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Deus é brasileiro: la Teologia della Liberazione nel Brasile degli anni Sessanta e Settanta

Aggiornamento: 1 nov 2020


Introduzione: Deus é brasileiro

“Deus é brasileiro” non è solo il titolo di un film diretto da Carlos Diegues, con una sceneggiatura scritta da João Ubaldo Ribeiro. La pellicola racconta di quando Dio, intenzionato a concedersi un periodo di riposo, arriva nel Nord-est brasiliano alla ricerca di qualcuno che possa sostituirlo. “Deus é brasileiro” è anche e soprattutto un detto popolare che esprime un sentimento diffuso nelle percezioni collettive dei brasiliani sul proprio Paese.

Il Brasile è un Paese profondamente cattolico e i brasiliani lo definiscono con orgoglio il Paese cattolico più grande del mondo.

Nel censimento del 2010, l’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGE) ha rilevato che l’86,8% dei brasiliani si definivano cristiani, di cui il 64,6% cattolici e il 22,2% evangelici. Anche se gli evangelici stanno aumentando rispetto ai cattolici a tal punto da far parlare di una “transizione religiosa” in corso in Brasile, il Paese del Carnevale rimane – almeno per ora – la nazione cattolica più grande del mondo.

Storicamente, la scoperta e la colonizzazione del Brasile furono un’impresa condivisa della corona portoghese e della Chiesa cattolica. Le scoperte marittime portoghesi e la successiva creazione di nuovi insediamenti erano considerate dalla Chiesa come la continuazione della Riconquista della penisola iberica, occupata dagli arabi nel secondo decennio del secolo VIII. Al navigatore portoghese Pedro Álvares Cabral, che fu tra i primi scopritori del Brasile, era stata data una missione divina: ampliare le geografie della Cristianità, includendo il Brasile.

Col tempo, la religione importata dei portoghesi si è adattata al contesto assumendo alcune delle sue caratteristiche. Ad esempio, poiché la società coloniale brasiliana era estremamente decentralizzata e caratterizzata dalla presenza di pochi insediamenti urbani e di tante, ampie zone rurali controllate da grandi famiglie di proprietari terrieri, la religione era vissuta principalmente in piccole località isolate, dove l’influenza delle istituzioni cattoliche locali era debole, per non parlare di quella di Roma. Più forte, invece, si rivelarono le molteplici influenze indigene, africane e perfino orientali che contribuirono a trasformare profondamente il culto importato da Lisbona.

I diversi gruppi religiosi si sono spesso dimostrati utili nell’affrontare la lotta per la sopravvivenza dei popoli attraverso una serie di strategie materialistiche che vanno dalla semplice donazione di beni sottoforma di carità alla creazione di posizioni remunerate all’interno delle proprie istituzioni fino ad arrivare alla creazione di reti sociali di mutuo aiuto. Il Brasile in questo senso non fa eccezione.


Origini della teologia della liberazione: per una “Chiesa povera”

Per lungo tempo in gran parte dell’America Latina i problemi del sottosviluppo furono affrontati prevalentemente mediante le ricette tecnocratiche ispirate al desarrollismo, la versione latino-americana della teoria socioeconomica che prende il nome di “sviluppismo”, cioè attraverso l’industrializzazione e la strategia di incentivazione dell’esportazione delle materie prime.

Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Sessanta, sulla scia del rinnovamento promosso in occasione del Concilio Vaticano II (1962-68), una parte della Chiesa latino-americana cominciò a confrontarsi con i problemi della fame e della giustizia sociale.

La nascita della corrente di pensiero teologico che prende il nome di “teologia della liberazione” risale al 1968, in occasione della Consiglio episcopale latino-americano di Medellín. Nello stesso anno, il teologo peruviano padre Gustavo Gutiérrez scrisse Hacia una teología de la liberación, un saggio destinato a diventare il testo fondante della nuova teologia.

