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Il forum sulla pace e sulla sicurezza di Dakar: le nuove sfide del multilateralismo

Aggiornamento: 14 dic 2020

Introduzione

La capitale senegalese ha accolto per la sesta volta il Forum sulla pace e sulla sicurezza in Africa, che si è svolto dal 18 al 20 novembre 2019. La presente analisi si fissa come obiettivo la conoscenza del forum, del contesto securitario nel quale questo si è tenuto e delle problematiche del multilateralismo in un Sahel sempre più minacciato e frammentario. Un focus sarà dedicato all’operazione di mantenimento della pace in Mali (la MINUSMA), come esempio concreto di una necessaria rilettura delle operazioni di peace keeping nel continente.


1. Le origini del Forum sulla pace e sulla sicurezza

Evento chiave per i decision makers africani, il Forum sulla pace e sulla sicurezza di Dakar fu lanciato nel 2013 durante il Summit dell’Eliseo sulla pace e sulla sicurezza in Africa, e si tenne per la prima volta nel dicembre 2014 sotto l’alto patrocinio del Presidente del Senegal, Macky Sall. Sulla scia dell’intervento militare della Francia in Mali per mezzo dell’operazione Serval[1], il presidente senegalese aveva voluto dare un segnale forte della presa di coscienza africana circa i futuri scenari in materia di sicurezza e di difesa, dando vita ad uno spazio di discussione, in Africa e sui problemi dell’Africa relativi alla difesa e alla pace. Tutte le precedenti cinque edizioni hanno raccolto piu di cinquecento decisori politici, testimoniando l’adozione di nuovi approcci in tema di difesa, sicurezza e politiche di sviluppo.

Sin dalle origini nel 2013, il Forum ha saputo facilitare e stimolare le riflessioni sulla rapida e profonda evoluzione che sta avendo luogo in Africa, soprattutto per quanto riguarda le nuove minacce in tema di sicurezza e, in secondo luogo, sulla caratterizzazione della risposta data dagli stati e dalle organizzazioni internazionali e regionali per rispondere a questa realtà sempre più volatile.


2. L’accento posto sul forum 2019

Il framework dell’edizione 2019 è stata la crescente instabilità e incertezza in cui sta riversando il Sahel e più ampiamente l’Africa occidentale in questi ultimi mesi. L’edizione 2019 è stata un’importante occasione per discutere della rilevanza dei temi delle precedenti edizioni rispetto alla nuova e preoccupante realtà geopolitica della regione. Il continente è alla ricerca di democrazia, di giustizia sociale e individuale, di benessere generale, ed è in questo quadro di istanze che il forum si è posto come obiettivo quello di discutere strategie durature che presuppongano, talvolta, uno stravolgimento istituzionale.

A partire dal discorso di apertura del presidente del Senegal possiamo citare tre assi fondamentali del forum 2019, avente come titolo “Pace e sicurezza in Africa: le sfide odierne del multilateralismo”: 1)La riconfigurazione del multilateralismo 2)L’adattamento della risposta militare alle nuove sfide e minacce saheliane 3) Il rinnovo della dottrina della pace e della sicurezza in Africa.

Le premesse del Forum paiono suggerire la volontà di ammettere che la risposta militare, benché costantemente presente sul continente, non basti a garantire la stabilità in un contesto cosi frammentario : occorre quindi che un nuovo paradigma politico - economico sia attivato, allo scopo di assicurare la stabilità nel medio e lungo termine. Tale paradigma dovrebbe passare per una messa in gioco delle strategie di sviluppo politico, sociale e economico che si abbinino ad una strategia militare più efficace.

Gli obiettivi specifici del Forum sono quindi stati :

  • L’analisi critica dei meccanismi di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti e dell’estremismo violento in Africa;

  • L’analisi della governance dei territori strategici e delle risorse per assicurare la sicurezza in Africa;

  • Il rafforzamento della partecipazione collettiva allo scopo di assicurare un più ampio coinvolgimento popolare nel processo di stabilità e pace duratura.


