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I differenti volti dell’insicurezza del Sahel

Aggiornamento: 28 ago 2021

Introduzione

Il Sahel è una delle regioni più povere al mondo, con conflitti e insicurezza che hanno radici storiche, inasprite dalla presenza sempre più assidua di gruppi armati, non solo di matrice jihadista. Quest’analisi, seppur non esaustiva, è volta a mettere in luce le connessioni di fenomeni storici, politici e ambientali che hanno fatto di questa regione una delle più instabili in Africa e una priorità della comunità internazionale. L’analisi partirà da un quadro generale della situazione sociale e politica del Sahel, passando poi ad un focus sulla situazione del Mali, in bilico tra conflitti interetnici e terrorismo, che ne fanno uno fra i paesi maggiormente toccati dalla crisi, la cui instabilità si riflette sull’intera regione. Un richiamo sarà fatto inoltre alle reazioni diplomatiche e strategiche della comunità internazionale.


Il quadro generale del Sahel

Il Sahel è un pezzo di terra che si estende tra le coste dell’oceano atlantico e quelle del mar rosso. In arabo, sahel significa “costa”, “riva”, facendo riferimento a quei territori caratterizzati da un clima desertico e da terre a metà strada tra l’arido e il fertile. Il Sahel si estende su un‘area di 3 milioni di chilometri quadrati, includendo parti di Algeria, Burkina Faso, Ciad, Gambia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal e Sudan. Comprende 50 milioni di persone che sono prevalentemente nomadi e pastori.

Dal punto di vista storico, il Sahel è stato il centro della nascita di civiltà forti e potenti che hanno dato origine a vasti imperi, fra i quali si ricordano quello dei Songhai e dei Sokoto. Il melting pot di civiltà fu peraltro favorito dalla rotta commerciale transahariana (tramite il commercio di schiavi, avorio e sale), teatro di scambi frequenti e transumanza, ma anche dalle difficili condizioni climatico – ambientali che fanno del Sahel una delle regioni più vulnerabili al mondo. Infatti, la ricchezza in risorse naturali di cui dispone la regione (compresi idrocarburi, oro e uranio) si accompagna alle estreme condizioni climatiche ed ecologiche: siccità, desertificazione, riduzione della terra arabile, variazione delle piogge e temperature hanno incentivato l’attitudine migratoria delle popolazioni saheliane, il cui sempre più frequente spostamento ha avuto un impatto considerevole sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza, creando inevitabilmente tensioni interne per il controllo delle scarse risorse disponibili.

A queste condizioni precarie si sono peraltro aggiunti due aspetti cruciali: da una parte la continua crescita di una popolazione molto giovane (il 60% della popolazione saheliana è sotto i vent’anni), che si stima avrà raggiunto i 130 milioni di persone nel 2030,dall’altra i conflitti interetnici: Il Sahel rappresenta infatti il fulcro delle violenze e dei conflitti fra popolazioni e gruppi etnici, soprattutto per quanto riguarda la zona del bacino del lago Ciad, (una zona comprendente il nord del Mali e il nord della Nigeria).


Alle radici dell’instabilità del Mali

Il Mali è un paese a prevalenza musulmana e composto da diverse etnie: Bambara Malinke e Sonike (50%), Fulani (17%), Voltaici (12%), Tuareg (10%), Songhai (6%).

Già durante l’occupazione francese, le differenze tra il nord e il sud del paese erano immense, con il sud molto più sfruttato grazie alle sue riserve minerarie, in particolare d’oro.

Dopo l’indipendenza del 1960, il primo presidente Modibo Keita instaurò un regime socialista, nazionalizzando i settori chiave dell’economia. Nel 1960 venne emanata la legge 60-5/AL-RS[1] sull’amministrazione territoriale, che suddivise il Mali in sei regioni, tra cui quella di Gao che copre l’intera parte nord del paese, avente una giurisdizione che copre un territorio vasto quanto l’insieme delle altre cinque regioni. La regione di Mopti, nel centro del paese, era considerata come un eldorado, il cuore economico del paese: questo consentiva quindi a Bamako di ricavarne il 30% dei proventi dalle esportazioni.

