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Attanasio come Hammarskjöld: un cuore buono al servizio della diplomazia

Aggiornamento: 7 set 2021

Generalmente AMIStaDeS non prende la parola “a caldo” su ciò che succede; segue i fatti, li analizza, cerca di comprenderli e condivide i risultati di queste riflessioni. Tuttavia, essendo un Centro studi che si occupa della promozione della cultura internazionale, è stata colpita al cuore da quanto accaduto ieri nella Repubblica Democratica del Congo. Un agguato contro chi è l’avamposto della cultura italiana nel mondo e, al contempo, il primo luogo di dialogo con l’altro da noi e di reciproca conoscenza, il canale di ingresso delle altre culture: il personale diplomatico, simboleggiato nell’immaginario collettivo dalla figura dell’ambasciatore. L’uccisione di Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci ha riportato immediatamente la mia mente al 1961.


Quell’anno, il 18 settembre, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld moriva, all’età di 56 anni, in un incidente aereo avvenuto sui cieli dell’attuale Zambia. Stava rientrando da una missione di pace che lo aveva portato nel Katanga, intorno a cui ruotava la crisi scoppiata all’indomani dell’indipendenza del Congo, dichiarata il 30 giugno 1960, dal Regno del Belgio. Sulla sua morte molti dubbi sono sorti e spesso, anche ai massimi livelli istituzionali (si vedano le dichiarazioni, ad esempio, dell’ex presidente americano Truman), essa è stata imputata alla volontà di alcuni attori internazionali e interni diretta a mantenere il controllo delle risorse minerarie presenti nella zona, rame e uranio innanzitutto.


Oltre, infatti, a esser stato il Segretario Generale che per primo promosse un intervento deciso e indipendente dell’ONU nelle crisi internazionali (insistendo a tal fine per la creazione di un apparato stabile di funzionari onusiani anziché di personale preso “in prestito” dagli Stati per un certo periodo di tempo), Hammarskjöld sostenne i diritti delle piccole nazioni che cercavano l’indipendenza, appoggiando il processo di decolonizzazione e risultando per questo inviso alle grandi Potenze.


Congo, oggi come allora: risorse minerarie contese e gruppi ribelli ai confini


Il primo fil rouge che l’uccisione dell’ambasciatore Attanasio ha evidenziato ai miei occhi è costituito dai corsi e ricorsi storici. A distanza di quasi sessant’anni il Congo non ha trovato una vera e propria pace o stabilità: i suoi confini, estremamente porosi rispetto soprattutto alle altre ex colonie belghe (in primis Ruanda-Urundi, ora divisa in Ruanda e Burundi), sono luoghi di agguati e aggressioni e le sue risorse sono ancora oggetto di conflitto, forse ora più di prima.


La missione di Hammarskjöld nel 1961 aveva l’obiettivo di sedare la crisi nata tra il nuovo Congo indipendente e il Katanga che, sostenuto dalla compagnia mineraria belga Union minière du Haut Katanga e dai suoi mercenari, lottava per la secessione. L’Union perorava le istanze katanghesi perché temeva che - sotto l’influenza dell’Unione sovietica che appoggiava lo Stato appena nato - l’estrazione mineraria sarebbe divenuta oggetto di nazionalizzazione, a discapito dell’ex colonizzatore belga che continuava indirettamente a detenerne la gestione. Hammarskjöld chiese che i mercenari ritirassero il loro supporto alle istanze del Katanga e consentissero al nuovo Congo indipendente di stabilire autonomamente il proprio posizionamento internazionale.

Hammarskjöld incontra all’aeroporto di Elizabethville (oggi Lubumbashi) Moïse Kapenda Tshombe, leader del Katanga,15 agosto 1960. (AFP/Getty Images)

Divisioni e conflitti si sono ripetuti più e più volte nel corso della storia congolese. Nell’agosto 2010 le Nazioni Unite hanno pubblicato uno studio (Rapport du Projet Mapping concernant les violations les plus graves des droits de l’homme et du droit international humanitaire commises entre mars 1993 et juin 2003 sur le territoire de la République démocratique du Congo) contenente una ricostruzione pressoché quotidiana di ingerenze straniere, incursioni dei ribelli e di crimini di guerra commessi specialmente contro la popolazione civile tra il 1993 e il 2003.


