top of page

DALL’ISOLA DI JEAN CHARLES FINO AL GANGE - Non è Jules Verne, queste sono le migrazioni ambientali

Aggiornamento: 14 nov 2020

I migranti ambientali negli USA: dalla Louisiana all’Alaska

L’isola di Jean Charles non è un lembo di terra disperso nell’Oceano Pacifico, lontanissima da luoghi conosciuti, inarrivabile e misteriosa. Non è un’enigmatica isola vulcanica che appartiene a qualche stato occidentale per puro caso storico o contingente. Non è un luogo pieno di meraviglie nel sottosuolo, chessò, venature d’oro, miniere di diamanti, luogo di leggende sui pirati. Spesso è più semplice descrivere le cose e le situazioni in questo modo, dicendo quello che non sono, magari sminuendole; “non è necessario”, “non è importante” e, in questo caso, potremmo dire “non è così popolosa”. E quest’ultima frase è l’unica vera di tutte le storielle sopra citate.

L’isola di Jean Charles è in Louisiana, ma non nella Louisiana famosa, quella della musica jazz, dei colori, degli strascichi della cultura francese e del voodoo per i turisti. L’isola di Jean Charles è nel Bayou, nelle paludi, appena appena distante dalla costa. Questa è la Louisiana di periferia, quella pervasa dalla nebbia e piena di abitanti coraggiosi che sembrano di un altro mondo se si pensa alla loro storia e alla forza che hanno nelle gambe, negli occhi, nei polmoni e nel cuore. Lì non si sentono fanfare, turisti scalpitanti in cerca di un souvenir; lì si sente il suono della nebbia, il fruscio delicato del vento che fa increspare l’acqua immobile delle paludi. Si respira umidità e si fa attenzione alla luna e alle sue fasi, si impara a conoscere le maree fin da piccoli. Si impara l’acqua che si ritira e che poi ritorna.

L’isola di Jean Charles non esiste più, ha subito un lungo e inesorabile declino dagli anni ’50 ad oggi, svanendo nel mare ormai per il 98%. In questo caso non è di certo a causa della luna e delle maree, non c’è, in effetti, una bella spiegazione poetica che parla di morte e rinascita, di inesorabilità del destino, di una divinità marina infuriata o del caso. Anzi, la spiegazione è sufficientemente reale e direi abbastanza banale anche: le estrazioni petrolifere a largo della Louisiana e del Golfo del Messico, alla fine, ingoiano le case e i popoli.

Ma insomma, chi ci vive in questa isola a sud-ovest di New Orleans? Chi vive in quelle zone che dall’alto sembrano occhi blu che cercano di riemergere da un terreno fangoso? Chi vive in mezzo a questa poesia, a questa unione di sacro e profano, a questa volgare delicatezza di verde, azzurro e fango? Si chiamano Biloxi-Chitimacha-Choctaw, una popolazione mista con una storia incredibile. Spesso le sfide e la sopravvivenza restano nel nostro DNA. La migrazione, il cambiamento, ci accompagna come i capelli rossi della nostra bisnonna, o gli occhi scuri di un prozio.

Ecco, mentre i Choctaw, tribù di Indiani d’America, sono, possiamo dire, originari del luogo abitandolo dal 1600, il resto, invece, sono Cajun, fiera ed enigmatica popolazione francofona proveniente dall’Acadia francese. Dopo il 1713 con il Trattato di Utrecht quest’ultima diventerà la Nuova Scozia inglese, creando non pochi problemi ai Cajun. Il trattato, che cambierà i piani di migliaia di persone, è figlio di un evento che accadeva a 7500 chilometri di distanza da questa popolazione: la guerra di successione spagnola. La Francia, sconfitta, si affretta a far cessare la guerra firmando un trattato di pace con cui cederà all’Inghilterra parte dei suoi possedimenti americani, tra cui, appunto, l’Acadia. La neonata Nuova Scozia, con le sue esigenze e le sue necessità, riteneva opportuno che la popolazione Cajun stipulasse un atto di fedeltà con il governo inglese e, come in tutte le migliori narrazioni epiche ed eroiche, questa popolazione decide di non acconsentire.