Fin dall’indipendenza dalla Francia, il Paese, che prima si chiamava Sudan Francese, è stato intervallato dal potere civile e militare: colpi di stato militari lo condussero ad un governo multipartitico nel 1992, che fece del Mali un esempio di democrazia, libertà civili e di stampa, governance generale nell’apparato della sicurezza.

Le ondate di siccità degli anni Settanta colpirono duramente l’economia locale, e le politiche agricole adottate minarono i già fragili rapporti tra gli allevatori Fulani e Tuareg e gli agricoltori Bambara e Dogon. Fu proprio la regione di Mopti quella più colpita dall’intervento statale che ne minacciò l’assetto socio-politico: durante il processo di riorganizzazione, i diritti tradizionali sulle terre, stabiliti nel diciannovesimo secolo dall’impero Fulani, furono messi in discussione, per non dire totalmente ignorati.

Clientelismo e corruzione la fecero da padroni e si intensificarono durante il governo Touré (2002 -2012), quando cooptazione e consenso consentirono al presidente di creare un vero e proprio sistema clientelare, coinvolgendo sindaci, imprenditori, capi tradizionali e facendo quindi dell’originaria democrazia maliana di fatto un’oligarchia.

Questo clima fu ben presto esteso alle zone periferiche, dove il processo di decentralizzazione previde il conferimento di molti poteri ai leader tradizionali, nel tentativo di accrescere l’influenza del governo centrale: il risultato fu la messa in discussione dei ruoli e delle strutture preesistenti. Fu in questo periodo che la penetrazione dei movimenti wahabita condusse ad un proliferare di gruppi transnazionali che cominciarono a minacciare la sicurezza maliana.

Nel 1962 i Tuareg, gruppo nomade situato nel nord del paese, scontenti e abbandonati a loro stessi, chiesero l’indipendenza dal governo centrale sotto la Sharia, insieme ad altri gruppi seminomadi, fra i quali i berberi. La ribellione Tuareg fu soppressa militarmente, ma il sentimento di esclusione si intensificò provocando altre ribellioni nel 1992 e nel 2006, fino a sfociare in una rivolta senza precedenti nel 2012.

Tra il 1980 e il 1990 queste ribellioni spinsero fra l’altro la giovane popolazione maliana a migrare dal nord al sud, provocando tre effetti: 1) lo spopolamento delle aree del nord, fino a renderle quasi una no man's land. 2) lo sviluppo di network criminali attivi nella tratta di esseri umani, rapimenti e traffico di droga 3) l’integrazione dei Tuareg nel regime militare di Gheddafi, che ne intensificò l’irredentismo già pronunciato. Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, alcuni gruppi armati ritornarono nel nord del paese dando vita ad una ribellione sostenuta da diverse milizie affiliate ad Al-Qaeda. La nuova coalizione prese il controllo delle città maliane imponendo la Sharia, e la Francia rispose con l’operazione Barkhane, stanziando 4.000 soldati supportati da 12.000 caschi blu dell’ONU. Nel 2015 i ribelli Tuareg, riuniti nei movimenti di liberazione dell’Azawad, firmarono un accordo di pace con il governo, accordo che tuttavia non migliorò la situazione.

Il conflitto Tuareg è solo uno dei noccioli della questione. Infatti, la totale assenza di governance nazionale, caratterizzata in particolare da una debole presenza dello Stato, ebbe i suoi effetti soprattutto nel settore della sicurezza, minando la stabilità dei confini e la protezione degli individui. Basti pensare che il settore della sicurezza in Mali è molto debole: tra il 1993 e il 2012 la spesa per la difesa oscillava tra l’1,4 e l’1,6% del prodotto interno lordo. Questo contesto fu ben presto terreno fertile per la creazione di gruppi armati non statali, che decisero di sostituirsi di fatto alla nazione per garantire la stabilità sul territorio; a questa si accompagnò il proliferare di attività illegali e criminali, tra le quali il reclutamento di giovani nei gruppi ribelli e jihadisti, giovani che non esitarono di accettare mossi dalla speranza di trovare condizioni di vita migliori.


