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Italiani dell’Argentina: come e perché siamo andati e siamo rimasti nella “terra argentea”

Aggiornamento: 1 nov 2020



Introduzione: un sogno sudamericano

Circa trenta milioni italiani hanno attraversato, tra Ottocento e Novecento, il mondo nella sua globalità[1]. Partivano “per cercare fortuna”, che all’epoca significava scappare dalla miseria, realizzare un progetto molto spesso di natura familiare. Alcuni si trasferivano nella vicina Europa, per non allontanarsi troppo dai luoghi e dalle vite che abitavano in patria. Questo succedeva molto prima dell’avvento della cosiddetta “generazione Erasmus”. Altri, invece, sceglievano il continente americano, da sempre terra mitica di opportunità e contraddizioni, le stesse che gli emigranti raccontavano nella corrispondenza inviata ai familiari rimasti oltreoceano.

Nel panorama continentale americano, in nessun posto gli italiani ci sono andati e ci sono rimasti come in Argentina. Non solo per i numeri, seppur importanti, che descrivono il fenomeno: si stima che nel periodo compreso tra il 1870 e il 1925, siano arrivati nella terra argentea[2] quasi 2.5 milioni di italiani, concentrati principalmente nelle zone litoranee di Buenos Aires, Santa Fe, sud di Cordoba e nella provincia di Entre Ríos. Per effetto di questo fenomeno, oggi l’Argentina è la nazione, fuori dall’Italia, con la maggiore presenza italiana. È anche una questione culturale e identitaria, perché l’Argentina è anche la nazione nella quale la cultura italiana si è maggiormente radicata, a tal punto che l’italianità ha dapprima messo in discussione l’identità nazionale argentina, per poi entrare a tutti gli effetti a far parte della argentinidad, dell’identificazione di ciò che è argentino.

1. La prospettiva italiana: le cause della partenza verso la “Merica”

La grande emigrazione ebbe inizio nel 1870, ed è strettamente legata ai processi di trasformazione che ebbero luogo nelle campagne italiane. I fattori scatenanti di questa ondata migratoria sono oggetto di un ampio dibattito storiografico. Ci si chiede se abbiano avuto un peso più rilevante i fattori interni od esterni, ovvero se si sia trattato di un processo di “espulsione” dall’Italia di masse che non riuscivano più a trovare le condizioni minime di sopravvivenza, od ancora ad un processo di attrazione da parte della “Merica”[3] su persone in cerca di migliori condizioni di vita. A prescindere dal dibattito sull’influenza dei push e dei pull factors, è indubbio che in quegli anni ci fu un netto peggioramento delle condizioni di vita della popolazione italiana, che sarebbero state ancor più gravi se la pressione demografica non avesse trovato sfogo nell’emigrazione. Certamente non si possono neppure escludere, tra le motivazioni che spingevano ad emigrare, la volontà di tentare la fortuna, spesso sull’esempio di compaesani, sia che l’avessero già trovata, sia che la immaginassero.

Nel 1901 fu emanata una legge organica in materia, e creato un Commissariato generale dell’emigrazione. Il fenomeno aumentò ancora tra il 1900 e il 1914, con una media annua di oltre 600.000 unità, con una punta di 873.000 nel 1913. Rilevante, nello stesso periodo, fu il numero dei rientri (150-200.000 all’anno), prevalentemente da Stati Uniti ed Argentina. Il periodo della guerra ridusse al minimo il movimento migratorio, che tuttavia riprese negli anni del dopoguerra su livelli ridotti (circa 200.000 fino al 1930, con una punta nel 1920 di 600.000), salvo poi diminuire su livelli inferiori alle 100.000 unità tra il 1930 e il 1940. Con il fascismo, si assistette ad una drastica riduzione, seguita da una prepotente emersione di quello che fu lo squilibrio interno tra popolazione e capacità produttiva. Nel periodo postbellico si ebbe un certo incremento, assorbendo il 30% degli espatri, ma ben più imponente fu la migrazione intraeuropea, che interessò circa 5.500.000 persone (soprattutto verso la Repubblica federale di Germania, la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna e la Svizzera). Nel corso dei 40 anni successivi al conflitto, si contarono 8.200.000 espatri (fino al picco del 1961 di 400.000 unità), diminuiti nei primi anni Settanta, in coincidenza della recessione che colpì i Paesi più industrializzati. Contemporaneamente, aumentarono i rientri che, infine, superarono le partenze durante gli anni 70 del secolo scorso, durante il quale il fenomeno praticamente cessò, e dal 1980 la tendenza si invertì drasticamente, ponendo il nostro paese di fronte al fenomeno opposto, quello immigratorio.