Negli anni successivi a Medellín, in tutta l’America Latina la Chiesa cattolica assunse la fisionomia di una “Chiesa povera”. In altre parole, le Chiese nazionali latino-americane accettarono un vero e proprio compromiso con i poveri, un impegno per affrontare le questioni della fame e della giustizia sociale. In effetti, la teologia della liberazione per la prima volta riconobbe i poveri come soggetti attivi e interlocutori privilegiati della Chiesa e della teologia, nonché come protagonisti del cambiamento sociale. Il carattere innovativo del nuovo modo di fare teologia, ad ogni modo, risiedeva – più che in ogni altra cosa – nell’identificazione della fede come prassi liberatrice. Ciò implicava inevitabilmente una lettura e un’interpretazione delle Scritture a partire dalla realtà politica e sociale, nonché una dimensione politica della fede, chiamata ad orientare trasformazioni anche radicali dello status quo.

Quali forme ha assunto la teologia della liberazione nella realtà del Brasile?

Il nuovo approccio della Chiesa arrivò in Brasile prima che altre zone dell’America Latina.

In seguito alla pubblicazione dell’enciclica Populorum Progressio di Papa Paolo VI il 26 marzo 1967, la Chiesa brasiliana si sintonizzò con le istanze di quei gruppi delusi dalle politiche desarrolliste.

Senza pretendere di essere esaustivi, di seguito si analizzeranno tre settori in cui la teologia della liberazione ha avuto un impatto rilevante per la società brasiliana: l’istruzione, l’assistenzialismo e la difesa dei diritti umani durante il regime militare.


La liberazione è una pedagogia degli oppressi

In quegli anni, questo cattolicesimo sociale fu adottato innanzitutto dal Movimento di Educazione di Base, attraverso il quale la Chiesa promosse l’alfabetizzazione in oltre cinquanta diocesi e incoraggiò una maggiore consapevolezza politica e sociale.

L’istruzione, che da sempre era prerogativa della Chiesa in moltissime società latino-americane, fu fortemente influenzata dal nuovo approccio teologico. Tale approccio fu supportato dalla pubblicazione, avvenuta nel 1970, del saggio Pedagogia degli oppressi del pedagogista brasiliano Paulo Freire.

La pedagogia degli oppressi è, in fondo, la pedagogia degli uomini che si impegnano nella lotta per la propria liberazione. (…) Nessuna pedagogia realmente liberatrice può rimanere distante dagli oppressi[1].

La liberazione di cui parla Freire consiste innanzitutto nel risolvere il problema della coscienza degli oppressi. La consapevolezza di sé stessi, in quanto oppressi, è pregiudicata dal fatto di trovarsi immersi in una realtà creata dagli oppressori. A causa di ciò, molti oppressi ambiscono a diventare oppressori, perché l’oppressore è l’unica figura umana che conoscono.


La liberazione è mutuo soccorso

La forma più originale che assunse la nuova posizione dottrinale della Chiesa cattolica brasiliana è senza dubbio rappresentata dall’adozione delle Comunità Ecclesiastiche di Base come strategia pastorale.

Le CEB si svilupparono tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta come piccole entità in grado di avvicinare le istituzioni ecclesiastiche ai settori più svantaggiati della società brasiliana. La loro creazione fu fortemente supportata dal Concilio Vaticano II, così come pure dagli incontri CELAM di Medellin del 1968 e di Puebla del 1979.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, dunque, centinaia di CEB brasiliane non emersero spontaneamente, ma furono il risultato delle strategie e delle azioni officiali della Chiesa brasiliana, che inserì la loro adozione nel Piano Pastorale congiunto degli anni 1966-70.

Le Comunità assunsero le forme più svariate: si trattava di gruppi di evangelizzazione, gruppi di riflessione, circoli di lettura della Bibbia, gruppi in cui si promuoveva la consapevolezza dei diritti, gruppi di preparazione della liturgia e dei sacramente, gruppi assistenziali, gruppi di madri, gruppi giovanili, cooperative ecc.