È così che inizia il viaggio incredibile dei Cajun, che dalle montagne innevate della Nuova Scozia li porterà ad incontrare il mare. Il primo a raccontarci di questa avventura è il poeta americano Longfellow che scriverà di questo esodo nel commuovente poema Evangeline. Nella sua grazia e pudicizia, che solo un poema del 1847 sa avere, ugualmente riesce a descrivere con freddezza e realtà un esodo durato anni, anni di smarrimento, di morte e di innocenza. L’innocenza di un popolo così poco colpevole da non capire il perché di tutto questo.

Deportati in Louisiana, parte dei Cajun arriveranno all’isola di Jean Charles facendone la loro casa e aprendosi alla cultura degli Indiani d’America, dando così vita ad una popolazione rara e straripante di cultura e tradizioni diverse: dall’animismo nativo americano ad un misto di culti cattolici e pagani portati dai Cajun franco-africani. Ed ecco cosa nasce: il culto della natura, dei suoi equilibri e un misto di festività ricche di devozione e di mistero. Un popolo pacifico e aperto che ha conquistato con fatica la propria isola. Sono 400 gli abitanti dell’isola di Jean Charles, e parte di questi rifiutano di lasciare la loro terra nonostante, in breve tempo, non esisterà più.

Nessun presidente americano si è interessato a questa popolazione dall’inizio delle trivellazioni, anche perché, molto probabilmente, non si conoscevano esattamente le conseguenze che purtroppo si sono palesate negli anni recenti. Il problema della scomparsa dell’isola di Jean Charles e del futuro della Louisiana comincia a diventare noto durante il governo Obama. Il Presidente deciderà di dimezzare le trivellazioni nelle coste americane per proiettare gli Stati Uniti nel futuro e per evitare disastri ambientali stanziando, oltretutto, 48 miliardi di dollari per dare vita al primo progetto di ricollocazione collettiva per motivi climatici negli Stati Uniti. È storia ormai, e non più un punto di vista, che l’industria estrattiva ha contribuito alla sparizione delle paludi e delle foreste che proteggevano le coste della Louisiana e la costruzione di oleodotti e canali per l’estrazione del gas naturale ha reso la terra più vulnerabile. È un po’ come quando da bambini infiliamo un piede sotto la sabbia che sembra così compatta tutta insieme, così impenetrabile, e invece crolla su se stessa regalandoci la prima lezione sul fenomeno della sedimentazione, di vitale importanza vicino ai corsi d’acqua o al mare.

Il governo Trump ha cambiato le carte in tavola erogando concessioni petrolifere per cinque anni (2019-2024) e dimezzando i fondi stanziati da Obama per la ricollocazione della popolazione dell’isola di Jean Charles. La ricollocazione, in ogni caso, è già in atto e quasi conclusa.

La storia, le abitudini, la cultura e il loro passato straordinario aiuteranno questa popolazione di nuovo, anche in questo piccolo esodo appena più a nord, sempre in Louisiana, in un’isola considerata più sicura. Anche se non è difficile immaginare quale possa essere il futuro di uno Stato paludoso e aperto verso l’oceano se queste trivellazioni dovessero continuare a pieno regime. Forse la popolazione di Indiani d’America e Cajun fra altri 50 anni dovrà spostarsi di nuovo e ancora più a nord, forse persino New Orleans dovrà essere ricollocata, forse dovremmo ricordarci più spesso di quei giochi con la sabbia da bambini.

La frase tanto abusata “conseguenza delle trivellazioni” non deve farci pensare solo alla popolazione dell’isola di Jean Charles che ha pagato un prezzo altissimo. Questa frase significa piuttosto che il progetto di ricollocazione collettiva per motivi climatici sopra citato non è più l’unico, ma il primo di una lunga serie per gli Stati Uniti. Spostiamoci a nord, così a nord da vedere solo neve e ghiaccio. Arriviamo in Alaska per parlare prevalentemente di tre città: Newtok, Kivalina e Shismaref. Orgogliose lingue di ghiaccio sul mare, bianche ed immerse in un blu scuro che sa di immensità e di freddo. La popolazione Inuit che abita questi luoghi è umile e poco numerosa ma, come la sua terra insegna, con la testa alta anche durante l’inverno più rigido. Si pesca prevalentemente salmone e si caccia caribù, ed è solo quando ghiaccia tutto che la popolazione può pescare di più, è solo quando ghiaccia tutto che le loro città sono protette dall’erosione marina, dalle tempeste e dai cambiamenti che solo un inverno così rigido sa portare. Purtroppo non c’è più tutto quel ghiaccio, purtroppo anche qui l’estrazione petrolifera e il riscaldamento globale danno vita a due fenomeni gemelli: il ghiaccio si scioglie e il terreno sprofonda. È questo che la popolazione Inuit delle coste dell’Alaska deve affrontare, è questo il frutto che deve raccogliere. Ed ecco un nuovo progetto di ricollocazione per cui il governo Trump ha stanziato 15 milioni di dollari.