Il conflitto tra Dogon e Fulani

Dopo il conflitto Tuareg, oggi sono i Fulanii protagonisti degli scontri: più conosciuti come Peulh in Africa Occidentale, si tratta di una comunità composta in prevalenza da pastori musulmani sunniti che si identificano come Fulbe, forma maschile plurale del sostantivo Pullo. Essi parlano il fulfuldé e sono originariamente un popolo nomade, dedito all’attività agro-pastorale, e quindi abituati a spostarsi con le loro mandrie. Va da sé che questa continua transumanza nel tempo, intensificata da condizioni climatiche e ambientali estreme, abbia generato conflitti in un’area già fortemente colpita dall’insicurezza alimentare.

I Fulani si contrappongono ai Dogon, tradizionalmente agricoltori e sedentari, che si sono installati nelle foreste di Bandiagara, nel centro del Mali, costruendo case nella roccia calcarea e adottando costumi locali che ne hanno valso l’iscrizione al patrimonio mondiale dell’Unesco, attirando così migliaia di turisti ogni anno. Dopo un primo periodo di convivenza pacifica, la migrazione dei Peulh costrinse i Dogon a ripiegare su altre attività, a causa dell’impossibilità di sfruttare i campi devastati dal pascolo del bestiame Peulh. Con il tempo i Dogon diventarono cacciatori e, vittime dei sempre più frequenti attacchi jihadisti (che nel frattempo avevano trovato in quelle zone terreno fertile peri loro interessi strategici), si costituirono nel gruppo dei Donson, un’associazione che doveva gestire lo spazio forestiero a ridosso dei villaggi, con il pretesto di sostituirsi alle inefficienti forze di sicurezza maliane nella lotta al terrorismo jihadista. Ben presto i Donson formarono il gruppo Dan an amassagou (in lingua Dogon letteralmente “I cacciatori che si affidano a Dio”), una vera e propria associazione dotata di una branca politica e una militare.

Il 23 marzo 2019 un centinaio di uomini armati facenti capo a Dan an amassagou hanno attaccato il villaggio di Ogossagou, nel centro del paese. Le vittime della carneficina, senza distinzione di sesso o età, appartenevano quasi tutte alla comunità Peulh. Qualche mese prima, il primo gennaio 2019, la cittadina di Koulogon, sempre nella stessa zona vicino a Bankass, aveva subito un attacco simile che aveva fatto 37 morti nella comunità Peulh. Il 18 giugno scorso un nuovo attacco è stato perpetrato nei villaggi di Yoro e Gangafani, nel circondario di Koro al confine con il Burkina Faso, provocando 41 vittime di etnia Dogon.

Questi episodi costituiscono il culmine di un fenomeno ormai dilagante in altre zone della regione saheliana, dove il terrorismo islamico si accompagna a uccisioni tra civili (ben conosciuto il massacro di Yirgou, in Burkina Faso, dove nel gennaio 2019 i gruppi di autodifesa dei Koglweogo hanno ucciso 72 persone). Secondo alcune delle agenzie di protezione dei diritti umani, l’ampiezza del fenomeno farebbe pensare ad una vera e propria pulizia etnica: infatti, non si tratta più solo di tentativi isolati di allontanare i giovani dai campi per poi rubar loro il bestiame, ma di vere e proprie uccisioni arbitrarie di donne e uomini e saccheggi, con il preciso scopo di allontanare le popolazioni Peulh. Fra l’altro i Peulh accusano i Dogon di essere in combutta con i jihadisti, e viceversa i Peulh sono accusati di supportare il governo centrale nella lotta al terrorismo.


Il rapporto con il terrorismo

La proliferazione dei network terroristici, anche di matrice jihadista nel nord del Mali, trova le sue ragioni dalla quasi totale assenza di un apparato statale forte; i terroristi, distribuendo beni di prima necessità, combattendo la disoccupazione offrendo ai giovani una carriera nelle milizie, garantendo istruzione gratuita attraverso le scuole coraniche, stanno guadagnando terreno e fiducia tra le comunità locali. Grazie al supporto di alcuni fra i gruppi etnici, i jihadisti hanno saputo rendere legittima la loro presenza in queste zone, offrendo quindi un supporto politico ed economico alle antiche rivendicazioni irredentiste, fra cui quella dei Tuareg. I Fulani sono quindi incoraggiati ad aderire al network criminale, speranzosi di vedere le loro rivendicazioni territoriali soddisfatte. Il risultato è che quando i gruppi estremisti arrivano a controllare una zona, essi sono percepiti dalle comunità locali come forze in grado di ristabilire l’ordine e lo status quo che, pur alimentato da terrore e violenza, appare preferibile all’anarchia e all’assenza di una governance nazionale. Come negli anni Novanta, la legittimazione delle istituzioni maliane subisce progressivamente un declino evidente, nemico di un qualsiasi tentativo di restaurazione della situazione ante-crisi.

