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Climate Change Litigation: fight today for a better tomorrow

Aggiornamento: 4 set 2021

1. Introduzione


L’eco delle proteste ambientali ha di recente raggiunto anche le aule dei tribunali che hanno aperto le porte ai contenziosi climatici (climate change litigation). Questo nuovo filone giudiziario si fonda sull’assunto che un ambiente sano sia il presupposto per il godimento di altri diritti, nella convinzione che i diritti umani non possano più essere visti atomisticamente, ma siano interconnessi e interdipendenti tra loro. La difesa dell’ambiente e la sua preservazione costituiscono, allora, la nuova frontiera del diritto e lo strumento attraverso cui obbligare gli Stati e le Corporations a promuovere azioni maggiormente incisive nella lotta ai cambiamenti climatici coniugando la questione ambientale ai diritti delle generazioni presenti e future per una reale giustizia economica e sociale.


2. Cosa si intende per Climate Change litigation?


I contenziosi climatici rientrano nel novero delle “liti strategiche” ossia quelle azioni giudiziarie il cui intento è farsi promotrici di nuovi diritti e accrescere la sensibilità su un determinato tema, in modo da far evolvere – o meglio “vivere” – l’ordinamento giuridico, inducendo le Corti ad assumere una posizione in quella dialettica tra legislazione e interpretazione, attraverso una rilettura delle disposizioni esistenti alla luce dei mutamenti sociali odierni. L’attenzione verso questa modalità di contenzioso è cresciuta negli ultimi trent’anni, parallelamente alla necessità di trovare nuove forme di protesta per denunciare la risolutezza degli Stati a non considerare la questione climatica degna di risposta politica.


I primi ricorsi a sfondo ambientali sono stati presentati negli Stati Uniti negli anni ‘80. Oggi i processi in atto sono 1777 e più della metà di questi sono iniziati tra il 2015 e il 2019, anni in cui si è preso atto del fallimento delle Conferenze sul Clima[i] e del mancato raggiungimento degli obiettivi legati allo sviluppo sostenibile, in particolare in seguito alla Conferenza di Copenaghen del 2009 (COP15) e degli Accordi di Parigi del 2015. La rinnovata sensibilità socio-politica per la questione ambientale ha, dunque, riacceso l’interesse per il contenzioso climatico e per la possibilità di affrontare giuridicamente la questione, rendendo i tribunali il nuovo campo di battaglia dei diritti umani.


3. Gli obiettivi delle climate change litigation


I cittadini, singolarmente o organizzati in associazioni, invocano il diritto all’ambiente sia nei confronti degli Stati per ottenere il rispetto di impegni assunti a livello nazionale o internazionale, sia nei confronti delle Società petrolifere, del gas e del carbone. Le istanze avanzate sono molteplici: la violazione di determinati obblighi positivi, il mancato rispetto di diritti costituzionalmente rilevanti o ancora, la mera violazione delle classiche norme in tema di responsabilità civile.


Il principale obiettivo è quello di incentivare nuove politiche ecologiche come il divieto di costruzione di nuove centrali a carbone, la chiusura anticipata di centrali in fase di demolizione, nuove tasse sulle attività economiche inquinanti o incentivi per la conversione energetica. Esemplificativa in tal senso è stata una sentenza del 2011 in Pakistan che, nell’ambito del caso Ashgar Leghari vs Federation of Pakistan, ha previsto la creazione di una commissione tecnica che monitorasse le decisioni del governo contribuendo così ad attuare il 66% delle azioni previste per la lotta al cambiamento climatico nel biennio 2015-2017.

Non tutti i contenziosi hanno raggiunto i risultati sperati, ma anche i fallimenti hanno contribuito alla creazione di una narrazione del climate change, creando così un bagaglio di conoscenze e principi comuni che potranno essere utili in casi futuri.


