Il Kimberley Process, uno strumento in difesa del commercio dei diamanti
Aggiornamento: 27 dic 2021

1. L’accordo di certificazione
Il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS), nato nel 2003, aveva allora e ha oggi l’intento di eliminare la presenza di diamanti di conflitto nella catena di produzione, esportazione e importazione di queste materie prime allo stato grezzo nei Paesi che vi hanno aderito. Il termine "diamanti di conflitto" è definito dalle Nazioni Unite come: "diamanti grezzi che sono usati dai movimenti ribelli per finanziare le loro attività militari, compresi i tentativi di minare o rovesciare governi legittimi".
Nel 1999, i termini conflict diamond e blood diamond sono entrati nel linguaggio comune e hanno cambiato la percezione diffusa nell’opinione pubblica internazionale sull'industria dei diamanti. Per eliminare sul nascere la possibilità di boicottaggi da parte dei consumatori, questa è stata persuasa dalle organizzazioni non governative nel divenire proattiva riguardo ai diamanti di conflitto e, a metà del 2000, ha presentato proposte per un regime sistematico di certificazione dei diamanti e ha espresso il suo sostegno alle differenti legislazioni nazionali per bloccare l'esportazione di diamanti dalle zone di conflitto.
Seguendo l'esempio delle organizzazioni non governative e dell'industria dei diamanti, i governi nazionali hanno iniziato a pensare a come poter intervenire per porre un limite al commercio dei diamanti finalizzato al finanziamento dei conflitti. Più di trenta governi hanno partecipato al processo negoziale inter-nazionale di certificazione dei diamanti noto come "Kimberley Process" che ha concluso i suoi negoziati in preparazione del suo rapporto finale nel novembre 2001.
Il Ministro dei Minerali e dell'Energia del Sudafrica pose le basi di quello che è diventato noto come il Processo di Kimberley quando divenne chiaro che la pubblicità sui diamanti di conflitto avrebbe potuto danneggiare l'industria diamantifera del Sudafrica. I lavori preparatori per quello che si sarebbe costituito poi come Kimberley process iniziarono da un gruppo di funzionari governativi dei Paesi che producono, lavorano e importano diamanti e che lanciarono ufficialmente il progetto in un incontro a Kimberley, Sud Africa, nel maggio 2000. Il gruppo, presieduto proprio dal Sudafrica, concordò allora, una bozza per un programma internazionale di certificazione per i diamanti grezzi.
Dopo una serie di incontri preparatori successivi, nel 2000, l'Assemblea generale dell'ONU ordinò a questa task force di sviluppare una proposta dettagliata per un sistema di certificazione internazionale per i diamanti grezzi, conosciuti più in generale come “controlli grezzi”, nella risoluzione 55/56 dell'Assemblea Generale del 1 dicembre 2000, sponsorizzata da quarantotto stati e adottata universalmente. La risoluzione affermava che lo schema di certificazione internazionale dovrebbe essere trasparente e basarsi principalmente su schemi di certificazione nazionali che soddisfino gli standard minimi concordati a livello internazionale. L'adozione della risoluzione segnò l'inizio del processo Kimberley "allargato", quando altri Stati si unirono alla task force iniziale.
2. Conflitti e materie prime
Alla fine degli anni '90, l'uso dei diamanti come mezzo di finanziamento dei movimenti ribelli in alcuni Paesi, soprattutto africani, come l’Angola e la Sierra Leone, catturò l'attenzione degli analisti dei conflitti e dei media. Con la fine della guerra fredda e quindi con la fine di quello che era stato fino ad allora il classico supporto militare ed economico dei due blocchi contrapposti, sovietico e statunitense, sempre più gruppi belligeranti iniziarono a poter contare in modo quasi esclusivo sulle entrate dal commercio delle materie prime del proprio Paese, come il legname, il petrolio, i narcotici o appunto, i minerali preziosi.
La maggior parte dei diamanti del mondo sono estratti in Australia, Botswana, Canada, Namibia, Russia e Sudafrica. Coloro che lavorano per arginare il commercio di diamanti di conflitto, si concentrano su quella parte del commercio di diamanti controllata dai movimenti ribelli in Sierra Leone, Angola e Repubblica Democratica del Congo.

La studiosa e autrice Ingrid J. Tamm spiega come le guerre civili siano più spesso alimentate da gruppi ribelli che competono con i governi nazionali per il controllo di preziosi beni primari, piuttosto che per motivazioni legate a differenze ideologiche, etniche o religiose. I diamanti sono considerati infatti, un "bene primario" e una delle forme di ricchezza più concentrate e sono facilmente contrabbandati e commerciati dai ribelli. Il ruolo dei movimenti ribelli nel loro commercio è parte integrante della definizione di diamanti di conflitto, in modo particolare proprio in Sierra Leone, Angola e Repubblica Democratica del Congo.
