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Decolonizzare l’islamofobia per comprendere la radicalizzazione

Aggiornamento: 4 set 2021

women musulmans
[© Laurent Cipriani/AP Fonte: https://www.opensocietyfoundations.org]

1. Introduzione


La stigmatizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali è uno degli elementi che può favorire la loro radicalizzazione. Quali principi legittimano il loro status di cittadini di seconda classe? E in che termini il concetto di islamofobia risulta fuorviante per comprendere le loro condizioni di vita? Quest’analisi offre alcuni spunti di riflessione su tali tematiche attraverso un approccio post-coloniale [1] che, mettendo in evidenza i limiti ontologici ed epistemologici del discorso antirazzista europeo, permette di leggere in chiave diversa il rapporto tra razzismo anti-musulmani e radicalizzazione.


2. Il rimosso coloniale del discorso antirazzista europeo


Secondo il politico americano Henry Kissinger (2018) [2] il Medio Oriente, inteso come significante della civiltà islamica, è un’area del mondo in cui ogni forma di ordine interno e internazionale esistita nella storia è sempre stata respinta. “Una profusione di assolutismo profetico è stata il tratto distintivo di una regione sospesa tra il sogno del passato e l’incapacità contemporanea di unificarsi intorno a principi comuni di legittimità interna o internazionale’’. La sua tesi è sulla stessa linea d’onda della teoria dello scontro di civiltà di Samuel Huntington (1993) [3] diventata molto popolare tra gli anni Novanta e Duemila. Questa profetizzava un futuro di guerre tra le varie culture del mondo sottolineando il fatto che la superiorità economica, ideologica e culturale dell’Occidente è irraggiungibile dalle ex-colonie europee del Medio Oriente e del Nord Africa in quanto permeate da una cultura per sua natura belligerante e antidemocratica, ovvero l’Islam.


Una serie di eventi che si sono succeduti dalla fine del secolo scorso fino ad oggi - la Rivoluzione Iraniana, la guerra civile in Algeria, l’attentato terroristico del 9/11 e l’ascesa dello Stato Islamico in Siria e Iraq - hanno contribuito alla diffusione di un’immagine distorta degli individui provenienti dai paesi a maggioranza musulmana come minaccia alla sicurezza delle società occidentali. Nel discorso pubblico si è fatta larga una visione monolitica dell’Islam inteso come sistema di pensiero e modello comportamentale per sua natura aggressivo e incompatibile con il retaggio culturale dell’Occidente. Negli ultimi anni questa retorica è stata fortemente mobilizzata dai partiti populisti di destra per ottenere il consenso della popolazione e giustificare le loro politiche anti-migratorie.


Facendo un passo indietro, alla fine del secolo scorso il report Islamophobia: A Challenge for Us (1997), pubblicato dal think tank britannico Runnymede Trust, ha messo in luce le diverse forme di discriminazione a cui sono sottoposte le comunità musulmane nella società britannica definendo l’islamofobia come un timore infondato nei confronti dell’Islam veicolato principalmente dai media. La soluzione a questa situazione viene individuata nell’integrazione dei musulmani nella società attraverso la messa in discussione degli stereotipi e delle false immagini largamente diffuse. Negli anni seguenti, diversi autori occidentali hanno [4] dato una loro definizione, parlando di islamofobia come una forma di ansia sociale e intolleranza religiosa. La maggior parte di loro ha puntato il dito contro i movimenti populisti di destra in quanto ritenuti i principali responsabili della diffusione di sentimenti di odio contro le comunità musulmane in Europa.


D’altra parte, pensatori lontani dai centri di produzione del sapere europeo [5] hanno sottolineato il fatto che parlare di islamofobia in tali termini è errato in quanto non permette di comprendere in che misura la stigmatizzazione dei musulmani sia istituzionalizzata nelle politiche statali. Al loro avviso, infatti, l’islamofobia è una delle varie forme di razzismo che sono state utilizzate dalle classi dominanti bianche e occidentali, ossia la whiteness, per preservare la loro superiorità sulle altre classi sociali costruite come “altre’’ attraverso un processo di astrazione e razzializzazione di alcune loro caratteristiche. Nel caso dei musulmani provenire dalle ex-colonie europee o semplicemente parlare la lingua araba.


3. Razzismo e radicalizzazione


Secondo una prospettiva post-coloniale è evidente che il multiculturalismo, ovvero l’idea che promuovere l’integrazione tra le diverse culture attraverso la mediazione e il dialogo, non è nient’altro che una delle strategie colonizzatrici utilizzate dalle élite al potere per assimilare i migranti in una posizione di subalternità rispetto ai gruppi dominanti. Le comunità razzialmente costruite, come è il caso dei musulmani, infatti, continuano ad essere sottoposte a politiche discriminatorie e misure eccezionali. Viene de sé che i rapporti di potere restano inalterati producendo, a diversi livelli di consapevolezza, simboli e discorsi che legittimano l’alienazione e l’isolamento di gruppi sociali costruiti come ‘’altri’’ secondo l’ordine del discorso dominante.