2. La prospettiva argentina: l’immigrazione è civilizzazione?

L’Argentina è la meno americana delle repubbliche sudamericane. Rivendica il suo essere europea da sempre, almeno da quando, in seguito all’indipendenza dalla corona spagnola (1810), gli intellettuali – Alberdi[4] e Sarmiento[5] su tutti – cercarono di definire le categorie identitarie della recentemente formata nazione.

Nella neonata repubblica Argentina, all’immigrazione era riconosciuto un ruolo salvifico e irrinunciabile nell’introduzione di nuove energie produttive nel Paese, ed un fattore in grado di contribuire al processo di acquisizione di una struttura politica e sociale di tipo europeo.

Fin dall’indipendenza, Buenos Aires, il luogo più vicino e meglio collegato al “vecchio continente”, era il prototipo di centro urbano deputato alla formazione del progresso e del modello – europeo – di civiltà a cui l’Argentina aspirava. Tuttavia, ricevette discreto apprezzamento anche il pensiero del giurista e politico argentino Miguel Cané (1851-1905), che inseriva la dicotomia civiltà/barbarie nel discorso sull’immigrazione. Se per tutto il secolo precedente questa dicotomia riguardava il confronto tra la civiltà degli immigrati con la presunta rozzezza degli indigeni e dei neri, nei primi anni del XX secolo passava a definire altri gruppi sociali in opposizione. In particolare, la barbarie era la categoria più adatta per definire gli immigrati di estrazione operaia e contadina; la civiltà, al contrario, era un beneficio che spettava solo alla nuova borghesia argentina[6].

In questo contesto politico-sociale, si verificò il primo flusso consistente di emigranti italiani diretti verso il Rio de la Plata, in un momento di costruzione della moderna Argentina, così come di altri Stati-nazione in America Latina[7].

L’alluvione migratoria degli italiani in Argentina, cominciata nel 1870, fu dunque il risultato di un preciso progetto politico che, pur con le già citate contraddizioni legate alla necessità di “selezionare gli immigrati”, fu implementato dal governo argentino e volto ad attirare immigrati dall’Europa. La strategia che riuscì ad attirare gli italiani consisteva nell’esercizio di una propaganda massiccia da parte di agenti dello Stato e nell’adozione di provvedimenti legislativi favorevoli all’arrivo degli emigranti. La Costituzione del 1853 affermava nel preambolo che la nazione si proponeva l’obiettivo di consolidare l’unità nazionale, rafforzare la giustizia e assicurare i benefici della libertà per tutti gli uomini del mondo che volessero abitare il suolo argentino[8]. Riconosceva, inoltre, i diritti civili a tutti gli stranieri[9]. Così, nel 1870, circa 800mila italiani risiedevano stabilmente in Argentina, su una popolazione complessiva di quasi 2 milioni di abitanti. Talvolta agli emigranti veniva offerta la copertura delle spese di viaggio. Più spesso, però, accadeva che dei personaggi inviati con il ruolo di intermediari girassero nelle osterie italiane, così come in quelle di altri paesi europei, per raccontare le meraviglie dell’America e convincere le persone a vendere tutto per pagare le traversate transoceaniche[10].


3. Italiani dell’Argentina

I viaggi della speranza degli emigranti italiani cominciavano da Genova che, insieme a Napoli e Palermo, era il principale porto di partenza. Non sorprende che il flusso avesse come protagonisti gli emigranti liguri, piemontesi e lombardi.

