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Il boicottaggio sportivo sperimentato in Sudafrica può essere un’arma efficace contro la Russia?

Aggiornamento: 3 ago 2022

Figura 1: L’abbraccio simbolo di speranza tra Ilia Burov, medaglia di bronzo del Comitato Olimpico russo, e Oleksandr Abramenko, medaglia d'argento dell'Ucraina (credit: RaiNews)

1. Introduzione


L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha rivitalizzato il legame tra sport e politica, due sfere che nell’immaginario collettivo appaiono come diametralmente opposte ma che, nella realtà dei fatti, sono più intrecciate che mai. Storicamente, il dibattito in merito all’inclusione o non inclusione della politica nel panorama sportivo è sempre stato diviso e divisivo: da una parte, i sostenitori del legame indissolubile tra sport e politica enfatizzano il ruolo influente degli e delle atlete nelle nostre vite quotidiane e delle attività sportive come veicolo per trasmettere messaggi positivi a livello globale; dall’altro, alcuni sostengono come si tratti di due dimensioni che dovrebbero rimanere sconnesse in quanto è necessario proteggere lo sport dalle manovre politiche e dalla logica del conflitto tra gli Stati. Tuttavia, di fronte a drammatici eventi, quali la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 in Sudafrica e l’invasione russa dell’Ucraina, è praticamente impossibile rimanere neutrali. Certamente, esiste un problema di coerenza in quanto queste calamità non sono notoriamente più drammatiche di altri confitti armati, come quello in Yemen o in Etiopia. Tuttavia, la guerra tra Ucraina e Russia è solamente l’ultimo di un lungo elenco di conflitti caratterizzato da un maggior coinvolgimento mediatico destinato a influenzare tutte le dimensioni, in primis quella sportiva. Questa analisi vuole sottolineare come la Russia oggi sia il Paese più isolato al mondo, al pari del Sudafrica nel periodo dell’apartheid, e di come le sanzioni a livello sportivo possano contribuire positivamente (e per certi versi negativamente) alla fine della guerra.


2. Sudafrica: il regime dell’apartheid e le prime sanzioni internazionali


Il Sudafrica è da sempre considerato il Paese e l’economia trainante dell’Africa Australe, una regione che comprende 16 Paesi dell’Africa centro-meridionale, caratterizzata da un immenso potenziale che ancora tutt’oggi stenta a decollare. A differenza delle altre nazioni, che stanno assumendo solamente negli ultimi anni rilevanza geopolitica, il Sudafrica è sempre stato parte integrante della comunità internazionale, soprattutto grazie ai suoi legami con il mondo occidentale.


Tuttavia, data la sua posizione geografica marginale e, per certi versi isolata, nell’immediato dopoguerra Pretoria avviò una feroce politica di segregazione razziale nota a tutto il mondo come politica dell’apartheid. La nazione più a sud del continente africano era divisa tra un gruppo dominante bianco in totale contrasto con la maggioranza nera del Paese; la posizione politica apicale dei bianchi permise loro di promulgare una serie di leggi discriminatorie nei confronti della maggioranza nera al fine di escluderla dalla società locale e relegarla nei quartieri più poveri e malfamati delle varie città in condizioni socio-sanitarie deplorevoli.


Fin da subito, questo scenario fu noto alla comunità internazionale, tanto che il governo indiano chiese all’ONU di investigare sulle condizioni e sulla discriminazione alle quali erano sottoposti i propri cittadini in Sudafrica; una richiesta che non incontrò particolare attenzione in quanto fu classificata come un problema di politica interna. In un continente che andava sempre più verso la realizzazione di desideri indipendentisti e governi autonomi, il Sudafrica rappresentava un vero e proprio paradosso a livello internazionale. L’uccisione di 70 persone durante una protesta pacifica a Sharpeville nel 1960 da parte della polizia locale, su ordine del governo bianco, suscitò scalpore a livello internazionale, spingendo l’ONU verso l’adozione di un embargo economico volontario contro Johannesburg.

Figura 2: Manifestazioni contro l’apartheid (credit: Idrottsforum)

3. Il “boicottaggio sportivo” nei confronti del Sudafrica


Il regime di apartheid, esistito fino al 1991 in Sudafrica, fu considerato come un’ingiustizia da combattere e contrastare su tutti i fronti. Proprio in questo scenario, alcuni esperti coniarono il termine boicottaggio sportivo per indicare una serie di iniziative volte a escludere, nella seconda metà del Novecento, il Sudafrica dalle varie federazioni sportive. Nel 1964, il Comitato Olimpico Internazionale ritirò il proprio invito di partecipazione al Sudafrica come vera e propria forma di protesta contro il regime di segregazione razziale.