4. Il ruolo del contenzioso nell’incentivare nuove politiche climatiche


Oggi in tutti gli ordinamenti giuridici è presente almeno una normativa a tutela dell’ambiente. Tuttavia, avere una legge e applicarla sono questioni differenti, per questo il numero di disposizioni esistenti non è indice dell’effettiva attenzione che viene data alla questione. Come già accennato, l’obiettivo di avanzare richieste contro un attore pubblico è duplice: si vuole incentivare l’assunzione di nuove politiche in Paesi in cui gli standard di tutela sono più bassi, mentre in altri ordinamenti le azioni possono colmare le lacune o incentivare la tutela di particolari aspetti ambientali.


Il caso Urgenda, essendo anche la prima occasione in cui si è espressa una Corte di livello nazionale imponendo la riduzione delle emissioni, ha segnato un importante passo in direzione di azioni sempre più incisive. La Suprema Corte olandese, confermando la decisione di primo grado[ii], dato l’obbligo dello Stato di tutelare la salute e il benessere dei cittadini rispetto all’impatto diretto che i cambiamenti climatici hanno sulla vita della popolazione, ha riconosciuto l’Olanda responsabile limitatamente alla propria quota di emissioni[iii]. Tutti gli argomenti difensivi sono stati rigettati, incluso quello secondo cui l’Olanda sarebbe un piccolo Paese responsabile dello 0,4% delle emissioni globali; la Corte ha infatti affermato che “a country cannot escape its own share of the responsibility to take measures by arguing that compared to the rest of the world, its own emissions are relatively limited in scope and that a further reduction of its own emissions would have very little impact on a global scale. The state is therefore obliged to reduce greenhouse gas emissions from its territory in proportion to its share of the responsibility”.


Dopo l’Olanda altri due Paesi europei sono stati condannati per carenze climatiche: l’Irlanda nel 2020 e la Francia nel 2021. La causa contro lo Stato francese risale al 2018 quando quattro organizzazioni non governative ambientaliste hanno raccolto oltre 2 milioni di firme nella petizione “L’affaire du siècle”. Il 3 febbraio 2021, il Tribunale amministrativo di Parigi ha riconosciuto la responsabilità parziale dello Stato francese, accusandolo di non aver rispettato i propri impegni sul clima. La sentenza riconosce l’esistenza di “danni ecologici legati ai cambiamenti climatici e le carenze dello Stato francese nell’attuazione di politiche pubbliche che dovrebbero ridurre le emissioni di gas serra”. Allo stesso modo, anche in Italia, la campagna Giudizio Universale depositerà a breve l’atto di citazione in giudizio dello Stato italiano per ottenere “l’esatto adempimento di tutte le obbligazioni climatiche che lo Stato ha sovranamente deciso di assumere per evitare le conseguenze più distruttive dei cambiamenti climatici e garantire la effettività dei diritti dei suoi Cittadini”.


Anche nei Paesi asiatici si tenta di percorrere la medesima strada. Il 13 marzo 2020, diciannove giovani attivisti hanno presentato una denuncia alla Corte costituzionale sudcoreana sostenendo che la legge sul cambiamento climatico viola i loro diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita e un ambiente pulito (Do-Hyun Kim et al. v. South Korea). Il Framework Act della Corea del Sud sulle basse emissioni di carbonio, Green Growth, si impegnava a ridurre i gas serra del 24% entro il 2030. I firmatari hanno sostenuto che tale obiettivo è insufficiente per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi Celsius.

Oltre alla riduzione delle proprie emissioni, gli Stati sono chiamati a confrontarsi con altre due questioni centrali: le migrazioni climatiche e i diritti delle future generazioni.


