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Siria: i media hanno lavorato peggio dei missili e dei carri armati

Aggiornamento: 2 feb 2022

Intervista a Suor Yola Girges: “La Siria è impossibile che cadrà. La Siria è una Storia. […] Non vogliamo diventare come gli ebrei che sono stati vittime di atrocità e si sono chiusi, o come gli armeni che hanno subito i massacri e si sono chiusi. Noi vogliamo parlare di riconciliazione e perdono, per ritornare a convivere. […] Di fronte a tutte queste storie che ho visto e vissuto non si può stare zitti. Deve arrivare voce a tutto il mondo di quello che succede qui. Bisogna lavorare per la verità.”


(di Irene Piccolo)

Molto spesso mi è capitato di sentirmi dire che le voci di chi vive direttamente determinate esperienze, e in particolare le voci della società civile, sono quelle più fedeli alla realtà e anche le migliori per descrivere le sofferenze legate alla guerra. Tuttavia, più di una volta, mi sono ritrovata di fronte a chi considerava per attendibili solo le testimonianze dei c.d white helmets o le notizie riportate dall’Osservatorio per i diritti umani in Siria (con sede a Londra) e da Al Jazeera, solo perché tali fonti affermavano di riportare notizie provenienti dalla società civile.

C’è una conclusione cui sono giunta dopo molti anni di studio, non della questione siriana in sé, bensì dei conflitti – armati e non – internazionali (dove, in questo caso, internazionale è usato in senso atecnico, ossia non per indicare conflitti interstatali, giacché guardo anche ai conflitti interni a un singolo Stato, bensì per indicare tutto ciò che non è nazionale dal punto di vista dell’Italia).

Questa conclusione è che nessuno dice mai la verità, innanzitutto perché la verità è una cosa oggettiva, mentre la narrazione – anche del testimone più super partes che possa esistere – è comunque soggettivamente filtrata. Inoltre, non esistono il bene e il male in termini assoluti, per cui quando per partito preso ci si trova davanti alla classificazione “questi sono i buoni e questi sono i cattivi”, per me siamo lontani dalla verità più che mai. Accetto più facilmente la “classificazione” tra chi più volte si è comportato bene e chi più volte si è comportato male, ma in alcune situazioni alcuni attori sono stati vittime e in altre situazioni quegli stessi attori sono stati carnefici.

Le variabili sono tante e tali, i filtri psicologici, sociologici, storici, ecc. che andrebbero applicati e che spesso non applichiamo sono tanti e tali, che per essere il più vicino possibile alla verità bisognerebbe perlomeno avvicinarsi alle notizie sempre con il parametro del dubbio. E invece, più volte, ho dovuto notare con mio sommo rammarico che, appena sfornata una notizia, la si dà per certa. Come se noi fossimo stati lì, diretti spettatori della vicenda.

È con la consapevolezza che la verità non è mai solo una, e che soprattutto non è necessariamente quella raccontata dai media mainstream, che mi sono diretta a intervistare suor Yola Girges, superiora della Comunità di Damasco delle Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria.

Un nome e un volto che molto spesso, di recente, è stato visto sui social e su diverse testate, online e non. Suor Yola, difatti, dopo aver mantenuto per anni un composto silenzio, anche quando richiesta, ha infine deciso di iniziare a raccontare la sua esperienza e quella di chi le sta vicino nelle lunghe giornate di Damasco. Decisione maturata dopo aver percepito una sorta di ingiustizia in quello che è il racconto che i media occidentali fanno del conflitto siriano.

Suor Yola, difatti, pur essendo originaria della provincia di Idlib, ancorché nata a Damasco, parla molto bene l’italiano per cui la conversazione con lei è stata non solo piacevole, ma soprattutto ricca di tutte quelle sfumature che spesso il dover dialogare in un’altra lingua impedisce di esprimere o cogliere. Il caso poi ha voluto che mi trovassi a dialogare con lei proprio all’indomani del presunto attacco chimico nella Ghouta orientale del 7 aprile scorso. Questa intervista, difatti, è datata 8 aprile 2018.

Più che di intervistare, non essendo io una giornalista, mi sono occupata di raccogliere una testimonianza il più genuina possibile, evitando di filtrarla e farla arrivare a voi integra.


