Cosa significa combattere, Occidente? Intervista a Gastone Breccia
Aggiornamento: 21 mar 2022

Gastone Breccia insegna Storia bizantina e Storia militare antica all'Università di Pavia. Tra i suoi volumi ricordiamo: "L'arte della guerriglia" (2013); "Le guerre afghane" (2014); "Guerra all'Isis. Diario dal fronte curdo" (2016); "Corea la guerra dimenticata" (2019); "Missione Fallita. La sconfitta dell'Occidente in Afghanistan" (2020). Il suo ultimo volume pubblicato è "Le guerre di Libia. Un secolo di conquiste e rivoluzioni", con Stefano Marcuzzi.
Dopo venti anni di guerra contro il terrorismo, conclusi sul terreno con il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e il ritorno al potere del regime talebano, che valore ha oggi per l’Occidente combattere una guerra?
Bella domanda. Io credo che l’Occidente non abbia più la forza politica, la volontà politica di combattere questo tipo di guerre. Ci siamo illusi per molto tempo che si trattasse di operazioni di peacekeeping, che si trattasse di portare aiuto alla popolazione e basta, di migliorare le condizioni di vita, di avviare quei Paesi verso una ricostruzione. In realtà ci siamo resi conto, noi occidentali, che in queste situazioni bisogna anche combattere e non è che non abbiamo ovviamente le capacità o la forza militare per farlo.
Non abbiamo la volontà politica di farlo, il che può anche essere giusto. Però bisogna fare i conti con il fatto che ogni soldato che muore in questi teatri di guerra ha ripercussioni interne gravissime, che le spese sono eccessive e che i soldi non possono essere spesi perché di fatto non c’è consenso. Quando i governi si rendono conto che non possono sostenere un livello minimo di perdite, queste guerre di fatto si perdono, come si è visto. Direi che vent’anni dovrebbero averci insegnato, purtroppo, che questi interventi sono costosissimi e vanno intrapresi solo se prima si chiarisce bene la situazione alla propria opinione pubblica e si dice “noi dobbiamo andare lì, il progetto è questo, ci vorranno non si sa quanti anni per far tornare il Paese sulla via dello sviluppo. Ce la sentiamo, o no?”. Dato che le opinioni pubbliche di solito dicono di “no” in Occidente, magari a ragione, è meglio non farle. La lotta al terrorismo quindi oggi cosa significa? Probabilmente significa usare altri mezzi: intelligence, forze speciali, scelte anche spiacevoli come omicidi mirati, scelte anche eticamente discutibili, ma che hanno un impatto molto minore sull’opinione pubblica.
Una sorta di ritorno alla dottrina Powell-Weinberger quindi: il governo si impegna in un conflitto se ha un chiaro obiettivo finale e con il supporto essenziale dell’opinione pubblica. La forza militare non può essere esercitata a caso quindi, ma solo in situazioni di necessità, con tempi del conflitto chiari fin dall’inizio.
Sì, soprattutto non ci si impegna in progetti sui quali non si è sicuri di avere il consenso dell’opinione pubblica, perché per fortuna nelle democrazie il consenso conta, bisogna andare a votare ogni “x” anni e difficilmente un governo vuole essere mandato a casa. La dottrina Powell aveva un aspetto di saggezza in fondo, cioè commisurare l’intervento alla propria forza politica, quel consenso dà poi la forza necessaria ad agire.
Cosa vuol dire invece, per l’Occidente, vincere una guerra? Dobbiamo forse imparare a declinare diversamente il significato di “vittoria”, dandogli un’accezione più economica che militare?