3. Il multilateralismo tra inefficacia e nuove minacce

Per quanto riguarda il multilateralismo, secondo il presidente senegalese si tratta dell’arena più appropriata per la discussione sulla riorganizzazione della pace e della sicurezza in Africa. Le forze di sicurezza e difesa africane devono indossare una nuova veste, ma per farlo occorre che le partnership strategiche regionali e internazionali siano ridefinite, anche allo scopo di favorire un migliore coordinamento con il sistema delle Nazioni Unite, l’Unione Europea e le comunità economiche regionali.

Dal punto di vista strettamente strategico, questa riorganizzazione dovrebbe partire innanzitutto dal riconoscimento dell’importanza dell’Africa nella presa a carico dei problemi securitari del continente, partendo dalla valorizzazione, in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, degli stati protagonisti della lotta al terrorismo, e perché no, passando per uno screening della risoluzione “Unione per il mantenimento della pace” n° 377/1950 che sembra conferire forza e potere all’Assemblea delle Nazioni Unite (in cui gli stati africani hanno una certa posizione), in presenza di un inadempimento da parte del Consiglio di Sicurezza nel suo dovere di mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.

Durante il Forum si è dovuto quindi ammettere che il mondo è cambiato, e che questo esige che anche l’azione delle Nazioni Unite sia rivista secondo le specificità presenti sul terreno. Dal punto di vista strettamente operativo, il Forum si è aperto nella convinzione che una nuova risposta militare si ponga come necessaria, sia dal punto di vista finanziario, sia da quello logistico. Il summit si è posto come obiettivo principale la revisione delle strategie delle operazioni di peace building in Africa allo scopo di risolvere la crisi, ormai pluriennale, del multilateralismo. Per comprendere meglio l’accento posto sulla risposta militare, occorre infatti considerare che l’Africa è stata allo stesso tempo l’epicentro della concentrazione degli sforzi militari in tema di mantenimento della pace e vittima di forti pressioni, soprattutto esercitate dal sistema delle Nazioni Unite, allo scopo di ridurre considerevolmente il budget destinato alle stesse.

Infatti, dal 2007 il continente africano si è trasformato in un vero e proprio laboratorio di cooperazione militare. A titolo di esempio, ricordiamo la missione dell’Unione africana in Somalia (AMISOM) creata nel 2007, la forza congiunta G5 Sahel nel 2014, la forza multinazionale mista nel 2015 per la lotta contro Boko Haram.

Ancora, nel trentennio 1990-2019, a fronte dei nuovi conflitti aventi sempre più carattere multiregionale, le organizzazioni a vocazione tipicamente economica (per esempio l’ECOWAS) hanno marcato una nuova tappa nello scacchiere geo strategico africano, allargando il loro mandato e confermando una concezione prevalentemente militare di mantenimento della sicurezza, grazie al supporto finanziario e logistico occidentale. Possiamo ad esempio citare l’impegno dell’Unione Europea, che dal 2004 ha sborsato 2,7 miliardi di euro di cui l’80 per cento solo per finanziare 14 operazioni in 18 paesi per 15 anni. Ancora, se si osserva che i paesi del G5 Sahel destinano il 5 per cento del loro Pil alla sicurezza, che l’Unione Europea ha promesso di stanziare 414 milioni di euro all'operazione, e che i russi hanno recentemente firmato un accordo di cooperazione militare con il Mali, si può giungere facilmente a conclusione del fatto che l’Africa dipenda ancora da aiuti esterni, anche quando si parla di difesa e sicurezza. Questo permette di capire quanto il multilateralismo africano sia in crisi, schiacciato dalla dipendenza ancora troppo forte dalle istanze occidentali. Questa dipendenza sembra inoltre farsi sempre più forte in vista delle nuove minacce alla sicurezza, che vanno dalla cyber criminalità alla necessaria protezione delle zone aurifere, sempre più appetibili per i gruppi criminali.