Alla luce di ciò, non sorprende il fatto che diversi studi – come quello di Veldhuis (2009) [6] - hanno dimostrato che i musulmani non si identificano con le istituzioni politiche occidentali. Questo senso di apatia politica aumenta il rischio di radicalizzazione da parte dei soggetti più vulnerabili, come confermato dai vari modelli di radicalizzazione, in quanto risulta più facile in questo contesto per le reti jihadiste persuadere gli individui razzializzati a considerare l’estremismo come l’unico strumento per realizzare un riscatto sociale in un contesto socio-economico in cui sono sottoposti a una distribuzione diseguale del potere e della ricchezza.


Gli studi riguardo la radicalizzazione, ovvero l’adozione di un’ideologia estremista da parte degli individui, hanno più volte evidenziato il fatto che le reti dell’estremismo trovano più facilmente nuovi seguaci in contesti socioeconomici precari dove, secondo un’organizzazione neoliberale dello spazio, si trovano gli individui maggiormente sottoposti a pratiche razziste. Nella fattispecie dell’estremismo jihadista, sono diversi i modelli che descrivono le fasi del processo di radicalizzazione. La maggior parte sottolinea che l’alienazione sociale è un fattore che ben permette alle ideologie estremiste di attecchire creando nuovi radicalizzati. Il modello a cerchi di Sageman [7] individua sei fasi che vanno dall’alienazione alla socializzazione radicale. Un altro modello è quello di Taarnby [8], secondo cui a un momento iniziale di alienazione individuale e di marginalizzazione segue la ricerca della spiritualità da parte dell’individuo che inizia a mettersi in contatto con altri che condividono l’ideologia estremista. Una volta intercettato dai circoli jihadisti il soggetto può essere indotto ad accettare la violenza come mezzo politico legittimo.


4. Conclusione


Il discorso antirazzista europeo definisce l’islamofobia come un insieme di emozioni e atteggiamenti negativi verso l’Islam. Le cause della loro diffusione sono identificate nell’aumento del numero di attentati di matrice jihadista e l'ascesa dei partiti populisti di destra. Questa visione porta a mascherare il razzismo antimusulmano dalla struttura materiale e costitutiva dell’Occidente rendendo impossibile identificare le finalità politico-economiche della razzializzazione stessa dei musulmani - assicurare la superiorità della whiteness - e l’istituzionalizzazione stessa delle pratiche razziste. Al contrario, uno sguardo postcoloniale permette di decostruire tali immagini aiutandoci a comprendere in che misura i percorsi di radicalizzazione, che avvengono in contesti socioeconomici precari dove l’indottrinamento estremista può farsi largo più facilmente, si intersecano con la gestione del potere e delle ricchezze di natura razzista iscritta nella storia dell’Occidente.


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Bibliografia e consigli di lettura


[1] La teoria postcoloniale (Post-colonial theory) è un insieme di teorie filosofiche e letterarie legate agli area studies anglosassoni che si sono sviluppate tra gli anni Sessanta e Settanta con le opere di intellettuali quali Frantz Fanon ed Edward Said. Questa branca di studi ricostruisce le linee di continuità e di frattura esistenti nei rapporti di forza tra le potenze occidentali e le popolazioni coloniali dall’età coloniale ad oggi (età post-coloniale)

[2] Henry Kissinger (2014), World Order, Penguin Books Limited

[3] Huntington Samuel (1993), The Clash of Civilizations?, Foreign Affairs, 72(3),

[4] Gabriele Marranci (2004), Multiculturalism, Islam and the clash of civilisations theory

rethinking Islamophobia, Culture and Religion, 51

[5] Deepa, Kumar (2017), Islamophobia and Empire: An Intermestic Approach to the study of

Anti-Muslim Racism, in Narzanin Massoumi, Tom Mills and David Miller (eds.), ‘’What is

Islamophobia?’’ Racism, Social Movements, and the State, University of Chicago Press


Kundnani, Undnani (2007), The End of Tolerance: Racism in 21st Century Britain, Pluto Press


Modood, T. (2018) Islamophobia: A Form of Cultural Racism, A Submission to the All-Party

Parliamentary Group on British Muslims in response to the call for evidence on ‘Working Definition of Islamophobia, 1 June 2018


[6] Bakali Naved (2016), Islamophobia Understanding Anti-Muslim Racism through the Lived

Experiences of Muslim Youth

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