- In occasione della mia tesi di dottorato, ho avuto modo di studiare le disposizioni della Costituzione siriana, sia di quella precedente sia di quella del 2013, così come l’ordinamento giuridico interno. In entrambi, la tutela delle minoranze religiose è fortemente garantita, al punto da prevedere addirittura diverse giurisdizioni penali e civili – alternative a quelle laiche statali - per ciascuna religione. Un particolarismo giuridico che in Italia farebbe solo venire il mal di testa, mentre in Siria è il frutto naturale di secoli di convivenza pacifica tra diverse fedi. Quanto la guerra ha modificato la tutela di queste minoranze?

Sr. Yola: Innanzitutto, vorrei fare una precisazione. I cristiani in Siria non sono minoranze, sono cittadini radicati, originari della Siria. Mi riferisco a tutti quei siriani di riti orientali antichi, mentre apposita eccezione va fatta per gli armeni che sono da considerarsi minoranze, scappate da luoghi in cui erano perseguitati e accolti in Siria. Lo stesso presidente Assad, in un suo discorso non troppo lontano nel tempo, ha dichiarato a gran voce che “Senza i cristiani non c’è cultura in Siria”.

I cristiani sono sempre stati protetti, anche da Assad padre. Quando ero piccola, ciò che mi distingueva dalle mie amiche era solo l’orario delle celebrazioni liturgiche, ma nessuno chiedeva all’altro “tu sei cristiano? Tu sei musulmano? O simili”. C’è sempre stato massimo e reciproco rispetto. Quello che c’è in Siria può ben definirsi come un mosaico di religioni, in convivenza e libertà.

Ciò è stato possibile soprattutto perché la Siria non ha mai conosciuto il fondamentalismo, né islamista né di altra natura. L’unico momento in cui si è corso questo rischio è stato quello della ribellione dei Fratelli musulmani, repressa con durezza e decisione da Assad padre. Finché non è arrivato lo Stato islamico e gli stranieri (da ben 135 Paesi del mondo, la maggior parte dall’Europa) il fondamentalismo continuava a non avere quartiere in Siria.

La rivoluzione, difatti, non è iniziata per motivi religiosi. E neppure per motivi sociali. Indubbiamente, la gente molto povera delle periferie è stata usata e strumentalizzata per accendere la rivoluzione. Ma di certo, a distanza di sette anni, l’economia in Siria non è cambiata. Non in meglio, perlomeno. Prima della guerra non c’erano bambini che mendicavano per le strade. Ad esempio, nei giorni scorsi, i civili di Ghouta che hanno usufruito dei corridoi umanitari per lasciare la zona controllata dai ribelli, hanno detto ai militari governativi che stavano meglio prima.


- Da un punto di vista geopolitico, fattori che hanno alimentato il conflitto in Siria sono il processo di de-baathificazione del vicino Iraq, voluto dagli Stati Uniti dopo la caduta di Saddam Hussein, e le tribù arabe della provincia irachena dell’Anbar sempre in diretto contatto con Ryhad, che hanno fornito un ottimo humus per la crescita di Al Qaeda in Iraq che ha creato una sua “filiale” nella siriana Al Nusra. Da lì al fenomeno dello Stato Islamico il passo è stato breve.

Sr. Yola: Non so molto informata sulle dinamiche geopolitiche. Non escludo che questi fattori abbiano contribuito ad accendere il conflitto. Ma il mio parere di persona normale che ha vissuto la guerra in questi anni è che la situazione siriana è diversa da quella irachena. In Iraq è caduto il governo e nel tempo è caduto l’esercito. In Siria, invece, il governo non è mai caduto, e neppure l’esercito pur essendosi inevitabilmente indebolito. Mi viene in mente il discorso che Bashar ci fece quando il primo ministro fuggì. La gente si era spaventata, pensando che se anche il primo ministro fuggiva la situazione era davvero grave. Assad allora disse che “secondo la nostra Costituzione, la Siria non è basata sulle persone bensì sulle istituzioni. Anche se vado via io, ci sarà qualcuno che prenderà il mio posto”.


- Mi spiego meglio. Qual è stata di fatto l’influenza del jihad proclamato dallo Stato islamico? Chi sono i ribelli? Jihadisti?