4. Quando la sola spinta militare non basta

Il Forum di Dakar è parso quindi come un tentativo di riaffermare innanzitutto la necessità che gli stati del Sahel si riapproprino della loro sovranità in materia di sicurezza. Il paradosso consiste nel fatto che questa sovramilitarizzazione è in contrasto con il paradigma della sicurezza umana, intesa come la partecipazione delle popolazioni e delle comunità stesse alla difesa dei propri territori e interessi. La lotta al terrorismo in Africa è passata innanzitutto dalla presa di mira di terroristi e gruppi armati, considerata come la strategia vincente per raggiungere rapidamente dei risultati. Questa strategia ha però lasciato in disparte i protagonisti stessi dell’insicurezza, ovvero i civili, che restano le prime vittime di queste nuove forme di violenza, essendo sempre costretti ad abbandonare le loro dimore alla ricerca di nuovi ripari. Questa cecità di fronte alle istanze locali ha condotto a fenomeni di una delicatezza estrema. Da una parte, l’assenza di un processo politico sociale di inclusione ha provocato un malcontento generale, con il risultato che i giovani africani senza speranza aderiscono più facilmente ai gruppi armati poiché desiderosi di migliorare, ad ogni prezzo, le loro condizioni; dall’altra, l’inefficacia operativa delle forze di difesa nazionali ha fatto nascere gruppi di autodifesa che spesso finiscono, in ragione dell’adozione di pratiche di difesa estremamente violente, per essere ai movimenti terroristi radicali. La nascita di gruppi locali di autodifesa dei territori, quali i Koglweogo in Burkina Faso[2] e i Dozo in Mali ne sono un esempio.

Sembra quindi ripetersi il circolo vizioso nel quale esiste una tensione tra le esigenze di affermazione del monopolio e della sovranità nazionale africana (confermato dalle continue manifestazioni popolari contro le operazioni militari francesi ne Sahel) e la percezione dell’ utilità della presenza statale da parte delle comunità locali, che alla fine impugnano le armi, non contro i terroristi ma contro i governi e i rappresentanti dello stato. Questo clima di confusione ha peraltro consentito ai gruppi jihadisti di concentrarsi nelle zone in cui la governance dello stato era venuta meno, al fine di mischiarsi alla popolazione guadagnandone la fiducia.

Peraltro, la legittimità degli interventi è tanto più contrastata quanto più si dimostra inefficace rispetto alla persistenza e all’aggravamento di altre problematiche quali la crescita della popolazione, la crisi alimentare, i cambiamenti climatici, le migrazioni irregolari, il crimine organizzato, il radicalismo religioso.


5. Le critiche alla MINUSMA come esempio di un necessario cambio di paradigma

Dal canto loro, il presidente senegalese e quello mauritano invitato d’onore, Mohamed Ould Cheikh El-Ghazouani, hanno fin dall’apertura del Forum puntato il dito sull’operato dell’Onu, in particolare della missione MINUSMA. I due hanno chiesto una modifica del mandato di operazioni simili in Africa, lanciando un vero e proprio appello a Cina e a Russia affinché il Consiglio di Sicurezza sia in grado di rendere la missione non solo una forza di mantenimento della pace, ma anche in grado di avviare una procedura difensiva in caso di attacco. In queste richieste rientra tra l’altro quella di piazzare il G5 Sahel sotto il capitolo 7 della Carte delle Nazioni Unite.

Con un effettivo di 14.400 militari, la MINUSMA ha il mandato di garantire l’appoggio alla stabilizzazione del paese, la protezione dei civili e il ristabilimento dell’autorità statale sull’insieme del territorio nazionale. La sua vocazione è ad oggi quella di prevenire i conflitti, non di combatterli.

Approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 2.100, fino al 2016 è stata un’operazione di relativo successo, in quanto capace di rafforzare la stabilità nel nord del Mali, riducendo considerevolmente il numero dei civili uccisi e supportando le elezioni del 2013, fino al processo di pace che ha condotto nel 2015 all’Accordo per la pace e la conciliazione in Mali[3]. In effetti, la missione era stata designata per focalizzarsi sul conflitto a nord del Mali, allo scopo di supportare l’instaurazione del processo di pace e l’implementazione degli accordi. A giugno 2019 il suo mandato è stato esteso fino a giugno 2020.

Questo lasciò da parte quindi la questione della protezione dei civili in un’area, quella centrale, in cui nessun processo di pace era instaurato e che per questo motivo non era di priorità strategica.

Uno dei limiti dell’accordo sta quindi anche nel fatto che copre solo le relazioni tra il nord e il sud del paese, non occupandosi affatto della lotta ai gruppi armati terroristi. Un altro problema sono stati i continui attacchi ai battaglioni, che hanno di fatto sottratto l’attenzione alla protezione dei civili.

