Bilanci e prospettive dell’accordo di Cotonou
Aggiornamento: 14 dic 2020
(di Elisa Chiara)

Premessa
L’accordo di Cotonou è il più importante partenariato strategico tra l’Unione Europea e i paesi dell’Asia, dell’Africa e del Pacifico. Di durata ventennale, esso prenderà fine fra qualche giorno, e il suo rinnovo è stato oggetto di analisi, intra e extra stati membri. La presente analisi ripercorre i caratteri essenziali dell’accordo e le prospettive per il suo rinnovo, partendo da due punti di maggiore criticità relativi alla sua applicazione nel continente africano.
1. L'accordo ACP e i suoi fondamenti giuridici
L'accordo di Cotonou (detto anche accordo ACP) può essere definito come la colonna portante delle relazioni tra l'Unione Europea e 79 paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico[1](la maggioranza delle quali sono ex colonie). L'accordo è intervenuto a seguito di altri impegni formali (quello di Yaoundé nel 1963 e quello di Lomé nel 1975 ) assunti qualche decina d'anni dopo l'ottenimento dell'indipendenza dei paesi del sud del mondo; tali accordi stabilirono delle corsie preferenziali per le ex colonie nelle loro relazioni con l’Europa, che ricevettero la possibilità di esportare i loro prodotti senza alcuna tassazione, oltre a ricevere ingenti aiuti economici per risollevare le loro sorti. L'accordo di Cotonou è stato adottato nel 2000 ed è entrato in vigore il 1 aprile 2003.
L'accordo ACP mira alla riduzione progressiva della povertà (art. 93) dei paesi interessati, mediante azioni a sostegno dello sviluppo economico, culturale e sociale e all'integrazione delle loro economie nei piani di sviluppo dell'Unione Europea. Esso è stato definito come un modello unico di cooperazione nord-sud, soprattutto in funzione della sua natura legale vincolante per tutti i membri, un approccio olistico comprendente la cooperazione, il dialogo politico e le relazioni commerciali, nonché una solidità finanziaria garantita dalla disponibilità di fondi in seno allo European development fund. Si tratta di un accordo estremamente importante che riunisce 1,5 miliardi di persone e più della metà dei paesi membri dell'Unione Europea. L'accordo ha mobilizzato 30.5 miliardi di euro tramite lo European development fund nel periodo 2014 – 2020. Esso si basa sul principio di parità e di ownership degli stati ACP nella definizione delle loro politiche di sviluppo. Importante osservare che, secondo l’accordo, la cooperazione non riguarda solamente i governi degli stati, ma anche i parlamenti, le autorità locali, la società civile, il settore privato e i partner economici.
Molto importante è la dimensione politica dell'accordo, che prevede per tutti gli stati membri un dialogo politico globale su questioni nazionali, regionali e internazionali, la promozione dei diritti umani e dei principi democratici, lo sviluppo di politiche di consolidamento della pace, della prevenzione e risoluzione dei conflitti, le questioni relative alla migrazione e alla sicurezza, compresa la lotta contro il terrorismo e la lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa.
2. Le revisioni dell'accordo e le prospettive post 2020
La clausola inserita nell'accordo prevede delle revisioni intermedie ogni cinque anni e un rinnovo automatico alla scadenza. Alcune tappe importanti di revisione dell'accordo risalgono al 2005, con il riconoscimento della giurisdizione della Corte penale internazionale, e al 2017. Già nel 2010 era stato riadattato alla luce dell'emergere di nuove problematiche geopolitiche rilevanti, quali il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, l'HIV/AIDS, la sostenibilità della pesca, il rafforzamento della sicurezza nelle regioni più fragili e il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio, diventati poi nel 2016 gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Nel 2016 è stata inoltre definita una nuova partnership in prospettiva del dopo 2020, ispirata all'agenda 2020. Per quanto riguarda i negoziati per il regime post 2020, essi sono iniziati già nel 2017, quando gli stati membri si resero conto che il rinnovo automatico previsto in origine era inadeguato di fronte ad un sistema sempre più multipolare, l'eterogeneità dei paesi membri, l'emergere dei Brics e l'affermazione crescente della Cina, la questione delle migrazioni e il terrorismo internazionale.