Inizialmente, i contadini italiani si dedicarono all’unica cosa che sapevano fare: lavorare la terra. Seminando cereali e coltivando ortaggi, ruppero la monotonia incolta della pampa. Non a caso, se in Argentina l’immigrazione italiana è una storia in gran parte di successo, lo si deve soprattutto alla necessità di manodopera fortemente richiesta dal settore agricolo, che si accompagnò progressivamente alla formazione di una borghesia urbana. Si creò, di fatto, un “proletariato urbanizzato”, dato che gli emigranti divennero sempre più presenti in tutti i gruppi socioprofessionali, dall’agricoltura all’industria, passando per il commercio, l’edilizia e i servizi. Per gli italiani, l’Argentina era una meta privilegiata per le possibilità che, nell’immaginario dei migranti, offriva. Per descrivere il proprio progetto di ascesa sociale, gli italiani dell’Argentina coniarono il motto “primo anno agricoltore, secondo affittuario, terzo proprietario”[11]. Il terzo censimento, risalente al 1914, fotografa una situazione in cui la nazionalità italiana è sempre la più numerosa, e presenta una “meridionalizzazione” del flusso, con circa il 40% degli arrivi provenienti dalle regioni del Sud. Questo riporta, inoltre, dati sulle associazioni di migranti, dove quelle italiane risultavano le più numerose e con il maggior numero di iscritti.

Anche se la politica argentina vedeva nell’immigrazione un fattore di crescita economica, i migranti si trovarono inevitabilmente immersi in un processo di partecipazione simultanea alla comunità di origine e a quella di arrivo. L’italianità in Argentina risulta difficile da definire, perché è riuscita a distribuirsi nel tempo in tutta la società inafferrabile e onnipresente[12]. Essa è, almeno in parte, visibile nelle Piccole Italie di Buenos Aires. I “quartieri italiani” sono nati per effetto delle catene migratorie, cioè della presenza di comunità italiane che facilitavano l’approdo di corregionali e la loro integrazione. La Boca è il barrio nel quale, probabilmente, l’impatto socioculturale degli italiani in Argentina è maggiormente percepibile. Nel 1887, metà degli abitanti del quartiere erano italiani e furono loro a fondare e gestire scuole, istituzioni culturali e assistenziali, società di mutuo soccorso, società di pompieri volontari, giornali, riviste e teatri. La Boca è anche un luogo che, nel tempo, si è trasformato da zona di approdo di prima necessità dei migranti – riconoscibile per le casupole policrome fatte di “chapa y madera” (latta ondulata e legno) – in quartiere bohémien alla moda e cittadella delle arti contemporanee. In parte rappresenta la parabola dei migranti che per primi lo hanno abitato. Benché la miseria sia ancora presente a La Boca, il quartiere è sicuramente iconico, dotato di un’identità forte e immediatamente riconoscibile.

Figura 2 Le tipiche abitazioni colorate del quartiere La Boca

Alcuni dati aggiornati possono aiutarci a capire come il fenomeno migratorio lasci tracce indelebili nelle società di accoglienza. Oggi, gli italiani residenti in America Latina, titolari di cittadinanza e di un passaporto italiani, sono 1.651.278 al 31 dicembre 2018[13]. Di questi, la gran parte è concentrata in Argentina (842.615 cittadini). Inoltre, su un totale di 4.304 iscrizioni AIRE[14], 1.285 (il 29,8%) di italo-discendenti dell’Argentina hanno ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana. Nella sola Argentina del 2018, nonostante la crisi economica e la svalutazione monetaria, l’Italia ha esportato prodotti per più di un miliardo di euro[15].

Conclusioni

Come ogni migrazione, anche quella degli italiani diretti in Argentina è una storia di relazione. La relazione degli emigranti con le comunità di origine – mantenuta con la corrispondenza, ma anche con il mantenimento delle ritualità, come le feste religiose, le celebrazioni familiari, i lutti – e quella con le comunità di arrivo, favorita nel caso dell’Argentina dalla “vicinanza” linguistica, dalla partecipazione alla vita economica e dall’assenza di particolari ostilità da parte della popolazione locale. È anche la storia delle relazioni politiche, economiche e culturali tra gli Stati di arrivo e di partenza.

Dalla prospettiva argentina, l’arrivo degli italiani ha avuto un peso rilevante nell’economia e nella società argentina. Anche se il caso dell’emigrazione italiana in Argentina è spesso descritto come una storia di successo, è un fatto che l’abbandono in massa delle campagne non fu certamente indolore. Da una prospettiva italiana, il calcolo della ricchezza che gli emigrati apportarono all’Italia, con le loro rimesse, non deve far dimenticare come fu difficile e faticoso, per la stragrande maggioranza, risparmiare e accumulare a sufficienza. Per questo, la ragione che appare spiegare meglio il fenomeno migratorio nostrano è stata quella che Edmondo De Amicis raccolse dalla voce di un emigrante: “Di peggio di come stavo non mi può capitare. Tutt’al più mi toccherà di far la fame laggiù come la pativo a casa”.

