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Gender pay gap e la nuova legge italiana: da poco adottata e già superata?

Aggiornamento: 18 gen 2022

1. Introduzione


Nonostante il principio della parità retributiva per parità di lavoro tra uomo e donna fosse stato già introdotto con il Trattato di Roma del 1957, quando si parla di discriminazione di genere, il gender pay gap (GPG)[1] viene ancora considerato, all’interno delle politiche pubbliche, un indiscusso impedimento alla sua realizzazione in ambito lavorativo. Partendo dalla sua definizione generica [2], il GPG indica la differenza tra il salario medio percepito su base oraria tra uomini e donne rapportato a quello maschile. Si tratta di un indicatore che dà una dimensione numerica del valore che viene attribuito, e poi remunerato, al lavoro svolto dalle donne. Per questa ragione è importante calcolarlo e anche fare delle considerazioni su come ciò avviene.


Si tratta di uno strumento molto importante per avere il polso del grado di avanzamento della parità di genere, dal momento che la parità di remunerazione, e la maggiore autonomia economica che ne consegue, sono tasselli importanti per costruire una società più equa e paritaria, in cui le donne siano percepite come uguali alle loro controparti maschili e riconosciute nelle loro competenze professionali. Il GPG, quindi, aiuta a capire quanto manca per raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza e influenza il raggio di intervento delle politiche pubbliche.


La recente legge nazionale in materia di gender pay gap adottata dal Parlamento italiano lo scorso 26 ottobre mira proprio a superare questo divario retributivo puntando anche sulla brand reputation delle aziende private. Oggetto di critica non è tanto la validità delle misure che il testo normativo introduce, ma se tale intervento sia effettivamente superato, in vista della Direttiva europea proposta dalla Commissione Europea e in corso di discussione presso Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea.


2. Definire il GPG: il differenziale salariale ‘grezzo’ (unadjusted)


Occorre partire da una precisazione di base. La Commissione Europea, per mettere a confronto il GPG nei paesi dell’Unione europea, utilizza come indice di riferimento il differenziale salariale ‘grezzo’ per ora lavorata. Ovvero, un differenziale che non tiene conto le caratteristiche individuali che potrebbero spiegare una parte del divario.


Si tratta di un indicatore che ha il pregio della semplicità nel calcolare il valore differenziale e di fornire un quadro complessivo delle ineguaglianze retributive tra uomini e donne nel mondo del lavoro, ma presenta dei limiti fortemente distorsivi. Infatti, si mette a confronto la popolazione maschile e quella femminile senza dare risalto ad una serie di caratteristiche individuali che si presentano anche simultaneamente in entrambi i ‘gruppi’ (età anagrafica, anzianità lavorativa, livello d’istruzione, settore in cui lavorano, dimensioni dell’impresa in cui lavorano, ecc.), non fornendo indicazioni sulla disparità salariale tra uomini e donne per categoria professionale, occupazione, settore di attività e quindi non fornendo la corretta misura della discriminazione nel mercato del lavoro. In altre parole, uomini e donne hanno caratteristiche personali variegate (livello di istruzione), non fanno gli stessi lavori (le donne sono la maggioranza tra il personale infermieristico), sono impiegati in settori diversi (c’è un alta concentrazione femminile nell’ambito dei servizi alla persona) [3]. In generale, le donne incontrano maggiori difficoltà nel progredire nella carriera, come ha analizzato Internazionale in un suo articolo.

Tale definizione non è esente da critiche, accennate già sopra. Bisognerebbe interpretare il risultato, frutto del confronto di due popolazioni di lavoratori, considerando tutte queste differenze, poiché altrimenti si rischia di tralasciare fattori che influiscono nella determinazione della percentuale. Tuttavia, per poter descrivere il panorama italiano si deve necessariamente far riferimento a questo indice.


3. Un po’ di dati sul contesto italiano: a che punto siamo?


Sulla base degli ultimi dati disponibili, con riferimento al periodo del 2018, il differenziale retributivo di genere si posizionava al 6,2 % indicando, in apparenza, un livello basso di disparità salariale tra uomini e donne e un valore inferiore alla media europea (che si attesta al 15,3%). Tuttavia, come detto sopra, bisogna tener conto di tutta una serie di dinamiche sociali che vengono ad intrecciarsi con tale indice. Per esempio, il livello di occupazione femminile è tra i più bassi in Europa, precisamente ci troviamo al penultimo posto, nonostante la popolazione italiana sia composta al 51% da donne, che in media sono più istruite degli uomini.