Tali iniziative, formalizzate successivamente attraverso l’accordo di Gleneagles del 1977, miravano ad escludere il Sudafrica da tutte le competizioni sportive; alle successive Olimpiadi di Città del Messico del 1968, nonostante la “new sport policy”[1] ideata da Pretoria al fine di assecondare i requisiti formali del Comitato Olimpico Internazionale, la maggior parte dei Paesi africani, sostenuti da Unione Sovietica e India, minacciò di non partecipare alle manifestazioni sportive se queste ultime avessero visto il coinvolgimento di sportivi sudafricani. Da quel momento fino alla fine del regime di apartheid, il Sudafrica non ebbe più la possibilità di partecipare alle Olimpiadi, nonostante una neutralità silenziosa ma significativa di Regno Unito e Stati Uniti.[2]


Il graduale abbandono delle politiche di segregazione razziale, dovuto anche alle esclusioni sportive nel corso degli anni, portò numerosi Paesi ad aprire le proprie porte verso il Sudafrica; a titolo di esempio, la sfida tra gli Springboks e gli All Blacks, rispettivamente le squadre di rugby nazionali neozelandese e sudafricana, e la fine del boicottaggio sportivo da parte dei governi membri della Comunità europea nel 1991. L’India, la nazione che più ha combattuto l’apartheid sulla scena sportiva internazionale, riaprì le porte alle controparti sudafricane organizzando un incontro di cricket all’interno del proprio Paese.


Certamente, tutte queste iniziative concrete, unite a quelle politiche come la Dichiarazione di Singapore del 1971 o la “Declaration on Racism and Racial Prejudice”, adottata dal Commonwealth in un vertice a Lusaka del 1979, non furono il motivo principale che spinse il Sudafrica fuori dal regime razziale. Tuttavia, queste ultime ebbero notevole rilevanza mediatica e geopolitica a livello internazionale in quanto escludere il Sudafrica da competizioni quali cricket e rugby, discipline nelle quali il Paese è sempre stato uno dei più vincenti, creò importanti ripercussioni a livello locale e nazionale. L’esclusione da parte delle varie federazioni sportive fu considerata la contromisura più radicale ed efficace contro il regime dell’apartheid.


4. L’isolamento della Russia: la nuova frontiera geopolitico-sportiva?


Il peso socio-politico che ebbe lo sport in Sudafrica rappresenta, oggigiorno, il contributo geopolitico più importante che le federazioni sportive siano mai riuscite a fornire nel corso degli ultimi secoli. L’esclusione della Russia dalla maggior parte della attività sportive in seguito all’invasione dell’Ucraina sembra essere la fotocopia delle sanzioni che colpirono gli sportivi sudafricani a partire dagli anni ’60. È ancora presto per dire se il peso geopolitico potrà essere lo stesso, anche perché in questo caso si tratta di una vera e propria guerra internazionale e non di una questione nazionale; tuttavia, le analogie sono molteplici e anche questa volta sembrano destinate a essere quantomeno considerevoli in ambito internazionale.


Il Presidente della Russia Vladimir Putin è reo di aver calpestato e distrutto i diritti umani e i sacri dettami della Carta Olimpica tanto che, come nel caso del Sudafrica, il Comitato Olimpico Internazionale ha deciso di bandire tutti gli atleti e dirigenti russi dalle manifestazioni di loro competenza. La violazione della tregua olimpica ha portato al ritiro del collare d’oro dell’Ordine Olimpico conferito allo stesso Putin, il quale si è visto usurpare della propria cintura nera onoraria da parte della federazione mondiale del taekwondo e della carica di presidente onorario della federazione di judo. Se tali privazioni a livello personale non sembrano aver smosso più di tanto il capo del Cremlino, la cancellazione di manifestazioni sul territorio russo e il loro trasferimento in altre nazioni hanno colpito duramente il Paese.


A livello nazionale, la Russia è stata esclusa dal Mondiale di calcio e la finale di Champions 2022, prevista originariamente a San Pietroburgo, è stata trasferita a Parigi, togliendo grande prestigio e notevoli introiti economici alla città sul delta della Neva. Il tennis mondiale ha escluso la Russia dalla Coppa Davis e obbligato giocatori quali Andrey Rublev e Daniil Medvedev, entrambi nella top 10 mondiale, a giocare i tornei Atp in maniera neutrale, quasi rinnegando la propria nazione e bandiera.