Sr. Yola: No, sono persone normali. La guerra in Siria ha iniziato a prendere forma nel 2001. Gli USA hanno presentato un progetto di divisione della Siria oppure, come piano B, la destabilizzazione. Assad ha rifiutato.


- Questo mi ricorda il Libano. Intendo, l’iperattività propositiva americana in quegli stessi anni, volta a ridurre l’influenza siriana in Libano

Sr. Yola: Sì, è esatto. In quel caso, l’uccisione di Hariri è stata usata come esca per avviare questo “processo antisiriano”. Basti pensare che prima dell’attentato, Hariri e la sua famiglia non erano molto benvoluti in Libano, ma dopo è stato quasi santificato.

A ricostruire la nascita del conflitto in Siria sono stati i nostri giovani che hanno formato il c.d. “esercito electronico”, che ha deciso di collaborare con il governo. Negli anni precedenti alla guerra venivano giovani europei, tra cui moltissimi italiani che studiavano cultura e lingua in Siria, ragazzi che ho ospitato anch’io negli edifici della congregazione. Ci chiedevano come poter raggiungere alcuni posti, i più poveri, e noi davamo tutte le indicazioni. Una volta giunti lì però pagavano le persone per inscenare manifestazioni contro il governo e, pur utilizzando un centinaio di persone, grazie ai ritocchi grafici diventavano 500.000. Lo stesso meccanismo (quello del fotoritocco) è stato utilizzato per i luoghi, raccontati ai media occidentali come scenari siriani e invece erano libici o di altri Paesi. Naturalmente voi non ve ne potreste accorgere non conoscendo i luoghi, ma noi sì.

I primi anni lo Stato Islamico non era parte del conflitto; i ribelli – o meglio, chi aveva organizzato le ribellioni – credeva che questo meccanismo fosse sufficiente a destabilizzare la Siria e cacciare Assad; ma così non fu, anche perché Bashar aveva dato ordine di non sparare contro i manifestanti proprio per evitare di creare presupposti per lo scontro. Misura tuttavia vanificata dal fatto che alcuni infiltrati in mezzo alla gente che manifestava sparavano contro i soldati al fine di fotografarli mentre reagivano e mostrare al mondo che i governativi usavano la forza contro la popolazione. Al contempo, vi erano molte manifestazioni filogovernative che raccoglievano milioni di persone nella piazza principale di Damasco, ma non venivano trasmesse dalle tv internazionali e i canali nazionali, che invece le trasmettevano, furono oscurati all’estero.

Nella provincia di Latakia, a maggioranza alawita, le donne venivano invitate a prendere i coperchi delle pentole e sbatterli l’un contro l’altro nella notte, per creare timori e far nascere paure nei cuori delle persone. Era tutto pensato per creare i presupposti della destabilizzazione governativa.

Poi venne il giorno in cui Damasco fu colpita dal primo attentato kamikaze: un camion carico di esplosivo saltò in aria, facendo schizzare i corpi dilaniati di oltre 400 persone in cima agli alberi oppure sparpagliandoli nei dintorni. L’attacco fu così devastante che fu possibile fare i funerali mettendo nelle bare solo le scarpe delle vittime. E poi ancora, il massacro dell’esercito, nella provincia di Idlib, di cui si commemora ogni anno l’anniversario. Secondo le ricostruzioni, il comandante fece in tempo a chiamare il padre confessore chiedendogli di pregare per lui e i suoi soldati, e poi chiamò la moglie per dirle addio. Li hanno uccisi tutti, decapitati. Il comandante dentro l’edificio, mentre gli altri ufficiali furono portati sul marciapiede, fatti sdraiare e decapitati lì.


- Un siriano come vede i russi, gli iraniani, hezbollah, gli occidentali? Insomma, i terzi intervenienti nel conflitto?

Sr. Yola: In generale percepiamo una grande intromissione da parte degli altri Stati. L’Italia, poi, è l’unico Paese che con una mano aiuta e con l’altra partecipa alla guerra.