Domanda difficile. Allora, intanto vincere una guerra significa raggiungere gli scopi politici per cui la si è intrapresa. La politica, strategia e intervento militare sono sempre e dovrebbero sempre essere strettamente legati, quindi prima chiarire gli scopi politici. Qual è il nostro scopo politico? Per l’Afghanistan ad esempio, rendere questo Paese amico dell’Occidente, stabile, non più un safe haven per i terroristi, è questo il nostro scopo politico? Allora vincere significa ottenere questi scopi politici. In questo caso il risultato è stato un disastro. In futuro? Ad esempio, parliamo dell’Ucraina. Qual è lo scopo politico dell’Occidente? Far sì che l’Ucraina rimanga uno stato cuscinetto, o nel lungo tempo, farlo entrare nella NATO? Bisogna essere chiari su questo. C’è un articolo di Timothy Garton Ash sul Guardian molto chiaro su questo aspetto: bisogna sapere se vogliamo Yalta o vogliamo Helsinki, se vogliamo un’Europa divisa tra sfere di influenza e allora ci va bene l’Ucraina Stato cuscinetto, o se vogliamo Helsinki, cioè un’Europa in cui ogni Stato è davvero libero di decidere il proprio destino. Se questo è il nostro scopo politico, in Ucraina dobbiamo impegnarci in un certo modo, non dico fare una guerra convenzionale, ma far capire bene alla Russia cosa vogliamo ottenere. Chiarire cosa si vuole in una situazione dal punto di vista politico e poi adottare i mezzi anche militari, ma non solo, anche economici per ottenere la vittoria.
Dieci anni fa, il 29 gennaio del 2002, il presidente George W. Bush dichiarò terminato il conflitto in Afghanistan e diede inizio a quella che definì “la guerra al terrore” nei confronti dei Paesi dell’asse del male: Iraq, Iran e Corea del nord. L’amministrazione Bush intraprese inoltre, la stagione della cosiddetta “guerra preventiva”: gli Stati Uniti avrebbero attaccato gli Stati che diffondevano il terrorismo o lo appoggiavano senza avere tuttavia la certezza di stare per essere nuovamente attaccati. Un’aperta dimostrazione del fatto che gli Stati Uniti andavano ormai a configurarsi come uno Stato che si posizionava al di sopra delle regole del diritto internazionale: il concetto di guerra preventiva non è, infatti, riconosciuto come valido dalla Carta delle Nazioni Unite, che giustifica una guerra soltanto in risposta a un attacco già avvenuto.
Secondo lei possiamo dichiarare concluso il periodo della guerra preventiva?
Allora, direi che l’intera dottrina Bush era un po’ mal concepita perché fare la guerra al terrore, o al terrorismo è una stupidaggine perché non si fa guerra a una tattica, come il terrorismo appunto. La guerra preventiva credo che non sia finita nel senso che se giungessero, attraverso i servizi di informazione di intelligence, notizie di minacce terroristiche da parte del gruppo “x” che ha acquisito armi di distruzione di massa, è chiaro che partirebbe una missione di attacco preventiva, non c’è dubbio. Pertanto, non è finita in questo senso. C’è da dire però che, soprattutto dopo il fallimento in Iraq, guerra preventiva fallita nelle sue conseguenze, perché l’obiettivo primario di eliminare Saddam fu raggiunto, credo che non vedremo altre missioni di quel tipo. Tuttavia, guerre o comunque missioni preventive nel caso di minacce accertate, anche se magari l'opinione pubblica non ne saprà mai nulla o quasi, direi che non siano da escludere anzi, sono scenari piuttosto probabili in futuro.
La mia successiva domanda sarebbe stata proprio sul dichiarare guerra a una tattica, il terrorismo in questo caso. La storica statunitense Marilyn B. Young in alcuni suoi volumi e saggi scrive che gli Stati Uniti, dichiarando guerra a una tattica, quella del terrorismo appunto, hanno trovato, di fatto, una causa perfetta per continuare a impegnare la propria industria bellica e quindi l’economia del Paese in uno stato di guerra perenne, nato con la Seconda guerra mondiale. Concorda con Marilyn Young su questo? Ritiene possibile vincere una guerra contro una tattica basandosi solo sulla forza delle armi, siano esse anche tra le più sofisticate al mondo?