La Federazione internazionale di pallacanestro ha escluso atlete e atleti da tutte le sue competizioni, comprese le qualificazioni ai Mondiali del 2023, e i club russi dall’Eurolega e dall’Eurocup. La Formula 1 ha totalmente eliminato la Russia dal panorama motoristico mondiale, cancellando il Gran Premio di Sochi e costringendo i piloti russi a una neutralità totale, che comprende anche i social. Altri sport importanti, quali la pallavolo e il ciclismo, hanno escluso le squadre russe dalle proprie competizioni mentre la nazionale russa di hockey, oro di Pyeongchang nel 2018 e argento a Pechino 2022, è stata definitivamente esclusa dai prossimi campionati del mondo.


Il Ministero dello sport russo sta preparando un ricorso che verrà presentato al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna al fine di ottenere un risarcimento ma tutto ciò non potrà mai cancellare il danno arrecato a tutte le persone russe coinvolte in un simile scenario. Se unissimo tutti gli e le sportive russe, i dirigenti, gli addetti ai lavori e la popolazione locale, coinvolte in tutta questa serie di ripercussioni a livello sportivo e, di conseguenza economico, il risultato non può che essere tragico.

Figura 3: Andrey Rublev all’Atp di Dubai: “No war please” (credit: Sky Sport)

5. Conclusioni


Le sanzioni sportive inflitte contro il Sudafrica dell’apartheid e contro la Russia di Putin sono di portata paragonabile – le prime più a lungo-termine, mentre le seconde più nell’immediato. Nonostante numerose opposizioni, lo sport è sempre più strumentalizzato per scopi politici in quanto le vittorie e le performance sportive contribuiscono al prestigio nazionale all’estero, al patriottismo nel Paese e al rafforzamento in termini di diplomazia e distensione tra nazioni. Proprio la Russia, attraverso Putin, è stata portatrice di tale visione in quanto il Cremlino ritiene lo sport come una delle priorità nazionali. Quest’ultimo è un universo nel quale la convivenza civile tra i popoli e l’unione tra le persone la fanno da padrone. È drammatico vedere come la maggior parte degli atleti russi, contrari alla guerra, si trovino totalmente isolati e impotenti di fronte a tale scenario. Nel lungo periodo, il rischio di frammentazione del mondo dello sport internazionale è molto alto, in quanto l’opposizione contro la strumentalizzazione politica dello sport è concreta e attiva.


Ma proprio lo sport stesso è il veicolo attraverso il quale si possono aprire delle vie di contatto, basti pensare alla celebre “diplomazia del ping-pong” tra Stati Uniti e Unione Sovietica in piena Guerra Fredda, la quale permise il riavvicinamento diplomatico tra le due superpotenze proprio attraverso i tornei di tennis da tavolo. L’invasione dell’Ucraina è una calamità alla quale non ci si può né abituare né adattare al giorno d’oggi; lo sport ha il dovere di intervenire nella giusta misura, come fece in Sudafrica, contribuendo a modo suo alla fine delle atrocità che vedono coinvolte milioni di persone nell’est Europa. Solo il tempo potrà dirci se le analogie tra le sanzioni sportive in Sudafrica e Russia potranno avere lo stesso effetto.


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Note

[1] L’allora Primo Ministro sudafricano, John Vorster, attuò tale politica costituendo una squadra composta dai migliori di ciascun gruppo nazionale, bianchi e neri, che gareggiavano al fine di qualificarsi per la selezione mista.

[2] Negli anni ’80, infatti, Margaret Thatcher e Ronald Reagan idearono la politica del “Constructive engagement” attraverso la quale gli Stati Uniti si opposero apertamente alle sanzioni ONU nei confronti del Sudafrica e il Regno Unito rifiutò di applicare l’accordo di Gleneagles durante i Commonwealth Games del 1986.


Bibliografia/sitografia

  • “Defining Moment: South Africa Is Suspended from World Football, September 1961.” Financial Times. Financial Times, n.d. https://www.ft.com/content/bfdc8150-8c57-11de-b14f-00144feabdc0.

  • “Is Wimbledon Right in Banning Russian and Belarusian Players?” Sportstar, June 13, 2022. https://sportstar.thehindu.com/columns/vantagepoint-paul-fein/is-wimbledon-right-in-banning-russian-and-belarusian-players/article38499215.ece.

  • “Ukraine War: Can Sporting Sanctions Floor Russia's Invasion?” BBC Sport. BBC, https://www.bbc.com/sport/africa/60778652.

  • “‘This Time for Africa’: FIFA, Politics, and South ... - Duke University,” https://humanrights.fhi.duke.edu/wp-content/uploads/2013/05/This-Time-for-Africa.-Taylor-Henley.pdf.

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