Numerose compagnie di estrazione e lavorazione dei diamanti, come la De Beers Mining Company, fondata nel 1880, tra le più influenti nel mondo, hanno tratto profitto dai cosiddetti “diamanti insanguinati”, inizialmente evitando e deridendo i tentativi di limitarne il commercio. Secondo Kofi Annan, ex Segretario ONU dal 1997 al 2006, persino le forze di pace delle Nazioni Unite, attive in alcuni Paesi dell’Africa soprattutto durante le crisi dei primi anni Novanta, non erano immuni a quella da egli definita "miscela velenosa" di diamanti e avidità che alimentano queste guerre.
Tuttavia, l'industria dei diamanti è fondamentale per molte economie nazionali dei Paesi che detengono queste materia prime e, anche per questo, la comunità internazionale sentì l’esigenza di arrivare all’ideazione e quindi realizzazione di un meccanismo di securitizzazione del commercio dei diamanti, in parte ottenuto attraverso il Kimberley Process. In Botswana, Namibia e Sudafrica ad esempio, le miniere di diamanti portano ricchezza e non instabilità alle loro popolazioni. In Botswana, dallo sviluppo su larga scala dell'industria dei diamanti negli anni '70, il Paese ha raggiunto una crescita economica record - nel 1999 era una delle economie in più rapida crescita del mondo, con una crescita reale del PIL del 9% all'anno. In questo Paese, diamanti forniscono tre quarti delle entrate delle esportazioni e un terzo del PIL.
Allo stesso modo, l'industria diamantifera della Namibia risale all'inizio del ventesimo secolo e i diamanti oggi rappresentano il 40% delle entrate delle esportazioni del Paese.
3. Il funzionamento del Kimberley Process Certification Scheme (KPCS)
Il KPCS è stato implementato nel 2002 attraverso la Dichiarazione di Interlaken e i partecipanti hanno iniziato a seguire il KPCS nel 2003.
Dal 2021, sono 56 i "Partecipanti" al KPCS, che rappresentano 82 Paesi, con l'Unione Europea presente come attore unico. Circa il 99,8% delle esportazioni mondiali di diamanti grezzi provengono dai membri del Kimberley Process. I "richiedenti" sono candidati all'adesione che si sono impegnati ad aderire al KPCS, ma non soddisfano ancora i requisiti per diventare membri. L'adesione al Kimberley Process non è limitata agli attori statali. Questo strumento si basa infatti sulla collaborazione di quelli che vengono definiti “tre pilastri”: i governi, le industrie e la società civile. Sono presenti infatti, anche gruppi indicati come "osservatori", che forniscono assistenza e competenza nel monitoraggio dell'efficacia del KPCS. Ogni anno, vengono selezionati un nuovo presidente e un vicepresidente. Nel 2021, la Russia ricopre la presidenza, mentre il Botswana la vicepresidenza.
L'adesione al Kimberley Process è volontaria, tuttavia i Paesi che scelgono di aderire devono soddisfare e mantenere alcuni requisiti minimi. Il KPCS funziona sulla base di tre richieste per le nazioni partecipanti. In primo luogo, i Paesi devono emanare una legislazione che preveda che tutti i diamanti spediti verso o da quel Paese siano certificati secondo il KPCS. In secondo luogo, la nazione partecipante deve impegnarsi ufficialmente a sostenere gli obiettivi del KPCS. Infine, il Paese partecipante deve accettare di incontrarsi annualmente con gli altri partecipanti per monitorare i progressi del KPCS. A livello pratico e operativo, non è richiesto un meccanismo di applicazione standardizzato e questa è lasciata dunque, alla discrezione di ogni nazione partecipante. Il KPCS lascia inoltre, le nazioni partecipanti indipendenti nell’emanare qualsiasi legislazione ritengano necessaria per l'applicazione del sistema. Il documento centrale fa una serie di "raccomandazioni", ma la natura volontaria è la base dell’intero modello.
Secondo il KPCS, ogni spedizione di diamanti deve essere accompagnata da un certificato ufficiale del processo di Kimberley. Il certificato può essere redatto in qualsiasi lingua, purché sia presente anche una traduzione in inglese, deve essere resistente alla manomissione e alla falsificazione. Il certificato deve riportare questa dichiarazione: "I diamanti grezzi di questa spedizione sono stati trattati in conformità con le disposizioni del Kimberley Process Certification Scheme per i diamanti grezzi". Le informazioni minime aggiuntive richieste sono il Paese d'origine, la numerazione con il codice Paese Alpha-2 (il sistema di indicazione internazionale che riporta due lettere, da qui Alpha-2, del nome del Paese, noto come codice ISO 3166-1. Ad esempio BW per il Botswana), le date di rilascio e di scadenza, l'autorità di rilascio, l'identificazione sia dell'importatore, sia dell'esportatore, il peso in carati, il valore della spedizione in dollari USA, il numero di colli nella spedizione e una convalida del certificato da parte dell'autorità di esportazione.

