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Il debito pubblico italiano: un mostro senza tempo

Aggiornamento: 24 nov 2020

Fonte: InsideSources

Introduzione


Alla fine del 2020, secondo le stime di Mazziero Research[1], il debito pubblico nostrano salirà ad una cifra di circa 2.600 miliardi di euro, con un incremento, rispetto al 2019, di circa 190 miliardi. L’emergenza Covid ha fatto sì che ovunque le emissioni di titoli di stato, per affrontare la crisi sanitaria ed economica, aumentassero esponenzialmente[2]. Nessuna eccezione per l’Italia, che oltre ad essere stata la prima economia occidentale colpita dalla pandemia, era già considerata a rischio sul piano fiscale, dato l’enorme debito pubblico accumulato all’epoca, pari al 135% del PIL. A fine anno, il rapporto salirà in area 160%.

Benché recentemente il FMI abbia migliorato le stime italiane per il 2020, con una contrazione attesa per quest'anno del 10,6%, migliore di 2,2 punti percentuali rispetto al -12,8% previsto a giugno, si assisterà ad una crescita del PIL solamente del 5,2% nel 2021, al contrario del 6,3% inizialmente previsto.


In aggiunta, si osserva come il mercato del lavoro stia soffrendo in egual misura, con un tasso di disoccupazione che si attesta all’11%, in netto aumento rispetto al 9,9% del 2019, e con previsioni ancora peggiori per l’anno prossimo, con un’ulteriore salita verso l’11,8%[3].

Le proiezioni di lungo periodo non sono migliori. Sempre secondo il FMI, la previsione di crescita del nostro paese, al 2025, è di appena lo 0,9%, la più bassa in tutta l’Eurozona.

Il lancio del Recovery Fund a luglio, a sostegno delle economie europee, ha fatto sì che la percezione del rischio sulla tenuta dell’Eurozona sia diminuita, consentendo, in aggiunta, anche agli Stati fiscalmente più deboli di emettere debiti a costi contenuti, dato che l’ombrello offerto dagli stati più solidi, come Germania, Olanda e Austria, garantisce rating altissimi anche alle emissioni comuni. Di fatto, l’affidabilità tedesca fa da garante per i debiti italiani, spagnoli e francesi.


Il “prezzo” che ci ritroveremo a pagare, verso gli stati economicamente più forti, sarà soprattutto legato a piani di consolidamento fiscale nel post-pandemia.

Benché le autorità fiscali di tutto il mondo stiano agendo con piani senza precedenti per combattere gli effetti della pandemia, azioni volte ad evitare con ogni mezzo possibile un totale collasso economico[4], ciò non giustifica i livelli che il nostro debito pubblico sta raggiungendo (nel 2019 il nostro paese era secondo solo alla Grecia, nell’Eurozona)[5].

Dall’inizio del nuovo millennio, il nostro debito è aumentato di circa 1.269 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto a quello degli anni Novanta, con una crescita del PIL nominale solamente di 475 miliardi, circa 2,6 volte inferiore. Questo aumento affonda le sue radici in situazioni risalenti ad anni precedenti, i quali sono la chiave di lettura per capire appieno la situazione nostrana odierna e, in parte, i rapporti con i partner dell’Eurozona.

1. Le origini

Il nostro paese, soprattutto negli ultimi anni, si è ritrovato nel mirino sia di mercati che di agenzie di rating, nonostante le dimensioni della sua economia e l’importante avanzo primario, per due motivi: una crescita stentata e un debito pubblico colossale, con la conseguente spesa sempre maggiore per ripagare gli interessi. Ma come, quando e perché si è formato questo fardello che, da anni, grava sulle nostre spalle?

Il debito pubblico italiano dall'unità a oggi [6]

1.1 Le fasi del debito


L’andamento del nostro debito pubblico può essere riassunto in quattro fasi, tre delle quali riassorbitesi in pochi anni, mentre la quarta, quella attuale, è diventata cronica e ben lontana dal vedere una fine. La prima fase è datata 1897, con la crisi economica di fine Ottocento, quando si raggiunse il 117% del PIL nonostante un saldo primario positivo. Si ebbe un ritorno ad una quota accettabile a seguito della crescita economica del periodo giolittiano, il tutto nonostante le spese legate alla guerra di Libia.


Le successive fasi si verificarono durante i conflitti mondiali. Soprattutto nel primo dopoguerra, l'enorme debito contratto per lo sforzo bellico toccò il 160% del PIL. Si nota come il rapporto debito-PIL salì dal 71% del 1913 al 99% del 1918, per poi andare fuori scala nel cosiddetto “biennio rosso” 1919-1920, raggiungendo appunto il massimo storico precedentemente citato. Solo con la sistemazione/cancellazione, dei debiti di guerra, in aggiunta ad una rilevante diminuzione del debito interno, la seconda crisi venne superata.

