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Greta può attendere: la Cina investe (ancora) sul carbone

Aggiornamento: 14 nov 2020

Convinzione diffusa è che il carbone sia una reliquia del passato, un simbolo di un’epoca ormai conclusa nella quale l’essere umano pensava soltanto allo sviluppo economico, incurante delle conseguenze ambientali che questo sviluppo produceva.

Questa visione molto comune è frutto della miopia eurocentrica e di una dilagante superficialità di analisi sulle questioni energetiche. Nonostante sia inequivocabilmente vero che l’incidenza del carbone tra le fonti primarie si sia ridotta rispetto al passato, lo sviluppo storico non è predeterminato e vari piani di decarbonizzazione possono essere rivisti alla luce di contingenze (geo)politiche ed economiche nuove ed impreviste.

E’ il caso della Cina: i consumi di carbone di Pechino hanno praticamente raggiunto livelli che non si registravano da anni ed il governo ha pianificato la costruzione (già in atto o prevista) o la riattivazione di centrali elettriche a carbone in grado di generare una capacità aggiuntiva quasi superiore a quelle di tutta l’Unione Europea (148GW).

Greta può attendere; qui ci stiamo (ancora) carbonizzando.

Fonte: https://www.ilpost.it/2018/09/27/cina-centrali-a-carbone/

LA MORTE DEL CARBONE NON E’ DIETRO L’ANGOLO:

Nonostante nel 2014 il Primo Ministro di Pechino dichiarò “guerra all’inquinamento così come dichiarammo guerra alla povertà”, un calo nell’utilizzo di carbone da parte dei cinesi è previsto soltanto a partire dal 2030. Alla luce del fatto che la Cina già oggi consumi tanto carbone quanto quello del resto del mondo, ci restano come minimo altri dieci anni di carbonizzazione. Molte analisi che prevedono la morte del carbone considerano infatti un mondo senza Cina: tra gennaio 2018 e giugno 2019 la capacità produttiva delle centrali a carbone globali (esclusa la Cina appunto) è calata di 8,1 gigawatt. Ottimo risultato che però rischia di generare inutili illusioni se non si osserva il dato cinese: +42,9 gigawatt (grafico 1). Come si può notare dalla seconda immagine, la Cina ha già operative 987 centrali elettriche a carbone e programma di costruirne altre 121, più di tutto il resto del mondo messo insieme. Ted Nace, Direttore del Global Energy Monitor, ha commentato l’intento cinese di aggiungere 148GW di capacità attraverso centrali a carbone affermando che "ciò che viene costruito in Cina sta trasformando quello che sarebbe l'inizio del declino del carbone nella continua crescita del carbone". E’ importante però precisare che a Parigi nel 2015 la Cina non promise di ridurre le emissioni, bensì di contenerne l’aumento fino al 2030 riducendo contemporaneamente il peso del carbone nel paniere energetico. Questo impegno di riduzione percentuale dell’incidenza del carbone, in presenza di un aumento dei consumi energetici, è perfettamente compatibile con una crescita dell’utilizzo del “coal” in valore assoluto. A dimostrazione di ciò, nel 2018 il carbone in Cina rappresentava il 58% del totale delle fonti energetiche primarie, in drastico calo rispetto al 72% di dieci anni fa al netto di una capacità totale di circa 1027 GW, più del quadruplo della rispettiva capacità statunitense o indiana (254 e 226 GW).

Un altro dossier interessante è quello delle Vie della Seta: la Cina promuoverà una crescita “green” nei Paesi attraversati dai corridoi economici ed infrastrutturali della Belt and Road Initiative? Uno studio di GreenPeace suggerisce il contrario: la Cina dal 2014 ha investito lungo la BRI nella generazione di 67.9 GW di energia basata sul carbone, mentre soltanto 12.6 GW da solare ed eolico.

La morale è che noi possiamo impegnarci quanto vogliamo, ma se Cina (e India in misura minore oggi ma in prospettiva domani) non ci seguono, il nostro lavoro rischia di essere inutile e controproducente.

Fonte: https://valori.it/la-cina-e-il-carbone-un-matrimonio-letale/

PERCHE’ LA CINA PUNTA SUL CARBONE, NONOSTANTE LE CONTROINDICAZIONI:

“Salvare l’ambiente per salvare l’impero”: con questa efficace formula titolava un saggio di Limes di inizio 2017. Nei numeri effettivamente si stima che l’eccessivo inquinamento costi alla Cina 38 miliardi di dollari e più di un milione di vite l’anno. La poca acqua a disposizione è in larga parte inquinata e responsabile di numerosi tumori all’apparato digerente, che vanno a sommarsi alle ancor più comuni patologie respiratorie dovute alla malsana aria che viene respirata.