La struttura portante dell'accordo, formata dai tre pilastri tradizionali (cooperazione, dialogo politico, commercio) si è erosa nel corso del tempo, facendo quindi riflettere i decision makers sulla possibilità di un nuovo assetto. Per quanto riguarda il commercio e il dialogo politico, per esempio, si può osservare come essi siano direttamente presi in considerazione nell'ambito di istanze esterne rispetto all'accordo ACP; ancora, altre priorità strategiche quali la pace, la sicurezza e la migrazione non rientrano nel mandato originario dell'ACP. Inoltre, il tanto lodato e formalizzato aspetto onnicomprensivo della partnership, che dovrebbe favorire l'ownership degli stati attori (anche e soprattutto per quanto riguarda l'allocazione delle risorse), è con il tempo venuto meno a causa della predominazione degli interessi e delle priorità europee su quelle del sud, priorità che hanno di fatto saputo orientare il transito dei fondi. Ancora, la nascita di coalizioni politiche in seno agli stati membri non ha di fatto saputo funzionare, e questo a causa dei variegati e divergenti interessi che le differenti realtà hanno preteso portare sul tavolo. L'Europa, dal canto suo, si è da un lato sempre più allargata, fino ad includere stati che non hanno un passato coloniale rilevante, e che tendono quindi a non identificarsi più in una partnership motivata da mere ragioni storico – politiche. Dall'altro, è attrice primaria in un certo numero di partnership regionali, continentali e bilaterali, e molti strumenti importanti quali lo European trust fund for Africa, attingono costantemente nelle casse dello European development fund, di fatto non rispettando il principio di mutualità e collaborazione proprio dell'accordo. Stessa cosa per i paesi ACP, che tendono sempre più a difendere i loro interessi in alleanze regionali e tendono sempre più a essere riluttanti di fronte all'obbligo di contribuire economicamente all'organizzazione.
Per quanto riguarda il futuro prossimo, l'Unione Europea ha proposto una revisione della struttura dell'accordo. Si tratterebbe di adottare una struttura nuova, definita “ad ombrello” che si concretizzerebbe in un accordo di base concluso con tutti i paesi tramite il quale i principi generali e gli obiettivi comuni degli stati membri sarebbe enunciati; a margine, si concluderebbero partenariati regionali ad hoc con Africa, Caraibi e Pacifico, ciascuno secondo delle premesse specifiche. In dettaglio, l'ombrello, applicabile a tutti i paesi europei e ACP, definirebbe i valori, i principi, gli elementi essenziali e gli interessi comuni a tutte le parti; i partenariati regionali ad hoc avrebbero invece la forma di protocolli, che costruirebbero e integrerebbero le strategie già esistenti, e definirebbero le priorità e le azioni di ogni regione geografica. Inoltre, un'architettura istituzionale multi livello e maggiormente flessibile consentirebbe di indirizzare meglio certe questioni, in accordo con il principio di sussidiarietà e complementarietà, differenziazione e regionalizzazione.
3. Criticità dell’ accordo dal punto di vista africano
Dei 75 paesi membri dell'accordo, 48 sono africani; questo implica il dovere di un'attenzione particolare all'accordo dal punto punto di vista del passato, del presente e del futuro delle relazioni Africa – Europa.
Sappiamo infatti che l'Unione Europea è un attore chiave in Africa subsahariana: dal punto di vista dell'aiuto pubblico allo sviluppo per l'eradicazione della povertà, l'Unione Europea fornisce il 40% degli aiuti all'Africa (essenzialmente attraverso lo European development fund), il che implica che 21 miliardi di aiuto pubblico allo sviluppo sono inviati dall'UE in Africa.
Riguardo al partenariato economico, partiamo innanzitutto da una serie di dati: il 40% degli investimenti stranieri nel continente africano sono europei, cosa che fa dell'Africa il terzo partner commerciale dell'Ue, dopo Stati Uniti e Cina; il 37% delle importazioni africane provengono dall'Europa, mentre il 38% delle esportazioni africane viaggiano verso l'Europa.
