltre a mettere in evidenza le loro contraddizioni e ipocrisie. La motivazione degli ex-terroristi deve essere valutata attentamente. [xix] European Project MATES, Strategie coordinate per il Disengagement in area penale esterna, Multy Agency Training Exit Strategies for Radicalized Youth, European Commission - Directorate General Migration and Home Affairs, pp. 7, 10, 16, 39. [xx] M. CORREA, D. RIPONTI, La vittima nel sistema italiano della giustizia penale - un approccio criminologico, Cedam, Padova, 1990: Molto spesso si assiste a una seconda vittimizzazione o “rivittimizzazione” ai danni della vittima che, intraprendendo l’iter giudiziario, può trovarsi di fronte a dei meccanismi, quelli della giustizia penale, che possono apparire talvolta incomprensibili e ostili. [xxi] Si verifica quando l’autore rimane ignoto oppure viene assolto, come risulta da: https://www.osservatorioviolenza.org/la-vittimizzazione-nella-violenza. [xxii] European Project MATES, Op. Cit., p. 63. [xxiii] Un esplicito riferimento alla mediazione con la parte offesa, in una prospettiva di reale attenzione vittimologica e non solo con finalità psico-pedagogiche, con duplice aspetto riparatorio e conciliativo, viene fatto all’art. 28, comma 2 del DPR 448/1988 sulla “messa alla prova del minore imputato”. [xxiv] P. MARTUCCI, D. RIPONTI, Nuove pagine di criminologia, Milano, Cedam, 2017, p. 113-116. [xxv] Il procedimento è stato iscritto presso il Tribunale per i minorenni di Trieste nei confronti di B.A. per il reato previsto dall’art. 414, ultimo comma c.p. che punisce la pubblica istigazione a delinquere, doppiamente aggravata poiché “relativa a delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità” e compiuta “attraverso strumenti informatici o telematici”. Il processo è scaturito dalla segnalazione da parte degli organi centrali di polizia di un soggetto che, agendo in qualità di amministratore di gruppi di e canali creati sull’applicazione di messagistica Telegram, diffondeva e traduceva materiali di propaganda dell’Isis. Il denunciato aveva anche offerto aiuto a un iscritto che aveva manifestato l’intenzione di unirsi al Jihad, linkando un video contenente istruzioni per costruire un ordigno e interessandosi su come si potesse superare un controllo al metal detector nascondendo la cintura esplosiva. Da settembre 2018 il Servizio Sociale del Territorio ha attivato interventi educativi individualizzati settimanali. L’adolescente è stato seguito da uno psicologo e psicoterapeuta presso il consultorio familiare e nel mese di giugno del 2020 il procedimento penale si è chiuso con sentenza di non luogo a procedere, per estinzione del reato all’esito della messa alla prova. [xxvi] La crisi identitaria sarebbe stata determinata dal rifiuto del paese d’origine, percepito come distante e corrotto, nonché dalla mancata integrazione nel paese d’accoglienza. Per un approfondimento sul tema della “devianza” si rimanda all’analisi dell’autore: Profili criminologici e vittimologia del terrorismo, AMIStaDeS – Fai Amicizia con il Sapere, par. 4 (https://www.amistades.info/post/profili-criminologici-e-vittimologia-del-terrorismo). [xxvii] Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni, il cui compito istituzionale è l’assistenza dei minorenni sottoposti a procedimento penale. [xxviii] Ai sensi dell’art. 28, comma 2 del DPR 448/1988. [xxix] Per comprendere le cause e il livello di adesione all’ideologia jihadista sono state organizzate delle giornate full immersion con un former, ossia una persona che ha fatto parte di un gruppo estremista violento e poi ne è uscito, ricevendo una preparazione accademica per svolgere tale lavoro. [xxx] C. CAPARESI, L. TAMBORINI, Op. Cit., p. 165-166.


Bibliografia


  • C. CAPARESI, L. TAMBORINI, Una metodologia innovativa per la deradicalizzazione nel processo penale minorile – l’esperienza di Trieste, Gnosis 1/2019 – Rivista italiana di intelligence, 2019.

  • Decreto Regio emanato nel 2014 da Re Abdullah sul contrasto al terrorismo.

  • E. MEI, Terrorismo – Antropo-fenomenologia, profili criminologici e giuridici, Società Editrice Universo, Roma, 2019.

  • European Project MATES, Strategie coordinate per il Disengagement in area penale esterna, Multy Agency Training Exit Strategies for Radicalized Youth, European Commission - Directorate General Migration and Home Affairs.

  • F. CONTI, La deradicalizzazione in Arabia Saudita: il Mohammed Bin Naif Counselling an Care Center, Europa Atlantica, 2020.

  • F. PETTINARI, Radicalizzazione jihadista: il tempo di attivazione dei radicalizzati, in #ReaCT2020, n. 1, Anno 1, Edizioni START InSight, Lugano.

  • J. HORGAN, Psicologia del terrorismo, ed. Edra, Milano, 2015.

  • L. VIDINO, Deradicalization in the Mediterranean: Comparing Challenges and Approaches, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 2018.

  • L. VIDINO, J. BRANDON, Countering Radicalization in Europe Countering Europe, International Centre for the, the Study of Radicalization, Kingʼs College, London 2012.

  • L. VIDINO, Nuove misure di deradicalizzazione in Italia, OASIS, 2017.

  • M. CORREA, D. RIPONTI, La vittima nel sistema italiano della giustizia penale - un approccio criminologico, Cedam, Padova, 1990.

  • P. CRUICKSHANK, D. RASSLER, A view from the CT Foxhole: A Virtual Roundtable on COVID-19 and Counterterrorism, CTC Sentinel, Vol. 13, 2020.

  • P. MARTUCCI, D. RIPONTI, Nuove pagine di criminologia, Milano, Cedam, 2017.

Sitografia


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