Tuttavia le forze conservatrici, dalle burocrazie provinciali alle industrie di stato, ritengono che questo costo sia accettabile a fronte delle esigenze economiche e geopolitiche cui Pechino deve e dovrà far fronte.

Sono varie le ragioni alla base della love story tra Pechino e il combustibile fossile per eccellenza.

Innanzitutto intere aree del Paese dipendono ancora fortemente dal carbone e spesso le autorità locali concedono autorizzazioni per la costruzione di centrali allo scopo di raggiungere gli obiettivi economici prefissati. Inoltre nel breve/medio periodo Pechino deve limitare i danni causati dal confronto strategico con gli Stati Uniti, del tutto sottovalutato e non compreso nella sua grandezza dalla nomenclatura cinese per lungo tempo. Gli investimenti infrastrutturali messi in campo come parte di una politica fiscale espansiva hanno aumentato i consumi, in aggiunta a considerazioni sulla sicurezza degli approvigionamenti energetici. La dipendenza cinese dalle forniture petrolifere provenienti dal Medio Oriente è infatti una vulnerabilità che espone la Cina al potere arbitrario degli Stati Uniti, supremi controllori delle rotte marittime in grado potenzialmente di interrompere o sospendere il flusso di petroliere attraverso lo Stretto di Malacca. L’esigenza di affrancarsi dalla “trappola di Malacca” è appunto una delle ragioni alla base della Vie della Seta terrestri che attraversano l’Asia Centrale. Due dati riflettono la debolezza cinese: in primis la dipendenza dall’import di petrolio ha raggiunto il 72% lo scorso anno, il livello più alto degli ultimi 50 anni secondo BP 2019 Statistical Review; inoltre la Cina è anche destinata a diventare il primo importatore mondiale di gas nel 2020.

Il carbone, a differenza dell’oil e del gas, può essere prodotto a chilometro 0 riducendo enormemente il rischio geopolitico. Problematiche di questo genere erano meno pressanti fino a qualche anno fa (al tempo del Paris Agreement ad esempio), ma ora che le due superpotenze si contendono la primazia globale a carte scoperte nulla può essere lasciato al caso. Inoltre il carbone, se non viene tassato, continua ad essere la fonte energetica più economica: più emissioni e una bolletta meno cara costituiscono una tentazione allettante per fare fronte ad una domanda energetica in crescita.


CONCLUSIONI:

Quando Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi, molti condannarono la scelta del tycoon e la ritennero una delle cause del potenziale fallimento di quell’unione di intenti. La Cina addirittura si erse a paladina della responsabilità climatica e qualcuno le diede anche credito sull’altare degli ingenti investimenti nel rinnovabile. Guardando i dati si nota però che nel 2016 abbiamo inquinato un po’ più che nel 2015; nel 2017 l’1,6% in più che nel 2016; nel 2018 il 2% in più dell’anno prima (record assoluto) e nel 2019 si è registrato un +0,6% su base annua. Riassumendo, rispetto all’anno degli accordi sul clima (2015), le emissioni sono aumentate del 4%. E il contributo a questa crescita è venuto principalmente da Cina e India, non dagli USA di Trump. “Se l’accordo di Parigi fosse una locomotiva, forse andrebbe a carbone”, ha sintetizzato magistralmente Massimo Nicolazzi, Docente di economia delle risorse energetiche all’Università di Torino.

La realtà è che, nelle parole del già citato Professore, “la transizione non è un pranzo gratis; costa e ci costa”. E soprattutto non è solamente un tema di scienza, ma anche e soprattutto di consenso. Trasformare la consapevolezza sul rischio climatico in priorità è ancora un obiettivo lontano dal realizzarsi, soprattutto quando ciò confligge con imperativi di breve/medio termine difficilmente trascurabili.

Il carbone è indubbiamente sulla via del tramonto, ma questo crepuscolo potrebbe durare più del previsto. Pechino docet.


FONTI:

M. NICOLAZZI, Elogio del petrolio, Milano, 2019

T. NACE, C. SHEARER, A. YU, Out of Step, Global Energy Monitor, 2019

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