Ancora, questione importante è la legittimità nazionale della MINUSMA: molti strati della popolazione sono ancora dubbiosi circa il mandato e l’utilità della missione, il che ne complica l’effettiva appropriazione da parte del governo. L’imparzialità di cui dovrebbe essere garante la missione viene meno se la MINUSMA è legata al governo che nelle zone centrali e settentrionali è percepito come del tutto assente. Peraltro, la MINUSMA è stata più volte accusata di gravi violazioni dei diritti umani e della commissione di atrocità nei confronti dei civili.

Un altro problema che mina alla base l’efficacia della MINUSMA è il partenariato e la coordinazione con le altre forze in gioco; in Mali sono presenti la Missione dell’unione africana per il Mali e il Sahel (MISSAHEL), la Missione della politica di sicurezza e difesa comune dell’Unione Europea in Mali (EUCAP) , la Eu training mission, l’operazione Barkhane[4] e il G5 Sahel. La sfida del funzionamento di tutte quete istanze è che gli sforzi di coordinamento sono ancora insufficienti.

Quali sarebbero dunque le possibili soluzioni per fare della MINUSMA un’operazione rinnovata nella sua veste? Sicuramente, al fine di dare priorità ad una soluzione politica stabile, la MINUSMA dovrebbe essere in grado di guardare al di la delle controparti in gioco, il governo maliano da una parte e i gruppi armati dall’altra. Questo allo scopo di dare voce alle istanze locali che chiedono sempre più al governo centrale di iniziare un dialogo con i gruppi jihadisti al fine di favorire una transizione duratura.. In secondo luogo, la MINUSMA dovrebbe guardare al di la del semplice nord o sud del paese, essendo invece in grado di indirizzarsi all’intera regione del Sahel. Se guardasse solo al nord, mantenendo quindi la sua funzione originale di supporto al processo di stabilità, questo lascerebbe le regioni centrali al collasso. Se invece ci fosse un’espansione delle operazioni nel centro, questo piacerebbe al governo maliano, nonostante necessiti di risorse extra. Un’altra soluzione sarebbe quella di integrare la MINUSMA negli sforzi del G5 Sahel, fino a qui inefficaci, o sostituire in toto la MINUSMA con una forza antiterrorismo regionale internazionalmente supportata dalle Nazioni Unite.


Conclusioni

Dal forum di Dakar è emerso che uno dei limiti delle strategie multilaterali messe in campo nel Sahel è il non dialogo con le iniziative diplomatiche in campo e l’assenza dello sforzo umanitario nei confronti delle popolazioni civili. Il Sahel ha bisogno di un approccio omnicomprensivo, che passi innanzitutto dall’instaurazione di una relazione effettiva con gli attori locali.


[1] Nel 2013, all’apice del conflitto civile in Mali, la Francia ha fornito supporto aereo e terrestre alla Comunità degli Stati dell’Africa dell’Ovest, impiegando 4.500 militari.

[2] Nella lingua locale mooré significa “guarda boschi”. Si tratta di gruppi volontari che, benché non riconosciuti dallo stato, assicurano de facto la sicurezza delle popolazioni mediante l 'arresto dei ladri di bestiame e di delinquenti. Sono gruppi auto-organizzati di civili armati di fucili da caccia e che si spostano in moto. La principale missione che dichiarano é la lotta all’abigeato. Molti Koglweogo sono ex-banditi, che trovano in taglie, multe e pizzi un’alternativa soddisfacente, e meno rischiosa, rispetto alla precedente attività. Praticano sistematicamente la tortura e – in altre regioni- sono stati implicati in stragi in villaggi dell’etnia peul.

[3] Meglio conosciuto come Accordo di Algeri.

[4] Lunedi 25 novembre una collisione notturna fra due elicotteri (Tigre e Cougar) della forza Barkhane ha provocato la morte di 13 militari francesi nella regione Liptako – Gourma. Si tratta del bilancio più pesante dal debutto dell’operazione nel 2013. I militari erano impegnati in un’operazione antiterrorismo definita “ essenziale” dallo Stato maggiore della armi.


Fonti:

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