Gli effetti dell’accoppiata Crisi del ’29-Grande Depressione, portarono nuovamente ad una crescita del debito, pari all’88% del PIL nel 1934, accompagnata da un’importante riduzione delle entrate. Questo aumento rientrò, nonostante la crescita delle spese militari del Regno, al 79% nella 2° metà degli anni Trenta. Tuttavia, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si assistette ad un’impennata che arrivò a toccare il 108% nel 1943. Terminato il conflitto, il debito, letteralmente, crollò al 40% del PIL nel 1946, soprattutto a causa della spaventosa inflazione che colpì il nostro paese.


Grazie all’inflazione appena citata, e a delle parziali ristrutturazioni, si riuscì a toccare un punto di basso nel nostro debito nel secondo dopoguerra, con un rapporto PIL-debito poco sopra al 20%. Negli anni successivi si riuscì a seguire una linea di crescita di questo molto piatta, soprattutto perché il paese ebbe modo di crescere in maniera superiore rispetto all’andamento del debito. Infatti, nel 1964, in pieno boom economico, la nostra economia cresceva in media del 5% annuo, con un debito attorno al 33%[7]. Queste condizioni continuarono, con alti e bassi, fino alla fine degli anni Sessanta, quando si iniziò ad assistere ad un pericoloso aumento, iniziato già nel 1958, con il debito che toccò il 41%, seguito dalle prime tensioni finanziarie ed economiche, sia sul piano interno che internazionale.

1.2 1974, la nascita del mostro


La quarta fase, quella ancora in corso, affonda le sue radici negli anni Settanta. Nel ventennio 1974-1994, si assistette ad un’impennata quasi senza controllo, che ha reso il debito attuale il “mostro” che ancora oggi è. Il problema principale di questo sta nel non essere riusciti a riassorbirlo, nonostante i ben 22 bilanci pubblici positivi su 23 tra il 1995 e il 2017[8]. La crisi del 2007 non ha fatto altro che aumentare nuovamente il rapporto PIL-debito, fino al 130%., debito che oggi sta seriamente minando l’integrità italiana. Dal 1968 al 1983 la situazione inizia a precipitare. Nonostante una buona crescita, vicina al 3% medio annuo, la crisi petrolifera del 1973 diede il via ad un’inflazione sfrenata, ulteriormente gonfiata dalle svalutazioni che la Lira subì.


Di conseguenza, il carovita si alzò dal 5,2% del 1972 al 19% del 1974, assestandosi attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando si assistette ad un incremento, che lo portò a toccare il 21,7%. Parallelamente, il miglioramento del welfare in atto dal decennio precedente, provocò un aumento della spesa pubblica che, combinato con la stagnazione delle entrate, diede vita a una situazione che ci portò a chiudere i bilanci in pesante deficit, fino al 10%. Il debito, però, non esplose, ma si assistette ad un aumento costante, fino ad assestarsi attorno al 60% a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, grazie soprattutto alle iniziative della Banca d’Italia che, dal 1975, si impegnò a garantire il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni invendute. Così facendo, il costo dell’aumento del debito sparì dai conti pubblici, ma intaccò il valore della Lira, che nella seconda metà degli anni Settanta si svalutò all’incirca del 40% rispetto al dollaro.

1.3 Il boom del debito degli anni Ottanta


Nel 1981 ha inizio la scalata verso le vette che abbiamo raggiunto oggi, a seguito dello “scoppio” della “guerra all’inflazione” (all’epoca al 14% negli Stati Uniti) che il presidente Ronald Reagan e Paul Volcker[9] iniziarono. La Fed dà una notevole stretta sui tassi, passati in sei mesi dal 9% a circa il 19%, andando così ad abbattere il carovita[10], innescando tuttavia una, de facto, “mini-recessione” prima del boom economico. Le altre banche centrali del pianeta furono costrette ad inseguirla, e Bankitalia non fece eccezione. In questo contesto, nel luglio 1981, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, avviano il cosiddetto “divorzio”, andando a sciogliere l’obbligo di acquisto dei titoli di stato invenduti, tornando ad essere indipendente nelle scelte relative alla politica monetaria. Nonostante la decisione fu osteggiata da tutti i principali partiti politici, permise alla Lira di rispettare i parametri del Sistema monetario europeo[11].


La nostra condizione economica, nel 1982, è catastrofica: l’inflazione si assesta attorno al 17%, erodendo il potere d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, mentre i tassi d’interesse superano il 25%. Infine, lo spread tra i decennali italiani e quelli della Repubblica federale tedesca tocca l’inimmaginabile record di 1175 punti base.