Il partenariato Africa – Ue è stato adottato al Cairo nel 2000, e costituisce il quadro politico globale delle relazioni tra i due continenti. Le relazioni Africa-Ue sono però inquadrate anche in una strategia comune, la Jaes[2], adottata al vertice di Lisbona del 2007 come canale relazionale privilegiato tra Europa e Africa. La nuova strategia comune ha come obiettivo il rafforzamento della cooperazione tra i due continenti, cercando di andare ben al di là delle mere questioni relative alla cooperazione allo sviluppo, ma inglobando anche il capitale umano, rafforzando quindi la partecipazione dei cittadini africani ai processi decisionali. La strategia prevede dei piani pluriennali di azione, che vengono aggiornati in occasione dei summit annuali.
Una delle questioni spinose delle relazioni afro-europee strettamente legata all’accordo ACP resta quella commerciale: il terzo pilastro dell'accordo di Cotonou ha infatti subito delle profonde modifiche nel tempo. Ad oggi le relazioni commerciali reciproche dei due continenti sono infatti inquadrate negli Accordi di partenariato economico (Ape): trattasi sostanzialmente di intese di lungo periodo propedeutiche alla creazione di una zona di libero scambio in cui gli stati si impegnano reciprocamente ad accordarsi delle preferenze. In virtù di tale principio di reciprocità, l'Unione Europea ha chiesto ad esempio all' Africa occidentale di aprirle i suoi mercati per l'80% del valore del commercio totale per 15 anni, in cambio dell'apertura ai suoi prodotti del 100%. Fin qui tutto apparentemente chiaro: se non ché, in virtù degli accordi, le aperture finirono per riguardare non solo le merci, ma anche la liberalizzazione dei servizi e degli investimenti, nonché la tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Nel 2003, al fine di snellire la negoziazione tra stati che avrebbe consentito l’adozione degli accordi, vennero creati cinque gruppi regionali africani. Al fine dell’entrata in vigore, la firma degli Epa non è tuttavia sufficiente. Essi devono essere successivamente ratificati, ed è questa la questione spinosa. Di fronte alla reticenza alla ratifica da parte dei paesi economicamente più instabili[3], che di fatto beneficiano già di trattamenti preferenziali (per esempio attraverso il principio dell'everything but arms che prevede l’eliminazione delle barriere doganali all’esportazione dei prodotti dei 48 paesi meno sviluppati) l'Unione Europea alzò la testa, di fatto obbligando gli stati più ricchi a firmare degli accordi intermedi. Al momento, i partenariati economici in vigore sono quelli con Costa D’Avorio e Ghana (Africa occidentale), Camerun (Africa centrale), Mauritius, Madagascar, Seychelles e Zimbabwe (Africa orientale e subsahariana), Botswana, Lesotho, Namibia, South Africa, Swaziland (Comunità per lo Sviluppo dell’Africa del Sud, SADC); altri 22 sono in attesa di essere implementati.
Per quanto riguarda l'Africa occidentale, i negoziati sono iniziati nel 2002, ma la decisione di firmare gli Epa è stata presa solo nel dicembre 2014. La Nigeria, che rappresenta più della metà del Pil della regione e la metà della popolazione dell'Africa dell'ovest, ha rifiutato la firma. La Costa d'Avorio e il Ghana, che avevano degli interessi commerciali ben specifici (essi infatti commerciano l'80% delle esportazioni in UE) hanno firmato gli accordi intermedi con il risultato che tutti i prodotti europei che entrano sul territorio senza pagare i diritti doganali, potrebbero avere il divieto di essere esportati sul mercato regionale perché gli altri paesi della Cedeao (Comunita economica degli stati dell’Africa dell’ovest) potrebbero contestarne l'origine. Questo mina di fatto il tentativo di liberalizzazione del commercio in seno alla Cedeao, riducendo al minimo il volume di commercio degli stati africani e smentendo quindi il principio di integrazione economica sud sud tanto caro all’accordo ACP. Ancora, nel settore dell'agricoltura, l'apertura delle frontiere commerciali ha da sempre messo in ginocchio l'agricoltura africana, tradizionalmente su piccola scala e famigliare, di fronte a quella europea, che coinvolge il 5% della popolazione ed è sostenuta dai sussidi statali. I contadini africani di fatto soccombono di fronte a quelli europei che possono svendere i loro prodotti sussidiati. Va da sé quindi che la rinegoziazione dell'accordo di Cotonou, palesemente sfavorevole all’Africa, dovrebbe partire da una rinegoziazione di questi partenariati inequivocabilmente asimmetrici.