Un altro dei fattori che sembra concorrere fortemente a determinare il differenziale salariale di genere è se ci troviamo nel pubblico impiego, cioè istituzioni pubbliche o delle imprese a prevalente controllo pubblico, o nel privato, cioè imprese sulle quali il controllo privato è totale o prevalente. Infatti, il differenziale sale al 17% se si considera solo il settore privato. A far scendere il valore percentuale del 2% in riferimento al settore pubblico, dove le donne sono maggiormente presenti (55,4 % degli occupati) è la mancanza di libertà nel determinare il salario che invece hanno le aziende. Inoltre, si registra anche la maggiore concentrazione di donne con elevato livello di istruzione e con più alta retribuzione oraria: le laureate hanno una retribuzione oraria di 22,6 euro, di ben 7,5 euro superiore a quelle delle laureate nel comparto privato; tra gli uomini la differenza si riduce a 4 punti, passando dai 26,1 euro nel pubblico ai 22,1 euro nel privato. Le donne guadagnano meno degli uomini soprattutto tra i dirigenti (27, 3%) e tra i laureati (18%) [4].


Bisogna anche considerare che la pandemia ha impattato sul dislivello retributivo: in Italia, si è avuto un generale congelamento dell’aumento delle retribuzioni, di pari passo con un consolidamento della situazione del GPG ai livelli preesistenti. Il calo del tasso di occupazione e il ricorso alla cassa integrazione si sono abbattuti in modo equivalente su tutti ma a patirne le conseguenze maggiormente le donne, proprio per la posizione di partenza già svantaggiata. Per avere una misura dell’impatto, basti dire che nel 2020 il numero di donne che hanno smesso di lavorare è stato più del doppio degli uomini e che nel 2021 dei 390 mila nuovi occupati il 70% erano uomini [5].


4. Le cause del GPG: il differenziale ‘aggiustato’ (adjusted)


Alla base della disparità salariale c’è la discriminazione di genere. Questo aspetto emerge misurando, contemporaneamente, proprio tutte quelle caratteristiche, insieme a quelle più propriamente dette strutturali, dei lavoratori/trici che vanno ad influire sul dislivello salariale, il c.d. differenziale salariale di genere ‘aggiustato’. Si tratta di un valore econometrico ‘corretto’ che in un paese come l’Italia, in cui il tasso di occupazione femminile è estremamente più basso rispetto a quello maschile e dove l'accesso al mercato del lavoro è più facile per le donne con livello di istruzione più alto, dovrebbe necessariamente includere per ottenere delle stime più precise. Per fare un esempio, secondo stime Eurostat, il divario retributivo orario medio italiano ‘non aggiustato’ nel 2014 era del 5,5%.


Correggendo questo divario per il salario orario medio, le ore lavorate e il tasso di occupazione, l’Eurostat calcolava un divario retributivo annuale del 43,7% [6]. In questo modo si riesce a comprendere quanto il divario sia non solo il frutto delle caratteristiche personali del lavoratore/lavoratrice ma anche della discriminazione, offrendo una prospettiva globale e veritiera sulle cause del fenomeno a livello di macrosistema. Il divario si evince non solo dal fatto che a parità di età, esperienza, livello di istruzione e mansione le donne sono pagate meno, ma anche dalle difficoltà ad accedere al mercato del lavoro in primis. La spiegazione può essere trovata, ma non solo, nel fatto che le donne sono spesso costrette a scegliere tra lavoro e famiglia, a causa dell’organizzazione del lavoro e degli obblighi di cura a loro carico [6]. Questo aspetto deve essere incluso nel misurare il GPG poiché mette in luce una discriminazione di genere nella remunerazione del lavoro vista in chiave sistemica.


5. Legge italiana sulla parità salariale


Il disegno della legge italiana in materia di parità salariale, che va a modificare il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna del 2006, si muove fondamentalmente su due linee: la prima prevede degli interventi mirati a contrastare preventivamente il gap retributivo di genere, attraverso misure premiali per le aziende che si adoperano a rimuovere le discriminazioni. La seconda mira a promuovere la parità salariale attraverso dei provvedimenti volti a favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. I soggetti destinatari di tali norme sono le aziende.


In estrema sintesi, le misure sono le seguenti: la previsione di una certificazione sulla parità di genere a partire da gennaio 2022 per le aziende (attesta le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere); la previsione di sgravi fiscali e premialità nei bandi di gara per appalti pubblici per quelle aziende che rispettano la parità salariale; l’obbligo per le aziende pubbliche e private con oltre 50 dipendenti (anziché 100 come prevede la normativa vigente) di redigere un rapporto ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato delle assunzioni; ai fini dell’accertamento degli obblighi stabiliti da questa legge si applicano le disposizioni in materi di poteri ispettivi del personale delle Direzioni del Lavoro; estensione del concetto normativo di discriminazione; monitoraggio dell’applicazione della legge presentando ogni due anni un rapporto al Parlamento da parte del consigliere/a nazionale di parità.