Lo spessore del ghiaccio in cui questa popolazione è cresciuta ha evidentemente lasciato una traccia nell’animo degli abitanti che, nel 2008, hanno deciso di denunciare alcune compagnie petrolifere, tra cui Shell, Exxon e British Petroleum dando vita alla prima causa di global warming negli Stati Uniti.

I casi della Louisiana e dell’Alaska si inseriscono esattamente nel filone delle migrazioni ambientali, ma visto che risulta essere una migrazione interna, in questo caso parleremmo di “sfollati”. Se analizziamo la differenza fra questo genere di sfollato e un migrante ambientale transfrontaliero notiamo che l’unica evidente è che nella prima ci si muove all’interno del proprio Stato e nella seconda si va oltre i confini della propria nazione per spostarsi altrove. La cosa che non cambia è la necessità incontrovertibile di spostarsi, principalmente perché non si ha più la terra sotto i piedi.

Chi sono i migranti ambientali?

È interessante analizzare la questione sotto un punto di vista leggermente diverso da quello corrente: i migranti ambientali vengono da uno scenario futuro che diventa sempre più reale. Sono popolazioni che effettivamente vengono dal futuro: i dati della Banca Mondiale parlano di 143 milioni di migranti climatici entro il 2050.

Ma non è il numero ad essere allarmante, piuttosto lo è l’idea che questa categoria di migranti non è protetta dal diritto internazionale e tantomeno dal diritto europeo. Infatti né la Convenzione di Ginevra del 1951 né, ad esempio, la Direttiva Qualifiche dell’UE del 2011 contemplano esplicitamente la tutela dei migranti climatici. Questi strumenti giuridici, infatti, forniscono protezione al rifugiato che è costretto ad abbandonare il suo paese per timore di essere perseguitato a causa della sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. Riguardo il migrante ambientale non esiste una definizione normativa, non è presente in convenzioni e trattati, ma è stata esplicitata in un rapporto UNEP nel 1985. Vengono descritti come persone o gruppi di persone che, per ragioni legate ad un cambiamento ambientale, improvviso o progressivo, che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare il proprio territorio temporaneamente o definitivamente, e che perciò si spostano dentro al loro Paese o ne escono.

Per via dei numeri e per la mancanza di tutele il fenomeno della migrazione ambientale è diventato un tema molto discusso negli ultimi anni ma articolato in modo più politico che umanitario o oggettivo, facendolo diventare, alle volte, uno slogan di particolare importanza e di ossessiva manipolazione. Il caso statunitense ci rende consapevoli che questi fenomeni non accadono solo in Paesi lontani, remoti, poveri, popolati da persone tacciate con il titolo di “migranti economici” che, per loro natura, sono assolutamente diversi dai migranti ambientali. Un migrante economico, per definizione, si muove volontariamente in cerca di condizioni di lavoro più favorevoli e per migliorare il proprio stile di vita. La migrazione ambientale, di contro, parla di uno spostamento assolutamente forzato.

Nel caso degli USA le suddette popolazioni possono contare su un governo forte, presente e con un certo livello di welfare. Parliamo di una nazione leader, una nazione che per la sua vastità non è affatto sovrappopolata, che può godere di grandi spazi e di una notevole capacità economica per soccorrere e ricollocare i suoi “migranti climatici interni”.


Quando uno Stato non può provvedere alla ricollocazione dei propri sfollati: il caso del Bangladesh

Dimentichiamoci per un attimo dei possenti Stati Uniti d’America e della loro “migrazione interna”, e pensiamo, ad esempio, al Bangladesh. Nazione che sorge fra l’India e la Birmania, colma di foreste, di acqua e ricchissima di popolazione, esattamente 168 milioni. Per rendere meglio l’idea è estesa la metà della superficie italiana contenendo quasi il triplo degli abitanti. Troppo poco spesso si dice che il sud del Bangladesh sta, piano piano, svanendo per tuffarsi dentro il Golfo del Bengala. Il delta bengalese è il più ampio del pianeta, rimpolpato dal Brahmaputra, dal Gange e dal Meghna.