Un'altra problematica legata al rinnovo dell'accordo è legata alla politica della condizionalità applicata dall'Unione Europea. Come già precedentemente accennato, il dialogo politico tra gli stati ACP costituisce uno dei pilastri dell'accordo, ed è stato esplicitato espressamente negli articoli 8 e 9, nonché reso concreto negli articoli 96 e 97, che prevedono delle clausole di non esecuzione in caso di gravi mancanze dello stato membro. Tali mancanze possono per esempio riguardare lo stato di diritto o la protezione dei diritti umani. In una consultazione pubblica sull'avvenire dell'accordo, i rispondenti si sono mostrati severamente critici sull'impatto dell'applicazione di tali articoli. Le critiche sostengono che il dialogo politico tra Europa e Africa è stato spesso e volentieri ridotto a scambi troppo formali e tecnicisti, senza pertanto apportare dei migrlioramenti reali nei contesti locali di riferimento. Se guardiamo al passato, il corpo di articoli è stato più volte invocato dall'Unione Europea nelle sue relazioni con gli stati, in risposta a violazioni dei diritti umani o colpi di stato. Possiamo ad esempio citare il caso del Madagascar nel 2010, dello Zimbabwe nel 2002, nella Repubblica Centrafricana nel 2003, in Guinea Bissau nel 2004 e 2011 e in Togo nel 2004, tutte situazioni in cui l’Ue ha sospeso, in nome della legalità, il portafoglio di aiuti previsti. Stessa cosa nel marzo del 2016, quando l'Unione aveva annunciato la sospensione della politica di aiuto in Burundi a seguito di un tentativo di ottenimento di un terzo mandato del presidente. Circa la stessa applicabilità del principio di condizionalità, ci sono inoltre profonde divergenze tra i paesi europei: quando nel 2015, di fronte alla supposizione della cattiva governance del Rwanda, il Belgio aveva ridotto di 40 milioni di euro l'aiuto allo svluppo vero Kigali, la Francia si era pubblicamente dichiarata contro questa misura, di fatto considerandola come l'eccezione alla regola. Altra obiezione: la politica della condizionalità è di fatto considerata inconcludente e particolarmente nefasta per le popolazioni in situazione di estrema povertà; se guardiamo al caso del Mali, quando nel 2013 l'Unione Europea (supportata dalla Francia) aveva deciso di sospendere gli aiuti fino a quando elezioni libere avrebbero portato ad una stabilizzazione politica, possiamo confermare questa obiezione.
Il dibattito si anima inoltre con riguardo al sistema dei valori dei due contesti. Che succede se l’Europa a spada tratta vuole difendere i diritti delle persone LGBT, diritti che negli stati africani continuano ad essere considerati argomenti tabou[4]?
Questo aspetto del dialogo politico rimanda infatti alla problematica della sua effettività: il reale impatto del dialogo è possibile solo ove tutte le parti in causa siano pronte a riconoscerne gli interessi reciproci.
Un’altro aspetto critico, non poco conosciuto, riguarda il tema della migrazione. Nel novembre 2015, a La Valletta, è stato approvato il Fondo fiduciario di emergenza dell'UE; il suo tentativo era quello di minare le cause profonde dell'immigrazione e dei movimenti di popolazione in Africa, potenziando al contempo la capacità dei governi di gestire i processi di migrazione, attraverso la facilitazione del rimpatrio dei cittadini irregolari, la prevenzione del traffico di esseri umani, la gestione delle frontiere. Fu definito come un meccanismo innovativo, il cui budget iniziale di 1.88 miliardi di dollari si è incrementato di 2.5 miliardi nel dicembre 2016; di questi di cui 2.2 miliardi provenivano dai contributi dello European development fund. Il fondo presenta dei limiti simili all’accordo ACP, che in un certo senso integra. Ancora una volta, continua a mettere l’accento sugli aiuti sotto forma di sostegno finanziario, senza aver ancora saputo creare un ambiente favorevole all’espressione dei paesi africani.