Il Centro di monitoraggio per gli sfollati interni (IDMC) ha calcolato che 23,9 milioni di persone hanno dovuto trasferirsi nel 2019 a causa di disastri connessi al cambiamento climatico. Ancora più allarmanti sono le previsioni contenute nel rapporto “Migration and Climate Change” dell’IOM, che parlano di 200 milioni di migranti climatici entro il 2050. Tuttavia, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha sostenuto che l‘espressione “rifugiato climatico” non possa essere usata poiché non si fonda su nessuna norma del diritto internazionale, dal momento che non esiste ancora una convenzione internazionale ad hoc che protegge chi migra a causa degli effetti della crisi climatica[iv]. Di recente, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite è stato chiamato a esprimersi in proposito, nel caso Teitiota v. New zealand[v]. In quest’occasione, ha riconosciuto il rischio rappresentato dal cambiamento climatico per il diritto alla vita e, di conseguenza, il sorgere di obblighi legati al divieto di refoulement[vi] in capo agli Stati ai quali le domande d’asilo vengono presentate. In particolare, il Comitato ha stabilito alcuni principi di fondo: gli Stati contraenti del Patto sono tenuti, nei casi in cui sia in gioco un possibile respingimento verso certi Paesi, a verificare la situazione e i nuovi effetti legati al cambiamento climatico e, addirittura, all’innalzamento del livello del mare.


Infine, i Governi sono chiamati ad assumersi le proprie responsabilità di fronte alle nuove generazioni. Un esempio è il ricorso presentato il 23 settembre 2019 davanti al Comitato per diritti civili e politici delle Nazioni Unite da 16 ragazzi, inclusa Greta Thumberg, contro l’Argentina, il Brasile, la Francia, la Germania e la Turchia (Sacchi et al v. Argentina et al) per aver violato i loro diritti ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo riducendo in modo insufficiente i gas a effetto serra e non incoraggiando i maggiori emettitori del mondo a ridurre l'inquinamento da carbonio.

Un’altra decisione importante è stata Juliana v United States, in cui ventuno ragazzi hanno citato il governo federale per aver violato il loro diritti costituzionali, non essendo intervenuti per limitare la concentrazione di diossido di carbonio nell’aria. I ricorrenti hanno chiesto alla Corte di intimare il Governo a implementare un piano per la transizione ecologica. Nel caso di specie, la corte non si è ritenuta competente, ma il giudice Josephine L. Staton è intervenuta affermando che “[…] the mere fact that this suit cannot alone halt climate change does not mean that it presents no claim suitable for judicial resolution.


5. Le cause contro i cd. Carbon Major


Un’analisi del 2017 (Carbon Major report) ha dimostrato che il 71% delle emissioni di gas serra è il risultato dell’attività di 100 società, tra cui ExxonMobil, Shell, BHP Billiton e Gazprom. Questo è solo uno dei dati che giustifica il tentativo di portare in giudizio anche le Multinazionali. A differenza degli Stati, le cause contro gli attori privati presentano difficoltà ulteriori legate alla struttura interna delle società e all’identificazione della giurisdizione competente. Le strategie usate per portare in giudizio le imprese ricomprendono l’applicazione delle norme in materia di responsabilità civile e risarcimento del danno, in riferimento a casi di frode agli investitori e greenwashing[vii] così come diverse denunce per piani di azione inadeguati e per violazioni dei diritti umani. Nella maggior parte dei casi il ragionamento accusatorio è fondato sull’assunto che questi soggetti, pur sapendo quali sarebbero state le conseguenze delle proprie condotte, hanno persistito nelle proprie decisioni. Grazie a nuovi studi scientifici - che hanno certificato il nesso causale tra gli alti livelli di carbonio nell’aria e il peggioramento della salute umana o il collegamento tra diversi fattori – è stato possibile rimuovere uno dei principali ostacoli: quello della prova del nesso causale.