Sì, concordo con Marilyn Young, nel senso che è una lotta destinata a durare nel tempo per decenni. Gli armamenti sofisticati servono eccome e sono una voce di spesa importante oggi nel bilancio statunitense. Ritengo però un po’ semplicistico dire che si fa questo tipo di guerre solo per vendere armi, queste è una visione un po’ manichea: è chiaro che le industrie di armamenti hanno enormi colpe e vedano di buon occhio spesso il nascere di nuove aree e situazioni di tensione, però dal mio punto di vista, credo anche che sia un po’ inevitabile che le democrazie mantengano un livello di prontezza operativa elevato, che oggi significa spendere tanti soldi per armamenti sofisticati. Anche se, a latere di questo discorso sul terrorismo, sul contrasto alle minacce esterne, c’è da dire che gli Stati Uniti ultimamente si stanno riconfigurando per un confronto tra grandi potenze, quindi le spese in armamenti sono di nuovo molto più indirizzate su grandi navi, incrociatori, che costano miliardi di dollari e sono finalizzati di fatto a un confronto con la Repubblica popolare cinese.
Penso all’Afghanistan, ma anche alla Siria, alla Libia e le chiedo: non si può ritenere che l’Occidente perda le guerre per incapacità di mezzi militari. Mi chiedo allora, per quale motivo perdiamo le guerre? C’è una dissonanza temporale tra apparato militare e politico? La politica non possiede quella pazienza strategica di cui necessita la strategia militare?
È vero, abbiamo i mezzi per fare qualsiasi cosa e siamo molto bravi nella tattica, però attenzione, perché le guerre non si vincono con la tattica, né con i mezzi. Le guerre si vincono con una strategia adeguata e con, soprattutto direi, un’armonizzazione degli scopi politici e della strategia militare adottata per conseguirli e su questo siamo un po’ carenti. La sconfitta in Afghanistan, ad esempio, dipende da una scarsa chiarezza degli obiettivi politici e da una strategia direi confusa nel cercare di ottenere questi scopi politici, che è cambiata poi negli anni. Se si leggono le fonti di archivio dell’Ottocento sulle guerre intraprese in questo Paese, si trova già scritto nero su bianco nelle lettere dell’addetto militare britannico a Kabul del 1840, cose che ancora oggi sono valide. Troviamo scritto chiaramente “in Afghanistan non bisogna entrare, se ci si entra bisogna combattere decenni per non ottenere niente. È meglio starne fuori e da fuori cercare di mediare”.
Tutte cose che strategicamente dovevano essere chiarissime, bastava studiarle. Allora perché gli statunitensi hanno fatto gli stessi errori? Come del resto i sovietici nel 1979? Non ho mai assistito a lezioni a West Point o nelle ex accademie sovietiche, quindi mi chiedo come mai ci sia una mancanza di consapevolezza storica, alle volte, dei problemi che si vanno ad affrontare. Però di fatto questa mancanza di consapevolezza c’è. Io ho parlato con ufficiali statunitensi bravissimi, in grado di manovrare una compagnia carri in maniera perfetta, però poi non sapevano nulla della prima e seconda guerra anglo-afghana, non sapevano perché gli inglesi erano stati sconfitti, non sapevano quali erano stati i problemi politici di quelle situazioni che poi si sono ripresentate quasi uguali. C’è quindi una mancanza di preparazione teorica anche a livello militare sulla storia militare, non sull’uso dei mezzi, non sulla tattica, però per quello che riguarda le problematiche strategiche e politiche sì.
Poi sull’ultima domanda che mi facevi certamente, non c’è pazienza politica in Occidente perché le democrazie non hanno tempo: quando tu hai, nel caso statunitense, ogni quattro anni un’elezione, sei costretto a fare i conti con quello, sei al governo e tendi a volerci rimanere. Non hai una prospettiva di lungo periodo. Chi ha vinto questo tipo di guerre? In Afghanistan nell'Ottocento o nella Roma antica, chi non aveva un orizzonte temporale limitato. Gli imperatori romani entravano nell’allora Giudea e magari sapevano che ci sarebbero rimasti cento anni per estirpare quel tipo di resistenza, non avevano problemi di elezioni imminenti.