Eloquenti furono le parole di Carlo Azeglio Ciampi, l’allora governatore della Banca d’Italia: «Nel biennio 1981-82 il prodotto interno lordo è rimasto stazionario ma il settore pubblico ha aumentato del 14% il suo debito in termini reali, mentre il debito del Paese verso l’estero è aumentato di 9 miliardi di dollari - La correzione deve affrontare il problema della spesa, modificandone l’angolo di rotta. I progressi nel campo della funzione sociale potranno essere salvaguardati e resi duraturi solo se saranno posti in una vera cornice di giustizia distributiva, di stabilità monetaria, di efficienza».


Il disavanzo delle amministrazioni italiane, nel periodo 1977-82, superò il 10% del Pil, contro l’1% degli Stati Uniti. Ciononostante, le parole del Presidente vennero ignorate, e gli esecutivi successivi perpetrarono nel mantenimento di saldi primari negativi, con punte che toccarono il 15%. Come conseguenza, fu praticamente necessario mantenere i tassi di interesse in doppia cifra per trovare acquirenti di BoT[12] e BTp[13], e ciò si tradusse in una colossale impennata che portò il debito dal 60% nel 1980, al 100% dieci anni dopo, il tutto nonostante gli anni Ottanta siano stati un periodo di buona crescita economica, nonché di incremento delle entrate complessive del paese (che aumentarono di 8 punti percentuali). Nel 1994 il debito pubblico raggiunse il 124% del Pil, per poi salire ulteriormente ai valori odierni.

2. Il ruolo Dell’UE nel contesto attuale


Malgrado le aperture da parte dell’UE, la nostra situazione odierna rimane seria, soprattutto nel lungo periodo. Questo, proprio perché preoccupa molti paesi europei, soprattutto quelli “frugali”, i quali temono che finanziarci con risorse a fondo perduto sia equivalente al gettare soldi in un pozzo senza fondo. A sostegno di ciò, è anche il fatto che, come precedentemente accennato, l’Italia sia strettamente osservata anche dalle agenzie di rating, come Fitch, che classifica i nostri titoli di stato con un rating di BBB-, allineandosi a quella di Moody’s (Baa3), ovvero valori appena sopra a quello che viene definito, in gergo, “Junk”, spazzatura. È facile intuire come l’elevato debito, unito ad una crescita economica strutturale debole, influiscano enormemente su queste valutazioni.

Ciononostante, come appena citato, l'Unione Europea lo ha definito "sostenibile nel medio termine", benché non sia esente da rischi, considerando anche quelli che vengono definiti come "importanti fattori mitiganti"[14]. Nello scenario di base, il fabbisogno finanziario lordo, quanto lo Stato deve raccogliere sul mercato per finanziarsi, supera il 25% del Pil nel biennio 2020-21, calando a circa il 20% del Pil nelle proiezioni a 10 anni, ovvero nel 2030. Le condizioni alle quali l’Italia si finanzia, ad oggi, restano "accomodanti" e, andando avanti, come sottolineato dai tecnici della Dg Ecfin[15], i programmi Pepp[16] e Pspp[17] della Bce (ovvero il Quantitative Easing[18]) "dovrebbero contribuire a stabilizzare i mercati del debito sovrano dell'area euro".


Come si intuisce, il finanziamento di deficit e fabbisogno lordo dipenderà in modo massiccio dai finanziamenti dalle istituzioni europee, BCE su tutte. Un ruolo minore sarà, invece, svolto dai programmi dell’UE (quali Next Generation EU[19], SURE[20] e MES).


Nella Nadef[21], il nostro Governo ha stimato l’utilizzo di soli 25 miliardi del Next Generation EU nel 2021, 14 sotto forma di sovvenzioni e 11 di prestiti, per un totale di 205 miliardi nel il periodo 2021-2026. L'impiego previsto delle risorse comunitarie dovrebbe incrementare costantemente fino a raggiungere i 43 miliardi nel 2023, per poi diminuire. Nel documento è omessa la ragione di questa ripartizione temporale, elemento penalizzante soprattutto alla luce della nostra scarsa capacità di utilizzare repentinamente le risorse assegnateci. Il rischio maggiore è che i fondi ci vengano erogati dopo la fase più intensa della crisi, soprattutto se si considera che per all’anno in corso, il fabbisogno lordo è stimato a 494 miliardi, di cui 316 come titoli in scadenza e 178 di deficit. Di questo, è previsto che le istituzioni europee ne assorbano la metà, 252 miliardi, di cui 225 direttamente dalla BCE.


Per il 2021, il fabbisogno di finanziamento è stimato in 495 miliardi, di cui 372 di titoli in scadenza da rinnovare e 123 di deficit. Tuttavia, le dichiarazioni di Christine Lagarde[22] fanno supporre che la situazione di debole inflazione continui fino a fine 2021, e che gli acquisti di titoli di stato proseguiranno anche oltre la scadenza attuale (giugno 2021). Se ne deduce che, anche per l’anno prossimo, è probabile che quasi la metà del fabbisogno (43% circa) sarà finanziato dalle istituzioni europee[23], mentre il restante 57% dovrà essere raccolto sui mercati, che arriverebbero a finanziare circa 281 miliardi per il 2021. L'eventuale ricorso al MES diminuirebbe la necessità di finanziamento sui mercati di circa 7 punti percentuali (36 miliardi in meno).