Crimini avvenuti per lo più nell’est della Repubblica Democratica del Congo, ossia in quella regione che si affaccia sul lago Kivu, anch’essa sfacciatamente ricca di minerali, tra cui uranio, coltan e cobalto. L’obiettivo del rapporto era contribuire all’identificazione dei responsabili da parte del governo congolese e tutelare le vittime assicurando loro sia adeguati risarcimenti sia, soprattutto, la punizione dei colpevoli. Per tali crimini il premio Nobel per la pace, Denis Mukwege, ha più recentemente chiesto l’istituzione di un tribunale internazionale per il Congo. Il rapporto ONU del 2010 sembrava tuttavia sostenere che anche il Kivu, come il Katanga degli anni ‘60, sia ostaggio di ribelli supportati da Paesi stranieri e multinazionali.


Il Kivu, la regione dove l’ambasciatore Attanasio ha trovato la morte, lungo la strada che dalla città di Goma si addentra nel Parco dei Virunga, noto per essere l’ultimo rifugio al mondo dei gorilla di montagna e chiuso alle visite già da metà 2018, ancor prima della pandemia. Siamo vicino al confine con il Paese martoriato dal genocidio del 1994, il Ruanda, ma anche in un’area dominata da gruppi armati che agiscono in modi e con motivazioni le più diverse e variegate. Basti pensare ai contrabbandieri in continuo conflitto con le guardie forestali del parco del Virunga.


Attanasio e Hammarskjöld: l’Uomo al servizio della comunità


Ad un primo sguardo l’associazione mentale tra un ambasciatore, che rappresenta uno Stato, e un Segretario Generale delle Nazioni Unite, che agisce per conto della comunità internazionale, potrebbe apparire ardita. Quella di Attanasio non è la prima uccisione di un ambasciatore: per fare alcuni esempi nel 1993, sempre in Congo, trovò la morte l’ambasciatore francese durante alcuni disordini nella capitale Kinshasa; più recentemente possiamo ricordare l’ambasciatore americano a Bengasi nel 2012. Tuttavia, appena viste scorrere in TV le immagini dell’ambasciatore italiano, del suo volto buono e soprattutto delle sue azioni concrete a beneficio di molti, la mia mente si è naturalmente diretta ad Hammarskjöld, senza alcuna forzatura. L’ex Segretario generale dell’ONU è universalmente considerato simbolo dell’uomo di Stato che si mette al servizio totale della comunità fino alla morte. L’ambasciatore Attanasio non ha forse fatto lo stesso seppur all’interno di dimensioni istituzionali differenti?


In un video girato il giorno in cui ha ricevuto il premio Nassirya per la Pace 2020 “per il suo impegno volto alla salvaguardia della pace tra i popoli”, pronuncia queste parole: “Essere ambasciatori è una missione. […] Abbiamo il dovere di dare l’esempio”.


Spesso, l’uomo comune guarda alla figura dei diplomatici come a dei “meri” politici, semplicemente più raffinati e con un modo più sottile, alcuni direbbero più furbo, di fare le cose. In loro si vede il compromesso, inteso nella sua accezione negativa, e non la mediazione tra interessi diversi e spesso opposti, tra istanze generalmente tutte legittime che debbono essere in parte sacrificate per garantire la coesistenza pacifica all’interno di una comunità. Ci sono tanti modi di fare diplomazia, ma sicuramente coloro che come l’ambasciatore Attanasio sono in servizio presso Stati particolarmente conflittuali devono possedere l’Arte della mediazione in quantità abbondanti e una predisposizione al dialogo senza giudizio che non rinunci però a tenere con fermezza la guida del negoziato.