Cosa ben diversa è l’intervento russo. L’amicizia con i russi è antica ed è anche sulla base di questa che i russi intervengono adesso. Naturalmente sono consapevole che ci sono anche degli interessi ulteriori, ma per come la vedo io la Russia non ha distrutto le nostre chiese, ucciso la nostra gente. La Russia ci difende. E questo intervento è stato per noi importante perché l’esercito siriano non era preparato per questa guerra, non tanto in termini di equipaggiamento bensì di approccio. Molti soldati vengono da noi a confessarsi, chiedendoci “finiremo all’inferno?”. Molti disertano perché non vogliono uccidere. Ci sono tanti di loro che da sette anni non tornano dalle proprie famiglie.

Una volta mi hanno fermato dei soldati, alawiti ma per me son tutti siriani, e mi hanno detto: “Se non fosse per le vostre preghiere, noi saremmo tutti morti”. Uno di loro mi ha chiesto una corona del rosario. Purtroppo tutti e quattro il giorno dopo sono morti, vittime di un kamikaze.

Il problema per il nostro esercito è che non c’è un campo di battaglia dove si va a combattere, concentrando i soldati in quel punto. La Siria è stata presa tutta e i soldati hanno dovuto spargersi in tutti i meandri del territorio e in tutte le periferie delle grandi città; per poter fare questo sono stati utilizzati anche i giovanissimi che avevano ricevuto poche settimane di preparazione militare. Quattro generazioni di esercito sono morte in questa guerra.

Voglio raccontare una storia cui ho assistito in prima persona: Dani, un ragazzo cristiano, che accompagnava due zie che erano fuggite da Homs per rifugiarsi a Damasco [ndr. a Damasco è stata ospitata tantissima gente fuggita da Homs. Per avere un’idea di cosa è accaduto lì e del martirio di padre Frans, vi suggerisco questo link per farvi un’idea, ma soprattutto tutti i video che il padre aveva caricato su youtube prima di essere ucciso]. Mentre era da noi, è stato indetto il servizio militare obbligatorio ed è stato arruolato. Ma Dani era poverissimo e, in una sera di freddo, non aveva di che scaldarsi. Un suo commilitone, Maometto, gli ha prestato una coperta che aveva in più. Dopo due giorni, un cecchino ha sparato addosso a Maometto che ha gridato ai compagni di scappare. Dani però ha voluto andare ad aiutarlo, trascinandolo per portarlo al riparo. E quando Maometto gli ha chiesto perché lo stesse facendo, Dani ha risposto: “Ancora il calore della tua coperta mi riscalda”. Dopo averlo messo in salvo, Dani però è stato colpito dal cecchino e ucciso.

Io non capisco perché in Occidente si parla sempre e solo male delle forze governative!? Io a volte vorrei scendere dalla macchina e inginocchiarmi davanti ai nostri soldati. Ma davvero se da voi in Italia comparissero i miliziani dello Stato islamico o dei ribelli mettessero a ferro e fuoco le città, voi chiamereste criminale il vostro presidente che agisce per difendervi e i soldati che sacrificano la loro vita per proteggervi?


- Che opinione ha di Assad?

Sr. Yola: Gli altri Stati hanno offerto, per il tramite della Russia, un salvacondotto ad Assad, ossia che lasciasse la Siria in cambio di non dover mai rispondere giudiziariamente di alcunché. La sua risposta è stata che dal palazzo presidenziale sarebbe uscito martire o con la divisa, poiché il popolo lo aveva messo lì e solo il popolo avrebbe potuto toglierlo.

In quanto preside dell’unione delle religiose a Damasco, incontro con le mie consorelle la first lady tre volte l’anno. Durante la festa delle donne, quest’anno Assad è venuto a salutarci e, alla nostra domanda su cosa avremmo potuto fare per aiutarlo nella difesa della Siria, ci ha risposto: “Lasciate le vostre istituzioni (ndr. religiose) aperte, solo in questo modo si cambiano i musulmani influenzati dal fondamentalismo”.

L’anno scorso mi è capitato di incontrare a Damasco alcuni giornalisti italiani, tra cui due della RAI. Ero andata ad aiutarli a sbrigare alcune pratiche con l’albergo e ne ho approfittato per chiedere loro com’era andata l’intervista ad Assad che sapevo avevano in programma. Mi hanno risposto che erano stati molto colpiti dal fatto che Bashar non aveva voluto conoscere in anticipo le domande, mentre in genere un dittatore sceglie sempre prima le domande cui vuole rispondere.