3. Conclusioni


Oggi, il governo si sta adoperando per produrre nuove stime per dare una prima valutazione sul se sia cambiato qualcosa e, eventualmente, su che cosa sia cambiato nella sostenibilità del debito pubblico nostrano, dopo che l’economia italiana è stata colpita dalla pandemia, con il quadro di aprile che già includeva il cambiamento di scenario successivo al crollo del Pil di febbraio-marzo 2020. Già ad aprile era atteso un calo del Pil nell’ordine dell’8% per quest’anno, con un rimbalzo previsto del 4,7 % per il 2021[24].


Per calmierare questa tendenza negativa, l’esecutivo ha varato “misure urgenti di rilancio economico”, quali il differimento di adempimenti fiscali, misure di sostegno generico al reddito di disoccupati, autonomi e altre categorie, il congelamento dei posti di lavoro esistenti e il supporto ai settori più colpiti.


A seguito dell’arrivo dei veri dati, che hanno portato il Governo a rivedere le stime a ribasso[25], è possibile fare una previsione, seppur approssimata, relativamente alla possibilità di sostenere o meno il nostro debito sia nel post-pandemia, che nel futuro.

La chiave sta nell’evoluzione del debito in rapporto al PIL e dell’andamento del deficit pubblico, che dovranno necessariamente invertire il loro andamento.


Chiaramente il supporto dell’UE sarà determinante, soprattutto a seguito delle accresciute richieste finanziarie italiane (andare a sospendere od eliminare la cupola protettiva adottata sarebbe una vera e propria condanna, probabilmente non soltanto per l’Italia). Passo che non dovrà essere sbagliato sarà anzitutto il definire come utilizzare i fondi concessi dal Recovery Fund e, in secondo luogo, delineare una strategia di gestione del debito pubblico che includa un arco temporale per i prossimi venti anni. È necessario prendere impegni vincolanti con gli investitori così da indirizzare la nostra economia su livelli più sani e sicuri, in modo tale da garantire un futuro al nostro paese.


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Note

[1] Istituto di ricerca indipendente. [2] Il Fondo Monetario Internazionale prevede, per il 2020, una contrazione dell’economia globale del 4,4%, [3] Peggio di noi, solo la Spagna, con il 16,8% sia nel 2020 che nel 2021, e la Grecia, con il 19,9% quest'anno e il 18,3% il prossimo. [4] Si stima che, ad oggi, i governi abbiano stanziato fondi per circa 11.700 miliardi di dollari, pari al 12% della produzione globale. [5]https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=File:Government_finance_statistics_highlight_FP2020-IT.png

[6] In percentuale del Pil (Fonte: Banca d’Italia)

[7] Questo risultato venne raggiunto sia grazie al periodo particolarmente favorevole, sia a delle scelte strutturali che permisero il tutto [8] Al netto degli interessi [9] L’allora governatore della Federal Reserve, la banca centrale americana [10] Nel 1983, negli Stati Uniti, al 3,2%) [11] La banda di fluttuazioni tra le valute europee introdotta nel 1979, alla base della successiva Unione monetaria [12] Buoni ordinari del Tesoro [13] Buoni Poliennali del Tesoro [14] Come stabilito dalla valutazione della sostenibilità del debito redatta per valutare l'idoneità dei Paesi dell'Eurozona ad accedere alle linee di credito del MES contro la pandemia, in particolare si legge: "Anche se la posizione debitoria si è deteriorata come risultato della crisi prodotta dalla Covid-19, il rapporto tra debito e Pil nello scenario di base è previsto su una traiettoria sostenibile e discendente nel medio termine" [15] Directorate-General for Economic and Financial Affairs [16] Pandemic Emergency Purchase Programme [17] Public Sector Purchase Programme [18] Modalità non convenzionale con cui una Banca Centrale interviene sul sistema finanziario ed economico per aumentare la moneta a debito in circolazione. [19] Strumento per la ripresa, con una dotazione di 750 miliardi di euro [20] Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, meglio conosciuta come” Cassa Integrazione europea” [21] Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza [22] Presidentessa della BCE [23] Nello specifico: 190 miliardi tramite titoli già posseduti dalla BCE e nuovi acquisti nell'ambito del programma PEPP e 25 miliardi dalle risorse del Next Generation EU sopra descritte [24] Questo prima degli interventi correttivi operati in corso d’anno per il 2020-21 [25] Si vedano i paragrafi precedenti

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