Uno dei più importanti casi è stato presentato in Germania da un agricoltore peruviano contro la società energetica tedesca (Lliuya Vs Rwe Ag). Luciano Lliuya ha sostenuto che RWE avesse consapevolmente contribuito al cambiamento climatico emettendo quantità di gas serra e, di conseguenza, fosse in parte responsabile per lo scioglimento dei ghiacciai vicino alla città di Huaraz. Ciò ha determinato un aumento volumetrico sostanziale del lago Palcacocha, situato sopra Huaraz, per proteggersi dal quale il signor Lliuya e le autorità hanno dovuto costruire diverse infrastrutture in vista di future esondazioni. Il ricorso trova fondamento sulla teoria delle immissioni e vede il signor Lliuya chiedere alla Corte Tedesca un rimborso per i costi sostenuti. Una quota pari allo 0,47% del costo totale - la stessa percentuale del contributo stimato di RWE alle emissioni globali di gas a effetto serra dall'inizio dell'industrializzazione[viii]. Anche se i fatti di questo caso devono ancora essere giudicati, il fatto che un giudice abbia ammesso la possibilità che una società privata possa essere ritenuta responsabile per i danni legati al cambiamento climatico causati dalle sue emissioni di gas a effetto serra, segna un significativo sviluppo nella giurisprudenza.


Conclusioni


Dal panorama descritto nei paragrafi precedenti emerge l’importanza della strategic litigation non tanto per la vittoria, quanto per la possibilità di stimolare la consapevolezza e l’attenzione dell’opinione pubblica su tematiche sensibili, aprendo nuovi orizzonti di discussione sociale. Ma, soprattutto, essa rappresenta uno strumento con il quale indurre il legislatore a mettere in atto i principi emersi nelle pronunce giudiziarie mediante la creazione di nuove disposizioni o di nuove politiche.


L’emergere di questi contenziosi, ma soprattutto le sentenze storiche che ne sono derivate, è indice di un’insofferenza degli operatori del diritto per il ruolo in cui sono stati intrappolati, di mera applicazione acritica della legge. Rappresenta un tentativo di ridare vitalità a un diritto stanco di rincorrere problemi che mutano troppo velocemente e a cui offrire risposte tardive e inadeguate, sostituendolo con un diritto forte della propria istanza performativa che vuole contribuire alla creazione di una società fondata sul principio di giustizia climatica e, più in generale, di giustizia sociale, nella consapevolezza che l’aggravarsi dei cambiamenti climatici corrisponde all’inasprimento delle disuguaglianze. Si auspica che si continui a perseguire un approccio etico e intersezionale alla lotta ambientalista cosicché questa possa smettere di rattoppare il tessuto sociale e inizi a crearne uno nuovo.