Come ogni migrazione, anche quella degli italiani diretti in Argentina, ci insegna che l’identità nazionale – l’idea collettiva di cosa sia la nazione, i miti e l’immaginario della nazione in cui ci si riconosce – non è fissa e immutabile. Se, come sostenne Benedict Anderson, le nazioni sono comunità immaginate, non è azzardato ritenere che tutte le componenti sociali – non solo quelle autoctone – possano contribuire a plasmare e a costruire l’immagine delle comunità di appartenenza. Anche se non esiste un’idea condivisa rispetto a quali siano i fattori che costituiscono il carattere di una nazione, non c’è dubbio che la definizione di nazione rimandi all’idea di un passato comune e alla memoria di quel passato che si tramanda nelle generazioni. Finché di questa nostra migrazione c’è memoria, sapremo che gli italiani in Argentina ci sono andati e ci sono rimasti e che, da allora, le nostre identità collettive sono cambiate per sempre.


[1] B. Maida, Quando partivamo noi, Edizioni del Capricorno, 2015, p.4. [2] Il nome è probabilmente dovuto alla collocazione geografia di Buenos Aires, sorta sulle sponde del Río de la Plata. [3] Così era solitamente definita la “nuova terra” dai migranti nostrani. [4] http://www.treccani.it/enciclopedia/juan-bautista-alberdi_(Enciclopedia-Italiana)/ [5] http://www.treccani.it/enciclopedia/faustino-domingo-sarmiento/ [6] F. Rotondo, Italiani d’Argentina. Dall’accoglienza alla “difesa sociale” (1853-1910), in Historia et ius, n. 12/2017, p. 39 [7] Non si esclude, comunque, una presenza italiana già all’inizio del secolo, quando alcuni italiani avrebbero partecipato al processo rivoluzionario. Tracce storiografiche esistono a riprova del fatto che a partire dal secondo decennio del XIX secolo sarebbero avvenuti dei contatti tra i liberali, i carbonari e, in seguito, i repubblicani mazziniani e l’élite intellettuale argentina. [8] Preámbulo, Constitución de la Confederación Argentina, 1 de mayo de 1853 [9] Si vedano gli articoli 14, 20 e 25 della sopracitata Costituzione [10] B. Maida, Quando partivamo noi, Edizioni del Capricorno, 2015, p. 53. [11] F. Lazzari, Migranti di ieri e di oggi, in “Quaderni del CSAL” Numero 3, Luglio 2010, p. 28. [12] V. Delma, Piccola Italia: en Palermo, un barrio que celebra la inmigración. [13] Dato AIRE al 31 dicembre 2018, in Annuario delle statistiche ufficiali del Ministero dell’Interno, Ufficio Centrale di Statistica (A c. d.), 31 dicembre 2019. [14] Anagrafe Italiani Residenti all’Estero [15] Osservatorio di Politica Internazionale, America Latina: nuove tendenze in atto, vecchia e nuova emigrazione italiana, marzo 2020, p.15


Sitografia

Bibliografia

Maida B., Quando partivamo noi, Edizioni del Capricorno, 2015

Lazzari L., Migranti di ieri e di oggi, in Quaderni del CSAL Numero 3, Luglio 2010

Rotondo F., Italiani d’Argentina. Dall’accoglienza alla “difesa sociale” (1853-1910), in “Historia et ius”, n. 12/2017

Osservatorio di Politica Internazionale, America Latina: nuove tendenze in atto, vecchia e nuova emigrazione italiana, marzo 2020

Dezzi Bardeschi M., Tanto Clément L., Iarossi P. M., D'Amia G., Laboratorio La Boca. Tracce d'Italia a Buenos Aires, Altralinea, Quaderni di Ananke, 2017.

Foti I., Pérsico J.C., Italia & Argentina, 10 Ensayos sobre la Relación Bilateral – Centro de Estudios Italianos – 1° ediciòn – La Plata, 2018

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