Dopo le sconfitte di questi ultimi venti anni, l’Occidente secondo lei è ancora credibile in battaglia?
Eh non molto. Tra l’altro mi piace dire “in battaglia” che è diverso da dire “in guerra”. Allora forse “in battaglia” la avrebbe, nel senso che quando poi le nostre truppe si trovano coinvolte in combattimento, quindi si torna al discorso tattica, lì abbiamo credibilità perché i nostri soldati sanno combattere, sono datati dei mezzi adatti, ecc… Non abbiamo credibilità in senso strategico, cioè nella conduzione e nella conclusione di un conflitto, perché abbiamo dimostrato di non essere in grado di sostenere lo stress di un conflitto, in fatto di perdite di vite umane, di costi, ecc…e purtroppo questo lo pagheremo caro nel senso che quando si creeranno, come si stanno già creando di fatto, in Libia ad esempio che citavi, o nel Sahel, nuove situazioni di conflittualità aperta tra attori non statali che però mettono in pericolo la stabilità di una regione, che faranno i governi locali? Chiederanno aiuto a noi dopo quello che abbiamo fatto in Afghanistan? Magari chiederanno aiuto ai contractors russi, come sta già succedendo nell’Africa subsahariana. Questo è grave, perché significa che l’Occidente si sta auto marginalizzando in scenari che invece, ci riguardano da vicino.
Le rivolgo una domanda pensando a chi è arruolato in un esercito. C’è un certo grado di frustrazione che deriva dallo stato di indecisione degli attori politici? Le truppe sono stanche da questo punto di vista?
Allora io ho un po’ di esperienza per quello che riguarda il nostro esercito. Ho intervistato anche qualche britannico, statunitense, ma ormai un po’ di anni fa. Sì, per quello che riguarda il nostro esercito è certamente così. C’è la percezione che gli attori politici non portino fino in fondo le missioni intraprese, per cui gli sforzi militari sono poi vanificati da una mancanza di determinazione politica. È uno di quei classici problemi senza soluzione: i militari sono dei veri professionisti e non si mettono a discutere le decisioni politiche, non è il loro compito, però certo c’è un po' di frustrazione.
Secondo lei andremo a mano a mano verso una privatizzazione del settore militare?
Questa è una domanda che mi fa molto piacere e che meriterebbe un lungo discorso. Ho appena letto un libro di un autore statunitense che si chiama Sean McFate The new rules of war, interessantissimo. McFate spiega come il mercenariato sia proprio una delle soluzioni che verranno adottate sempre più nel futuro per tre motivi fondamentali: il primo, economico. I mercenari costano molto meno di un esercito permanente, perché quest’ultimo lo si deve pagare anche quando non serve perché non in servizio. I mercenari si pagano a contratto, quando servono. Il secondo motivo è politico: i mercenari non hanno un costo in questi termini, se muore un contractor lo piange la sua famiglia, ma l’opinione pubblica se ne disinteressa, anche perché molto spesso i mercenari sono di una nazionalità diversa rispetto allo Stato che li ingaggia, quindi di fatto non li piange nessuno. Inoltre, per motivi di accountability: se si mandano dei contractors a compiere un’azione moralmente discutibile in un Paese “x” e la cosa va male, il governo può sempre dire: questa è un'azienda privata, chissà per chi lavorava, i governi riescono a tirarsene fuori. I mercenari, quindi, saranno sempre più utilizzati, questa è una cosa gravissima dal mio punto di vista perché chiaramente i mercenari sono poi difficili da controllare, possono commettere crimini di guerra e farla franca più di un soldato regolare.