La situazione è inoltre aggravata dai numerosi episodi di violenze, arresti arbitrari, estorsioni commessi da parte delle forze nazionali di difesa e sicurezza. Nella sola regione di Mopti, molte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani hanno riportato di episodi di tortura, abusi sessuali, sparizioni forzate, esecuzioni arbitrarie in cui erano coinvolti militari dell’armata nazionale. È ovvio che in queste situazioni, spesso non denunciate per timore, l’accesso alle armi e a mezzi violenti appare alla comunità come l’unica via percorribile.


La reazione della comunità internazionale

Nel tentativo di sopperire all’assenza di una sicurezza nazionale, diversi attori nazionali e internazionali si sono fatti avanti per neutralizzare i network terroristici e criminali e ristabilire la pace in Mali.

La MINUSMA (la Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Mali) è stata creata nel 2013 e formata da 15.000 soldati provenienti dall’Africa Occidentale: la sua missione è garantire il dialogo politico per la pace nazionale, ristabilire l’autorità statale e proteggere i diritti umani. La MINUSMA è stata tuttavia di gran lunga criticata a causa delle sue inefficienze dal punto di vista logistico-militare, nonché delle denunce di episodi di uccisione e di abusi sessuali commessi dai caschi blu. Accanto alla MINUSMA si colloca la Francia, che oltre all’operazione Berkane era intervenuta con l’operazione serva per ristabilire la sovranità del Mali nei territori settentrionali. Impossibile negare che la presenza costante della Francia sia legata ad interessi strategici per lo sfruttamento delle materie prime.

Ed ecco che nel luglio 2017 la missione del G5 Sahel fece capolino: trattasi di una forza congiunta di soldati provenienti da Ciad, Mauritania, Burkina Faso, Mali e Niger. A finanziare l’iniziativa ci sono la Francia (8 milioni di euro), l'UE (50 milioni), il G-5 Sahel (50 milioni), l'Arabia Saudita (100 milioni) e gli Emirati Arabi Uniti (30 milioni). Ancora una volta, il governo parigino, non nascondendo i suoi interessi a mantenere un controllo di queste terre, soprattutto di fronte all’emergere di nuovi attori quali la Gran Bretagna, la Cina e gli Stati Uniti, utilizzerà il pretesto della lotta al terrorismo per tenere lontani gli altri attori e riaffermarsi come egemone.


Conclusioni

È importante che i decisori politici comprendano che la frammentazione socio-politica del Mali è contraria all’adozione di una risposta nazionale globale. Al contrario, essa dovrebbe essere mirata alla risoluzione di problemi specifici nelle differenti aree; per questo, essa dovrebbe essere spostata da un livello nazionale, macro ad un livello regionale: studi e ricerche hanno dimostrato infatti che le organizzazioni della società civile sono attive e possiedono le capacità necessarie per mettersi a lavorare sul futuro del paese, attraverso una sempre più decisa inclusione degli attori locali. Inoltre, una strategia a lungo termine sarebbe la sola in grado di indirizzarsi alle cause profonde del conflitto; questa dovrebbe pertanto tradursi in un impegno finanziario e duraturo. Non da ultimo, occorre che tale strategia privilegi la relazione, fino ad ora problematica, tra i civili e le forze di difesa e di sicurezza. Una cultura del rispetto dei diritti umani deve essere trasmessa alle forze di difesa: solo in questo modo si potrà raggiungere un dialogo con le comunità.


[1]Loi N°60-5/AL-RS du 7 juin 1960 portant organisation des régions et des assemblées régionales de la République soudanaise



Sitografia


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