Conclusione
Partendo da alcuni esempi concreti, l’analisi enuncia i limiti dell’accordo di Cotonou. Tali limiti sono osservabili ancora di più quando si tratti delle relazioni con il continente nero. Esso necessita pertanto di una revisione generale, in particolar modo al fine di bilanciare le relazioni europee di potere con quelle degli stati del sud. Per quanto riguarda l’Africa, occorrerebbe che le ingenti somme di denaro fossero trasformati nel loro essere, puntando più sull'assistenza tecnica, all'apporto di know how, alla formazione, allo sviluppo del settore privato, le cui procedure sono ancora troppo rigide e tendenti a favorire solo gli interessi europei.
Secondo l’istituto Montaigne[5] il nuovo partenariato dovrebbe puntare su quattro aspetti. Il primo è il rafforzamento dell’integrazione regionale e continentale, soprattutto attraverso l’applicazione stretta e omogenea delle normative in materia di commercio. Si tratterebbe di costituire una tabella di marcia precisa sulle competenze dell’Unione Africana, che vedrebbe rafforzato il suo ruolo di sussidiarietà rispetto agli stati membri e le altre organizzazioni regionali. Il secondo è ripartire dall’ambizione economica africana, soprattutto attraverso il rafforzamento del valore aggiunto locale e la valorizzando delle industrie di interesse comune; il dialogo stimolerebbe l’ecosistema produttivo nazionale africano, mettendo l’accento sull’agricoltura attraverso finanziamenti importanti. Il terzo aspetto riguarda il riorientamento dell’assistenza tecnica europea al settore privato, attraverso il finanziamento alle piccole e medie imprese, la creazione di camere di commercio e industria europee negli stati africani, in grado di animare il dialogo con le imprese europee e diffondere l’informazione sui finanziamenti europei. Il quarto aspetto riguarda la formazione, in particolare quella professionale: si dovrebbe puntare alla formazione tecnica e alla formazione dei formatori, con un interesse particolare alle donne e al digitale, sempre più attive nell’ambito del commercio e della trasformazione agricola.
Note
[1]Angola - Antigua and Barbuda - Belize - Cape Verde - Comoros - Bahamas - Barbados - Benin - Botswana - Burkina Faso - Burundi - Cameroon - Central African Republic - Chad - Congo (Brazzaville) - Congo (Kinshasa) - Cook Islands - Cte d'Ivoire - Cuba - Djibouti - Dominica - Dominican Republic - Eritrea - Ethiopia - Fiji - Gabon - Gambia - Ghana - Grenada - Republic of Guinea - Guinea-Bissau - Equatorial Guinea - Guyana - Haiti - Jamaica - Kenya - Kiribati - Lesotho - Liberia - Madagascar - Malawi - Mali - Marshall Islands - Mauritania - Mauritius - Micronesia - Mozambique - Namibia - Nauru - Niger - Nigeria - Niue - Palau - Papua New Guinea - Rwanda - St. Kitts and Nevis - St. Lucia - St. Vincent and the Grenadines - Solomon Islands - Samoa - Sao Tome and Principe - Senegal - Seychelles - Sierra Leone - Somalia - South Africa - Sudan - Suriname - Swaziland - Tanzania - Timor Leste - Togo - Tonga - Trinidad and Tobago - Tuvalu - Uganda - Vanuatu - Zambia - Zimbabwe [2]Joint african-european strategy [3]Benin, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone, Togo. [4]38 paesi africani puniscono l'omosessualità con la pena di morte. [5]https://www.institutmontaigne.org/publications/europe-afrique-partenaires-particuliers
Bibliografia:
https://lospiegone.com/2018/10/01/gli-economic-partnership-agreements-tra-ue-e-africa/
http://www.rfi.fr/fr/podcasts/20200216-dr-cheikh-tidiane-dieye-ueacp-révision-laccord-cotonou
https://www.euractiv.fr/section/aide-au-developpement/news/l-ue-divisee-sur-l-octroi-d-aide-au-developpement-en-fonction-des-droits-de-l-homme