Ci sarà, quindi, sempre più una deresponsabilizzazione da parte degli Stati nel volersi prendere le proprie responsabilità.
Esatto, infatti qui si aprirebbe poi tutto il discorso sulle proxies war che io ritengo una disgrazia.
Come ultima domanda, ci tengo a leggerle uno scritto e ad avere il suo parere. Lo storico Andrew Bacevich, in un suo libro del 2013, The New American Militarism, scrive: « c’è un nuovo lessico di termini militari: la guerra è diventata chirurgica, postmoderna, quasi astratta o virtuale. È una “diplomazia coercitiva” in cui l’obiettivo dell’esercizio non è più uccidere, ma persuadere. Alla fine del XX secolo, Michael Ignatieff dell’università di Harvard, ha concluso che la guerra sia diventata “uno spettacolo”. La nozione del sacrificio in battaglia è diventata ironica. Nella guerra-spettacolo, le apparenze sono più importanti della realtà, perché l’apparenza spesso finisce per determinare la realtà stessa. La forza ha acquisito un valore simbolico. L’obiettivo non è distruggere il nemico. La semplice dimostrazione di possedere la capacità di farlo è di per sé sufficiente».
Ritengo la seconda parte, quella di Ignatieff, molto interessante, ma non concordo. Nel senso che il mostrare di avere la forza in certi casi può essere sufficiente e ciò che pensa sulla guerra-spettacolo è senz’altro vero perché la guerra, quando c’è, entra ormai nelle nostre case quasi in presa diretta, in mille modi. Attenzione però, perché il fatto di possedere la forza non si è dimostrato sufficiente in Afghanistan, ad esempio. I talebani avevano chiarissimo il problema: noi possedevamo la forza per polverizzarli, ma non eravamo determinati a usarla, non eravamo capaci di utilizzarla nel modo giusto e commettevamo errori continuamente, bombardando i posti sbagliati, creando più vittime civili che militari.
Si è dimostrato che non basta avere la forza se non si sa come usarla e che in certi contesti, tipo “la guerra tra la popolazione” così definita da Schmitt “war among the people”, la forza può essere controproducente. La forza che noi possediamo, che è una forza convenzionale di distruzione puntuale: bombardamenti, utilizzo di droni, può essere controproducente perché è impossibile usarla in maniera tale da evitare danni collaterali che poi ci fanno perdere questo tipo di guerre. Bisogna quindi usare un altro tipo di forza in un altro modo e questo noi non siamo più capaci di farlo, non perché i soldati non siano in grado, ma perché i governi non hanno la volontà di operare in quel mod. Ritorno sull’Afghanistan per fare un esempio in questo senso: per vincere quella guerra bisognava mandare soldati a piedi, con equipaggiamenti leggeri. In questo modo, i civili afghani ci avrebbero rispettato perché vedevano che correvamo dei rischi per difenderli, ci avrebbero rispettato i nemici perché avrebbero capito che eravamo disposti a subire perdite per sconfiggerli. Quello era l’uso della forza che avrebbe potuto convincerli ad abbandonare la partita in tempo. Se pretendi di incenerire il villaggio da cui ti spara un solo cecchino, appunto alla fine perdi. E’ un uso eccessivo della forza per quel contesto che non solo non basta a convincere il nemico ad abbandonare la partita, ma lo rende più determinato e vincitore in questo tipo di confronti.
Sulla prima parte invece, relativa alla diplomazia coercitiva, concordo. L’obiettivo di queste guerre ormai, non deve più essere quello di uccidere, anche perché si è dimostrato dal Vietnam in poi che non conta quanti guerriglieri uccidi, ma conta convincere il tuo nemico ad abbandonare la lotta prima di quanto non sia costretto a farlo tu perché i costi diventano eccessivi. Bisogna essere però persuasivi nell’uso della forza e della diplomazia in questi contesti. In Afghanistan non lo siamo stati, assolutamente, ma neanche in Iraq di fatto.