Questa nuova legge si pone l’obiettivo di sostenere le aziende ‘virtuose’ in tema di parità salariale e non solo, cioè che rispettano e diffondono le buone pratiche in materia di uguaglianza di genere. La ratio sottesa è di incentivare un certo tipo di cultura aziendale per ridurre sensibilmente il GPG fino ad azzerarlo. Lo strumento che questa legge decide di utilizzare è quello di una maggiore partecipazione delle donne attraverso una maggiore trasparenza delle politiche interne alle aziende.


6. Proposta di Direttiva volta a rafforzare l’applicazione del principio di parità salariale


La proposta di Direttiva (deve essere ancora approvata) è stata adottata nell’ambito della Strategia per la parità di genere 2020 – 2025 e pone l’accento sulla trasparenza delle retribuzioni e delle politiche aziendali per rafforzare il principio della parità di trattamento retributiva. La Direttiva dispone il diritto in capo ai lavoratori/lavoratrici di chiedere ai propri datori di lavoro informazioni sui livelli salariali medi ripartiti per genere. Le imprese, oltre a pubblicare sul proprio sito e in modo accessibile i dati, dovranno anche fornire risposta alle richieste in tempi ragionevoli e nel rispetto delle norme sulla privacy.

Inoltre, i candidati a posizioni lavorative potranno essere informati sul livello retributivo della posizione per la quale si presentano dall’azienda, mentre le aziende avranno il divieto di chiedere informazioni sulle precedenti retribuzioni dei candidati. La stessa direttiva europea prevede anche qui, per le aziende con oltre 250 dipendenti, l’obbligo di rendere pubbliche le informazioni sul divario retributivo, aggiungendo la valutazione periodica dei salari in collaborazione con le rappresentanze sindacali, elaborando interventi correttivi quando il divario sia pari o superiore al 5% e non sia giustificabile in base a fattori oggettivi. Infine, per gli Stati viene imposta l’adozione di un sistema sanzionatorio efficace, con l’eventuale previsione anche della revoca di erogazioni pubbliche e l’esclusione dalle gare d’appalto pubbliche.

7. Dalla trasparenza all’interno delle aziende alla ‘brand reputation’ e alla ‘diversity and inclusion’


Un aspetto su cui puntano gli interventi legislativi di cui sopra, accanto a quello economicamente ‘invitante’ degli incentivi fiscali, è il valore attribuito alla reputazione di un’azienda che incorpora all’interno della propria ‘identità’ la causa della parità di genere. L’informazione sui salari può diventare infatti parte della c.d. brand reputation delle società e un fattore attrattivo per il mercato del lavoro. Non solo, ciò che spinge il settore privato a valorizzare la parità di genere come parte della ‘cultura’ aziendale, creando il fenomeno della c.d. diversity and inclusion all’interno delle politiche aziendali, è la convinzione che possa richiamare investimenti e creare guadagni. Nella corrente narrativa alimentata dalle aziende stesse (vedasi come le Big Four della consulenza internazionale ne facciano valore e obiettivo della loro organizzazione interna) il focus giace sui vantaggi organizzativi che la diversità ha in termini di creatività, prospettive e innovatività, aspetti, anche questi, che incentivano i guadagni, come rilevato da Forbes.


Tanto per fare un esempio di questo trend aziendale, basta menzionare McKinsey & Company, che ha persino ampliato il ventaglio delle sue attività anche alla ricerca sul tema della gender equality. L’intuizione della diversità come leva di valore però non deve fermarsi ad aggiungere più lavoratrici nel proprio team, ma ad attuare un vero e proprio cambiamento di paradigma per poter supportare la presenza femminile ad ogni livello dell’organizzazione e in ogni ambito [7]. Un esempio di come questo spesso non succeda è dato dal settore Tech, dove a causa della pandemia oltre il 90% delle aziende con presenza globale non riesce ad applicare le proprie politiche di ‘diversity and inclusion’ all’interno del team tecnologici e IT (Capgemini Research Institute, “The Key to Designing Inclusive Tech creating diverse and inclusive tech teams”).


8. Conclusioni


Le iniziative legislative (fondate su un principio di trasparenza e sugli incentivi fiscali) e la spinta ad attrarre ‘talenti’ donne all’interno delle aziende data dalla ‘diversity and inclusion’ nascono dal comune intento di implementare azioni volte a favorire la parità di genere. Le prime operano su un piano esterno e normativo che vuole dare una spinta culturale e sociale a livello di sistema, mentre la seconda su un piano interno ed organizzativo per un cambiamento di paradigma nel management dell’azienda.