Non mi piace che Assad venga considerato il male assoluto. Ad esempio, ieri si dice vi sia stato un attacco chimico e già, secondo tutti quanti, si sa che il colpevole è Assad.

La guerra mi ha aiutato a ragionare di più, a farmi domande che prima non mi facevo: un presidente che ha conquistato in due settimane una zona molto ampia (Ghouta), perché aveva bisogno di usare armi chimiche per 12 km (Douma)? E poi, se io butto gas in un’area e poi ci faccio entrare l’esercito via terra, come ci hanno mostrato le nostre TV, io non uccido anche i nostri soldati in questo modo?

Il nostro rappresentante all’ONU, Bashar Jafari, ha denunciato in anticipo il fatto che fosse previsto per il 13 marzo un attacco chimico a Ghouta. Il 12 l’esercito ha conquistato le zone in cui vi erano le due fabbriche che producevano gli elementi chimici, impedendo così l’attacco. Ora come allora è noto a noi siriani che a fabbricare e usare queste armi è l’esercito islamico che sta a Douma: il loro capo è uno che ha tradito alcuni dei suoi, consegnandoli all’esercito di Bashar e intascando un sacco di denaro. Sono i soldi il motivo per cui non ha accettato la tregua: se lasciava Douma con i soldi, gli altri ribelli se ne sarebbero impossessati; se fosse tornato da loro senza soldi, lo avrebbero ucciso per tradimento. Pertanto, ha cercato di creare confusione, aprendo il gas contro i civili rinchiusi a Ghouta, per non farsi trovare.

La guerra è stato un continuo rincorrersi di notizie improbabili diffuse tra la popolazione. Alcuni anni fa abbiamo vissuto due ore di terrore, un terrore indotto affinché fosse ripreso e trasmesso dai media internazionali. Le strade di alcuni quartieri di Damasco si riempirono di donne che gridavano “è arrivato l’ISIS”; tutti corsero a preparare valigie d’emergenza per scappare, molti venivano da noi suore per cercare di organizzarsi. Alla fine nei locali dove teniamo l’asilo preparammo un centro di prima accoglienza, in attesa di capire il da farsi. Ma dopo due ore, tutto tacque. E si scoprì che era stata solo una colossale bugia. Menomale, perché se lo Stato islamico davvero fosse entrato a Damasco (per impedirlo, i governativi in tutti questi anni hanno dovuto sigillare i tombini, perché i miliziani neri avevano intenzione di utilizzare le fognature per penetrare nello stadio e poi, da lì, in città), sarebbe stato un massacro. Intanto però la diretta di Al-Jazeera annunciava la caduta di Damasco.

Persone che aderiscono alle frange ribelli ce ne sono, naturalmente, anche nella nostra capitale. Ad esempio, ci siamo accorti che un forno vicino al nostro istituto vendeva pane fatto con la farina andata a male e piena di vermi. Abbiamo avvisato le forze di sicurezza e, dopo aver scoperto che il proprietario del forno portava tutta la farina buona a Ghouta, rifornendo i terroristi, hanno sequestrato il forno facendolo diventare a gestione statale.

Di recente, sono state pure arrestate delle donne che compravano chili e chili di pane per poi buttarlo nella fognatura, con l’unico scopo di creare una carenza di pane in città. In realtà, però, a Damasco si può dire che non è mai mancato nulla sin da quando la guerra ha avuto inizio. Diversamente, invece, è andata ad Aleppo e Homs, dove ormai avevano da mangiare solo l’erba raccolta ai bordi delle strade, o a Dier Er Zor dove si nutrivano dei topi ingrossati dai cadaveri. Di Raqqa, sebbene non si abbiano notizie costanti, sappiamo che è stata totalmente distrutta.


- Cosa mi dice dei curdi? Come sono percepiti dalla popolazione siriana?