4. Pro e contro dell’accordo
Sia i sostenitori del Kimberley Process, sia i suoi critici, tendono a concordare sul fatto che esso sia stato un passo importante e nella giusta direzione. Negli anni Novanta, le vendite di diamanti che finanziavano conflitti rappresentavano il 15% del commercio mondiale di queste materie prime. Questo numero è sceso allo 0,4% nel 2009 a causa dell'implementazione del KPCS. C'è stata di pari passo poi, anche un'espansione del mercato legale dei diamanti in alcuni Paesi africani dopo l'implementazione del KPCS.
D’altro lato, un forte indizio del fallimento del KPCS è stato costituito dal ritiro di Global Witness dal Kimberley Process. Global Witness è un'organizzazione che si propone di effettuare cambiamenti strutturali in aree del mondo che soffrono di conflitti, corruzione o distruzione ambientale. In un comunicato stampa che annunciava l’uscita dell’organizzazione dall’accordo, il direttore fondatore Charmian Gooch indicò tre punti specifici in cui il KPCS ha fallito: in primo luogo non è riuscito a gestire il commercio di diamanti di conflitto in Costa d'Avorio; non ha intrapreso poi, alcuna azione seria quando il Venezuela ha violato palesemente e ripetutamente le sue stesse regole; e infine, il KPCS non è riuscito a fermare le violazioni dei diritti umani e le violente atrocità che si sono verificate in Zimbabwe, dove Global Witness era specificamente preoccupata per l’utilizzo dei fondi provenienti dal commercio dei diamanti Marange, utilizzati per intimidire e fare pressione sugli elettori nelle elezioni presidenziali del 2013.
In risposta a questa critica, Ernest Blom, della World Federation of Diamond Bourses, ha sostenuto che il KPCS ha avuto successo nel raggiungere il suo obiettivo di fermare la pratica di estrarre diamanti per finanziare le guerre. Le violazioni dei diritti umani come quelle che avvengono in Zimbabwe, sostiene, non rientrano nell'ambito di intervento dell'industria dei diamanti.
Oltre a Global Witness, anche molti autori hanno sottolineato i difetti del KPCS, uno dei quali è che, sebbene la partecipazione sia incoraggiata dalle Nazioni Unite, è interamente volontaria. Una spinta più forte da parte delle Nazioni Unite presumibilmente aumenterebbe l'adesione al KPCS, dandogli il potere di porre effettivamente fine al commercio globale di diamanti di sangue. Un'altra critica al KPCS, riguarda il suo sistema di monitoraggio: non essendo indipendente, diventa troppo facile per le nazioni partecipanti rinunciare alle proprie leggi che proibiscono il commercio di diamanti finanziatori di conflitti. Un qualche tipo di politica di applicazione uniforme assicurerebbe la conformità dei partecipanti. Oltre a implementare i propri schemi di applicazione, i Paesi partecipanti creano i propri provvedimenti per le violazioni dei requisiti e degli standard del KPCS: sanzioni uniformi potrebbero rendere il sistema KPCS più efficace.
In questo campo che vede fronteggiarsi favorevoli e contrari in modo abbastanza netto, è interessante l’opinione trasversale espressa in merito da Jeffrey Herbst, politologo statunitense, esperto di politica comparata.
Herbst invita infatti, a guardare con una lente più ampia alle cause profonde della guerra, oltre quelle che sono le sue conseguenze, in questo caso il commercio dei diamanti, quello delle armi, o che potrebbe essere quello dell’oppio se pensiamo, ad esempio, al contesto afghano.
Secondo Herbst, in Africa, la comunità internazionale deve intervenire in modo politico e, se necessario militare, per porre fine ai conflitti. La scelta di delegare a sanzioni economiche o ad accordi commerciali come il Kimberley Process è, a parer suo, una precisa deresponsabilizzazione da parte della comunità internazionale, basata su una chiara decisione di non voler risolvere le cause delle crisi e quindi delle guerre in alcuni Paesi africani.
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Bibliografia/Sitografia
Barbara Crossette, U.N. Chief Faults Reluctance of U.S. toHelp in Africa, The New York Times, 13 maggio 2000.
Audrie Howard, Blood Diamonds: The Successes and Failures of the Kimberley Process Certification Scheme in Angola, Sierra Leone and Zimbabwe, in Washington University Global Studies Law Review, vol. 15, n. 1, (2015).
Philippe Le Billon, Diamond Wars? Conflict Diamonds and Geographies of Resource Wars, in Annals of the Association of American Geographers, vol. 98, n. 2, pp. 345-372.
Tracey Michelle Price, The Kimberley Process: Conflict Diamonds, WTO Obligations, and the Universality Debate, in Minnesota Journal of International Law, n. 115, (2003).
Ingrid J. Tamm, Diamonds in peace and war: severing the conflict-diamond connection, Word Peace Foundation Program on Intrastate Conflict, Carr Center for human rights policy, Kennedy School of Government, Harvard University (USA: Cambridge, Massachusetts, 2002).