In questo modo, la Chiesa riuscì ad esercitare una discreta influenza in un contesto storicamente altamente decentrato, nel quale le strutture centralizzate facevano fatica ad entrare in contatto con la quotidianità dei fedeli e con le sue problematiche.

Per quanto le CEB fossero principalmente raggruppamenti religiosi, è innegabile che abbiano avuto delle implicazioni sociopolitiche. Di fatti, poiché generalmente erano collocate alla periferia dei centri urbani o nelle zone rurali, spesso esse offrivano una risposta concreta a questioni rilevanti per la vita quotidiana dei poveri del Brasile, quali la proprietà della terra e la mancanza di servizi di base come acqua e trasporti.


La liberazione è consapevolezza dei diritti

Negli anni Settanta, man mano che il regime diventava sempre più autoritario, la Chiesa brasiliana si fece carico della missione profetica di denunciare le ingiustizie, difendere i poveri e, soprattutto, tentare la loro liberazione.

Quando divenne ovvio, a metà degli anni Settanta, che il governo della giunta militare si stava rendendo responsabile di flagranti violazione dei diritti umani, questa liberazione cominciò a passare anche attraverso il ruolo della CNBB, Conferencia Nacional dos Bispos do Brasil, che sponsorizzò una serie di campagne per stimolare la discussione intorno al tema dei diritti umani.

A questo scopo fu istituita una Commissione di giustizia e pace, assistita da una serie di altre commissioni diocesane create su scala regionale e impegnate in una serie di attività che andavano dalla pubblicazione di una letteratura sui diritti umani accessibile a tutti alla fornitura di supporto alle vittime del regime e alle loro famiglie.


Capitani della spiaggia

Nel suo romanzo “Capitani della spiaggia” di Jorge Amado, uno dei padri della letteratura brasiliana contemporanea, ha involontariamente affrontato il tema del legame tra povertà e religiosità nella società brasiliana.

Il libro racconta le avventure di una banda di meninos de rua di Salvador Bahia, che per sopravvivere commettono furti ai danni delle “famiglie per bene” della città. La loro vita non è facile, costretti come sono ad affrontare i pericoli legati all’incertezza quotidiana, il rischio di finire in riformatorio e la meschinità di una serie di personaggi che ruotano intorno al loro fragile universo. Don José Pedro è uno dei pochi adulti in grado di guadagnare la loro fiducia e disposto ad aiutarli, nonostante i ripetuti richiami della Chiesa che li considerava – così come gran parte della Salvador “bene” – una banda di ladri pericolosi e violenti.

Al Seminario gli avevano insegnato ad obbedire. Poi si ricordò dei ragazzini. Nella sua memoria passavano le figure di Pirulito, Pedro Pallottola, Professore, Senza-gambe, Bella Vita, Gatto. Quei ragazzini dovevano essere salvati. Dopo tutto i bambini erano la maggiore ambizione di Cristo. Si doveva tentare in ogni modo di salvare quei ragazzini. Non era colpa loro se si erano persi[2].

Il romanzo di Jorge Amado è datato 1936, un’epoca quando la teologia non era ancora liberazione. Eppure, Don José Pedro ricorda i membri della Chiesa che, alcuni decenni più tardi, divennero sostenitori della Teologia della Liberazione.


Note

[1] P. Freire, Pedagogia do Oprimido, Paz e Terra, 69ª edição, 2019, cap. 1

[2] J. Amado, Capitães da Areia, Bisleya, Alfagride, p.158


Bibliografia

· C. L. Mariz, “A religião e o enfrentamento da pobreza no Brasil”, in Revista de Ciências Sociais, n. 33, ottobre 1991

· J. Amado, Capitães da Areia, Bisleya, Alfagride

· P. Freire, Pedagogia do Oprimido, Paz e Terra, 69ª edição, 2019

· S. Scatena, La teologia della liberazione in America Latina, Carocci editore, 2017;

· T. C. Bruneau, The Church in Brazil. The politics of Religion, University of Texas Press, Austin, 1939.


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