Sicuramente è un luogo unico, in cui gli abitanti si sono dovuti molto spesso reinventare per sopravvivere passando, ad esempio, dalla coltivazione intensiva del riso all’acquacoltura di granchi e pesce a causa dell’infiltrazione di acqua salata nel terreno. Un ecosistema fragile e vulnerabile di fronte al cambiamento climatico che sta facendo scomparire la costa. I dati del Bangladesh Centre for Advanced Studies parlano di ripercussioni per il 17% del territorio nazionale che coinvolgerebbe 22 milioni di persone. In questo caso non è l’estrazione petrolifera a fare da padrona, piuttosto il responsabile principale è lo scioglimento dei ghiacciai, che in questa zona del mondo ha ripercussioni ben più gravi della media. Si calcola che l’innalzamento del livello del mare sia di 3,2 millimetri all’anno, in Bangladesh raggiunge gli 8 millimetri. In poche parole, presumibilmente, la vita del sud del Paese è di circa 50 anni, meno della vita media di un essere umano. Ma andiamo oltre; se l’inquinamento mondiale provoca lo scioglimento dei ghiacciai ad accelerare l’erosione della costa bengalese sono state le operazioni di ingegneri statunitensi e olandesi che negli anni ’60, per aumentare la produzione di riso, hanno costruito un gigantesco sistema di argini artificiali impedendo le inondazioni stagionali del delta. Così facendo, il terreno delle aree interessate, si è abbassato di almeno un metro. La situazione catastrofica del sul del Bangladesh non deve essere vista solo in una prospettiva futura, non ci sono 50 anni di tempo, questo fenomeno accade oggi e già da parecchi anni. Prima che il terreno cominciasse a franare sott’acqua i nonni degli attuali abitanti del delta erano costretti a migrare a causa della salinizzazione delle falde acquifere che impediscono l’accesso all’acqua potabile. In Bangladesh i migranti ambientali esistono da sempre, prima ancora che venisse coniato questo termine, rendendo gli antenati degli abitanti del luogo precursori, uomini moderni. Nonostante la modernità arrivi dal centro, in periferia ne arrivano prima gli effetti, le conseguenze.

È scontato dire che ci siano delle enormi differenze fra il Bangladesh e gli Stati Uniti, ma quelle che si vogliono sottolineare con attenzione sono sicuramente due: la potenza economica e la sovrappopolazione. Il popolo che vive nella zona sud del Paese non può spostarsi a nord, perché il nord è estremamente popoloso e non ci sono possibilità di nessun tipo. Il Bangladesh è uno dei numerosissimi esempi che possono essere fatti; si potrebbe parlare della desertificazione in Africa del lago Ciad o quella del lago Turkana che spinge le popolazioni a migrare. La cosa che più colpisce è che queste situazioni non solo portano, per forza di cose, le persone a spostarsi, ma soprattutto il fatto che qualora volessero restare nelle terre dei loro antenati, cosa che, in fondo, piacerebbe a tutti, un processo di migrazione interna come quello statunitense risulterebbe impossibile.

Allo stato attuale non esiste una soluzione diversa dalla migrazione ambientale transfrontaliera per queste popolazioni che, come abbiamo visto precedentemente, non sono protette dal diritto internazionale. A questo punto potrebbe esistere una soluzione giuridica, magari un’applicazione estensiva della Convenzione di Ginevra viste le similitudini tra la figura del migrante ambientale e quella del rifugiato. Soprattutto perché, come si è spesso riscontrato, è rischioso far decidere al singolo Stato di arrivo il destino di queste popolazioni che hanno visto letteralmente scomparire la loro terra. Tuttavia, le decisioni degli Stati sono irrimediabilmente inondate di opportunità politiche e di ricerca ossessiva di un capro espiatorio che, possibilmente, è meglio venga dall’esterno.