Nel confrontare la nostra legge nazionale con la proposta di Direttiva europea, ci sono sicuramente delle similarità nell’approccio alla riduzione del GPG e del conseguente rafforzamento della parità retributiva tra uomini e donne. Il fulcro poggia su meccanismi premiali e sulla trasparenza in merito ai salari, sul rispetto della riservatezza dei dati sensibili, sugli obblighi informativi periodici attinenti allo stato della parità e delle misure adottate per raggiungerla in concreto. Tuttavia, non si può non notare che sotto l’aspetto dell’incisività, l’iniziativa legislativa italiana appare tiepida rispetto allo ‘slancio’ che si prospetta voler adottare la Commissione Europea. Pubblicare i programmi per la riduzione del divario salariale e fissare una soglia percentuale sopra cui non si può sforare senza fornire giustificazioni oggettive, coinvolgendo i rappresentanti dei lavoratori, è lo step concreto che dovrebbe naturalmente seguire agli obblighi di trasparenza e pubblicità, colmando il gap salariale.


Per sapere come l’Italia deciderà di comportarsi in vista dell’adozione dell’iniziativa europea bisognerebbe perlomeno aspettare l’adozione dei decreti attuativi e lo sviluppo che seguirà l’iter europeo. Potrebbe rivelarsi un approccio normativo meno efficace rispetto alla direzione intrapresa dall’Unione Europea, costringendo l’Italia a dover tornare a legiferare nuovamente sul GPG, creando potenzialmente confusione o eventuali duplicazioni in termini di fonti normative. Una volta passato il vaglio politico di Parlamento e Consiglio, gli Stati Membri, e quindi l’Italia, avranno due anni per poter recepire la Direttiva nelle modalità più congrue agli obiettivi indicati. La scelta di adottare una legge sul tema della parità retributiva, senza neanche attendere l’adozione del testo legislativo europeo finale, è quasi certamente motivata dal voler dimostrare di soddisfare uno degli obiettivi trasversali del Recovery Plan tanto voluto e tanto atteso dall’Italia.


In conclusione, non si può fare a meno di osservare una mancanza comune a entrambe le iniziative: implementare non solo misure atte ad invogliare le aziende ad assumere donne, ma anche a eliminare quelle barriere all’ingresso del mercato del lavoro che le lasciano fuori e che sono legate al tradizionale ruolo di cura loro assegnato.

(scarica l'analisi)

Gender pay gap e la nuova legge italiana da poco adottata e già superata - Chiara Mele
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Bibliografia/Sitografia


[1] Tradotto in italiano: differenziale salariale tra uomo e donna.

[2] Non si è giunti ad una definizione unanime sul termine, cioè uniformemente condivisa tra paesi europei, ma questa fornita è quella maggiormente condivisa all’interno dell’Unione Europea.

[3] Ingenere, Gender Pay Gap, Come si calcola il differenziale salariale tra donne e uomini, quali informazioni ci dà e con quali limiti, Paola Villa, 23/04/2010, https://www.ingenere.it/articoli/gender-pay-gap.

[4] Come previsto dalle norme comunitarie, la rilevazione riguarda i lavoratori dipendenti, retribuiti nell’intero mese di ottobre 2018, nelle imprese e Istituzioni pubbliche con almeno 10 dipendenti. Istat, Report statistiche, La struttura delle retribuzioni in Italia – 2018, 18 Marzo 2021: https://www.istat.it/it/files/2021/03/REPORT_STRUTTURA_RETRIBUZIONI_2018.pdf.

[5] Gender Gap Report 2021, Mercato del lavoro, retribuzioni e differenze di genere in Italia, Jobpricing (https://www.jobpricing.it/blog/project/gender-gap-report/). La pandemia ha avuto un effetto devastante sul mercato del lavoro, colpendo in maniera prominente le lavoratrici donne, aumentando la disparità di genere: in Italia, a fine dicembre 2020 dei 101 mila posti di lavoro persi 99 mila erano occupati da donne, un dato che infierisce su una già basso tasso di occupazione rispetto alla media europea.

[6] Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), Rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, Anno 2020: https://www.ispettorato.gov.it/it-it/in-evidenza/Documents/Rapporto-annuale-2020.pdf. In un anno di pandemia 42 mila neogenitori si sono licenziati. Il 77% sono donne.

[7] Gender Gap Report 2021, Mercato del lavoro, retribuzioni e differenze di genere in Italia, Jobpricing: https://www.jobpricing.it/blog/project/gender-gap-report/.

[8] Marco Maglione, Sole24Ore “Competenze per l’inclusione in azienda oppure cambio di paradigma?”, 17 novembre 2020: https://www.ilsole24ore.com/art/competenze-l-inclusione-azienda-oppure-cambio-paradigma-ADwB6rq.

Per approfondire:

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