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Note

[i]Sono una serie di conferenze (le COP) che dal 1995 impegnano annualmente i governi di tutto il mondo. COP è l’acronimo inglese di Conference of the Parties (Conferenza delle Parti) e, in generale, si riferisce all’organo direttivo di una convenzione (o trattato) internazionale. Nel caso del cambiamento climatico, la convenzione di riferimento è quella dell’United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC). Tra i più importanti risultati si ricordano il protocollo di Kyoto nel 1997, l’accordo di Copenaghen del 2009 e l’accordo di Parigi del 2015. [ii] I giudici di prime cure, hanno invitato il governo olandese a rispettare gli obblighi assunti in sede europea e quelli stabiliti dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC), ripresi anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCC)a cui l’Olanda aderisce). L’intero sistema di obbligazioni si basa due principi: il principio del “no harm“, per cui l’impegno degli Stati deve essere finalizzato a non causare, con le proprie azioni e scelte politiche, danni agli altri membri della comunità internazionale; il principio della joint responsibility degli Stati in materia ambientale, secondo cui gli sforzi delle autorità nazionali devono essere comuni e commisurati in base alla propria capacità. [iii] Schwartz J., In ‘Strongest’ Climate Ruling Yet, Dutch Court Orders Leaders to Take Action, New York Times, 20 dicembre 2019 (https://www.nytimes.com/2019/12/20/climate/netherlands-climate-lawsuit.html) [iv] In merito all’argomento, si consiglia la lettura di Migrazioni e clima, una correlazione inevitabile di dimensioni globali (amistades.info) e DALL’ISOLA DI JEAN CHARLES FINO AL GANGE - Non è Jules Verne, queste sono le migrazioni ambientali (amistades.info) [v] Nel caso in questione, Teitiota ha sostenuto che gli effetti del cambiamento climatico e l’innalzamento del livello del mare lo avrebbero costretto, insieme alla sua famiglia, a emigrare dall’isola di Tarawa, nella Repubblica di Kiribati, fino in Nuova Zelanda. La situazione a Kiribati, infatti, sarebbe divenuta sempre più instabile e precaria proprio a causa dell’innalzamento del livello dell’Oceano Pacifico in conseguenza del riscaldamento globale. Nonostante ripetuti tentativi, le misure poste in essere dal governo di Kiribati per contrastare la situazione si sarebbero rivelate inadeguate e non sarebbero state in grado di impedire né la crisi abitativa né le dispute – in alcuni casi sfociate anche in episodi di violenza – relative al possesso di terre sempre meno fertili in ragione della loro progressiva salinizzazione. La Repubblica di Kiribati sarebbe dunque divenuta un ambiente instabile e violento, pericoloso per la vita del sig. Teitiota e della sua famiglia. Nel 2012 il ricorrente aveva cercato asilo in Nuova Zelanda presentando la relativa domanda alle autorità competenti, le quali, tuttavia, l’avevano rigettata. Egli si era dunque rivolto al Tribunale per l’immigrazione (“Immigration and Protection Tribunal”) che, parimenti, si era pronunciato in senso negativo. Il rigetto veniva poi confermato in appello ed in ultima istanza. Il comitato ha esaminato la valutazione compiuta dal Tribunale neozelandese e ha sottolineato come il ricorrente non abbia offerto prova dell’arbitrarietà, erroneità od ingiustizia della decisione interna. Ed osserva, in secondo luogo, come la situazione riscontrata nella Repubblica di Kiribati, quand’anche difficoltosa, non sia tale da costituire un rischio effettivo, individualizzato e ragionevolmente prevedibile per il diritto alla vita del sig. Teitiota e dei suoi familiari, sostanziandosi tutt’al più in un problema generalizzato. Il fatto che, nel caso di specie, la decisione sia stata ritenuta valida, non significa che la questione non potrà essere riproposta in altri termini in futuro. [vi] Il principio di non refoulement è contemplato dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra e consiste nel divieto di espulsione e rinvio al confine di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo nel quale la sua vita o la sua libertà sarebbe in pericolo a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. [vii] Con il termine greenwashing si intende la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un'immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell'impatto ambientale, allo scopo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi per l'ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti. [viii]Il 30 novembre 2017, la Corte d'Appello di Hamm ha riconosciuto la denuncia come ricevibile. Di conseguenza, il caso andrà avanti nella fase probatoria per determinare se la casa di Luciano Lliuya è minacciata da inondazioni o frane a seguito del recente aumento del volume del lago glaciale situato nelle vicinanze, e come le emissioni di gas a effetto serra di RWE contribuiscono a tale rischio.


Bibliografia/Sitografia


J. Setzer, R.Byrnes, Global trends in climate change litigation: 2020 snapshot Policy report, 2020

www.sidiblog.org/2020/03/23/non-refoulement-e-cambiamento-climatico-il-caso-teitiota-c-nuova-zelanda/, ultima visualizzazione 28 marzo 2021

www.duegradi.eu/news/conferenze-clima/, ultima visualizzazione 30 marzo 2021

www.duegradi.eu/news/migranti-climatici/, ultima visualizzazione 30 marzo 2021

www.climate-laws.org/litigation_cases, ultima visualizzazione 3 aprile 2021

www.giudiziouniversale.eu/la-causa-legale/, ultima visualizzazione 2 aprile 2021

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