La cronaca, infatti, ci racconta che gli Stati decidono autonomamente, nonostante la firma di trattati internazionali di questo tipo. Allora probabilmente sarebbe meglio orientarsi diversamente, magari la chiave non è la Convenzione di Ginevra ma piuttosto una interpretazione estensiva delle normative regionali a riguardo. L’Unione Europea, ad esempio, soprattutto dopo l’ondata populista, si è concentrata piuttosto sull’esternalizzazione e sulle politiche di cooperazione allo sviluppo concepite per risolvere alla radice le criticità che spingono all’emigrazione in via preventiva. Nel caso delle migrazioni ambientali, però, questo sistema di prevenzione non può far altro che franare perché le criticità di questo tipo molto raramente possono essere risolte.

Sul punto l’Italia si mostrava Paese abbastanza aggiornato riconoscendo, nel Testo Unico sull’Immigrazione, e in autonomia rispetto alla normativa internazionale ed europea, all’articolo 5 comma 6 del D. lgs 286/98 l’istituto della protezione per motivi umanitari. Quest’ultima veniva attivata nel caso in cui non si fosse beneficiari né della protezione internazionale né di quella sussidiaria. Veniva riconosciuto, in questo modo, una sorta di permesso di soggiorno per gravi calamità naturali o altri fattori locali. Fino ad oggi l’accettazione della richiesta giustificata da motivazioni ambientali è stata cosa rara, soprattutto perché la valutazione dei presupposti, quando la Commissione Territoriale respingeva la domanda di protezione internazionale ma confermava la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario, era demandata direttamente al Questore. In questo modo si correva il rischio, nell’assenza di criteri specifici, di disparità di trattamento sul territorio nazionale per casi analoghi. Limite del D. lgs. 286/98, infatti, è l’assenza di una definizione specifica di calamità. Caso virtuoso è stato il Tribunale Dell’Aquila che ha aperto le braccia proprio ad un cittadino bengalese con sentenza del 18 febbraio 2018.

Oggi la situazione in Italia è decisamente diversa dopo l’introduzione del Decreto Sicurezza. Parliamo del Decreto Legge n° 113 del 4 ottobre 2018 che all’art. 1 prevede l’abrogazione della protezione per motivi umanitari prevista precedentemente nel Testo Unico sull’immigrazione. Questo tipo di protezione non potrà più essere concessa, neppure dai tribunali dopo un eventuale ricorso. Al suo posto vengono introdotti dei permessi di soggiorno per alcuni casi speciali: vittime di violenza domestica, grave sfruttamento lavorativo, cure mediche e per chi risiede in un Paese che si trova in una situazione di contingente ed eccezionale calamità. La Commissione Territoriale, quindi, potrà riconoscere solo due forme di protezione: il rifugiato e la protezione sussidiaria o respingere la domanda. Quest’ultima non trasmetterà più la pratica di una eventuale domanda respinta al Questore nel caso in cui ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, ma si limiterà a valutare se esistono o meno i presupposti per negare l’espulsione. Nel caso in cui questi presupposti ci siano i Commissari trasmettono al Questore gli atti per il rilascio di un permesso di soggiorno della durata massima di un anno, descritto come protezione speciale.

In generale, è pericoloso pensare che un cittadino americano, magari un Biloxi-Chitimacha-Choctaw, che abita nell’isola di Jean Charles, colpito da un cambiamento climatico che sta facendo scomparire la sua casa, possa essere protetto secondo le leggi del suo Stato, e ricollocato in un ambiente idoneo e asciutto magari. Mentre un cittadino bengalese che ha di fronte a sé lo stesso destino, non potendo contare sul suo Stato, tristemente sovrappopolato e con una capacità economica nettamente inferiore, e quindi costretto alla migrazione debba essere abbandonato dal diritto internazionale, che è, e dovrebbe essere, il diritto di tutti i popoli.


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Craig Welch, Climate change has finally caught up to this Alaska village, www.nationalgeographic.com, 22 ottobre 2019

Francois Proia (1997), L’altra storia della Louisiana, il punto di vista della Francia vol. 1, Libreria Campus

Francois Proia (2000), L’altra storia della Louisiana vol 2, Libreria Campus

Giuliano Battiston, Bangladesh, il Paese che scompare sott’acqua, L’Espresso, 17 maggio 2018

L’isola che non ci sarà più, www.internazionale.it, 12 giugno 2017

Direttiva Qualifiche UE 2011, www.eur-lex.europa.eu

284 visualizzazioni0 commenti
bottom of page