Sr. Yola: Ecco, i curdi sono una vera minoranza. Non si sono mai sentiti siriani e non sono mai stati percepiti tali da questi ultimi. Tuttavia, all’inizio della guerra Assad ha ordinato che tutti i curdi dovessero avere la carta di identità siriana (cosa che prima non era mai stata concessa). Il presidente ha disposto questa cosa come misura preventiva di una eventuale volontà successiva dei curdi di chiedere l’indipendenza, sfruttando la confusione generata dalla guerra. I curdi hanno, infatti, perseguito una lotta tutta loro nel conflitto siriano: sicuramente hanno combattuto contro lo Stato islamico, ma di certo non hanno combattuto per la Siria. In ciò sono stati appoggiati, è noto, dagli Stati Uniti i quali, però, non hanno esitato ad abbandonarli nella recente vicenda di Afrin, letteralmente consegnandoli ai turchi.

Il che è paradossale se si pensa a tutto l’aiuto che la Turchia ha dato negli anni ai terroristi. Terroristi tra l’altro tutti stranieri, uomini con barbe rosse, molti dicono che fossero ceceni. C’è, su questa cosa, una storiella che si racconta spesso: alle periferie di Aleppo, i governativi hanno catturato alcuni miliziani stranieri. Chiedono loro “cosa fate qui?” e questi, guardandosi intorno e strabuzzando gli occhi per la meraviglia, rispondono in inglese “Non sapevamo che Gaza fosse così bella!”.

A soffrire molto per le atrocità dei fondamentalisti sono stati gli yazidi. Abbiamo avuto modo di ascoltare tante testimonianze di donne; una di queste ci ha detto di essere stata violentata da centinaia di uomini ogni giorno. Ci dicevano tutte: “Noi siamo già morte: uccideteci!”. Ma non solo le donne irachene e siriane finite nelle mani dell’IS hanno subito violenza; ci hanno raccontato di donne fatte venire appositamente dall’Arabia Saudita, date in sposa per una settimana a un combattente, poi fatte divorziare per farle sposare a un altro combattente e così all’infinito, nella convinzione che il sesso dia forza e vigore agli uomini per la lotta.

Al contempo, abbiamo ascoltato anche le voci di “combattenti forzati”. Mi riferisco a tutti quei campi profughi formati in Giordania, Libano e Turchia: lì non ci sono siriani che sono scappati, bensì i familiari di componenti dell’IS (le famiglie dei “giovani rivoluzionari”). A cosa mi serve tenerli lì? Innanzitutto, danno la possibilità di diffondere sui media e nel web le condizioni dei campi profughi e incolpare Assad di quelle condizioni; in secondo luogo, sono ostaggi che impediscono ai miliziani eventualmente “pentiti” di cambiare idea.

Sull’impatto “sociale” dello Stato islamico, mi permetto di consigliare un film di Najdat Anzour che ha sostanzialmente ricostruito per il cinema la vita sotto lo Stato islamico.


- Siamo giunti al termine della nostra chiacchierata. Cosa si sente di aggiungere a quanto detto sinora?

Sr. Yola: La prima cosa che mi sento di dire è che la guerra ci ha fatto capire che è tutto un attimo; prima piangevamo per le pietre, ma ora sappiamo che tutto si può ricostruire: le case, le scuole, gli ospedali, tutto quanto. Ma qualcosa che abbiamo perso non tornerà più, e sono le persone morte in questi sette anni di guerra.

Alcune cose non saranno mai restituite. La perdita umana è irreparabile. A una madre che ha perso marito e quattro figli, a questa madre quando verrà la pace cosa importerà della pace?

La seconda cosa che voglio dire è che chi ha progettato la guerra in Siria ha scelto il popolo sbagliato e il tempo sbagliato. Il popolo ha resistito. Il presidente lo trovi per la strada a camminare tra la sua gente. E noi, come religiosi, ci siamo dati il compito di lavorare al dialogo e alla convivenza laddove questi sono stati intaccati o distrutti: non vogliamo diventare come gli ebrei che sono stati vittime di atrocità e si sono chiusi, o come gli armeni che hanno subito i massacri e si sono chiusi. Noi vogliamo parlare di riconciliazione e perdono, per ritornare a convivere.

L’ultima cosa è che di fronte a tutte queste storie che ho visto e vissuto non si può stare zitti. Deve arrivare la voce a tutto il mondo di quello che succede qui. Bisogna lavorare per la verità.

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