L’eredità di Hammarskjöld risiede nel suo ruolo di prevenzione dell’escalation dei conflitti: si pensi alla sua mediazione in prima persona per il rilascio di prigionieri statunitensi durante la guerra di Corea o all’“invenzione” delle operazioni di peacekeeping come forza di interposizione in occasione della crisi di Suez del 1956. A riconoscimento di questa attività di “uomo buono”, alcune settimane dopo lo schianto del quadrimotore Douglas DC-6 nella foresta vicino alla città di Ndola, che causò la sua morte e quella di altre quindici persone, al Segretario generale fu assegnato il premio Nobel per la Pace. Testimonia lo spirito dell’uomo anche il diario di Hammarskjöld, pubblicato postumo e distribuito in Italia con il titolo “Tracce di cammino”.

Finita la Guerra Fredda all’interno della quale Hammarskjöld si era trovato ad operare, la diplomazia e la mediazione si esercitano con azioni diverse, pur mantenendo i medesimi obiettivi. Attanasio è stato un grande interprete di queste nuove modalità: quando è stato ucciso, era nel pieno della sua ennesima missione nel Congo orientale finalizzata allo sviluppo di progetti sociali a favore della popolazione, grazie al contributo anche di missionari e ONG. Ieri avrebbe dovuto presenziare alla distribuzione di beni di prima necessità alla popolazione effettuata dal Programma Alimentare mondiale, l’agenzia delle Nazioni Unite. E oltre alla sua attività di ambasciatore, con la moglie Zakia Seddiki, era particolarmente attivo nell’aiutare i bambini di strada che in Congo sono moltissimi, probabilmente vittime anche loro dell’instabilità e della violenza che ieri hanno ucciso l’ambasciatore italiano.

Le dinamiche da ricostruire


Il terzo fil rouge che associa, si spera per poco, Attanasio e Hammarskjöld riguarda le dinamiche non del tutto chiare in cui è avvenuta la morte. Dopo l’incidente aereo che uccise il Segretario generale furono condotte almeno tre inchieste ufficiali, due a livello nazionale e una a livello onusiano, che si conclusero senza certezze ma indicando come causa più plausibile dell’incidente un errore del pilota.

19 settembre 1961: i resti dell’aereo che trasportava Dag Hammarskjöld, vicino a Ndola, Zambia. (AP Photo)

Tuttavia, i sospetti intorno alla morte di Hammarskjöld sono ancora molti; nel 2019 l’attuale Segretario generale dell’ONU, António Guterres, dava gli opportuni aggiornamenti sulle indagini ancora in corso da parte delle Nazioni Unite (reperibili al seguente link: Investigation into the conditions and circumstances resulting in the tragic death of Dag Hammarskjöld and of the members of the party accompanying him) e invitava nuovamente gli Stati a desecretare tutte le informazioni sul caso. Dice Guterres: “Sulle cause possibili dello schianto sono stati acquisiti nuovi elementi in particolare rispetto a intercettazioni di comunicazioni rilevanti da parte di governi, la capacità delle forze armate del Katanga e di altri di intraprendere un attacco contro l’aereo, nonché la presenza nella zona di paramilitari stranieri, compresi piloti, e di agenti dell’intelligence”.


All’indomani dell’attacco contro il convoglio su cui viaggiava Attanasio, la propensione generale è quella di attribuire l’aggressione al Fronte di Liberazione del Ruanda, “figlio” degli Hutu cacciati dal Ruanda nel 1994 dopo il terribile genocidio che vi si consumò. Non sono tuttavia rari in quella zona i rapimenti a scopo di estorsione e questo potrebbe essere uno di quei casi finiti male. La missione MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the DR Congo), che opera in Congo dal luglio 2010 grazie all’impegno di oltre 12.000 militari provenienti da circa 20 Paesi, ha già perso negli anni novantatré persone rimaste uccise nella zona. Ciò testimonia la pericolosità dell’area ma contrasta in maniera netta con le voci secondo le quali il convoglio avrebbe viaggiato senza le opportune misure di protezione. Dall’altro lato, suona cupo l’apparente discarico di responsabilità da parte della polizia congolese che sostiene – nonostante il contesto ufficiale in cui l’ambasciatore italiano stava operando – di non essere stata informata della visita di Attanasio nella zona del parco nazionale dei Virunga. Si inseguono le indiscrezioni di comunicazioni appositamente mancate, tweet del Ministero dell’interno congolese improvvisamente cancellati e rapporti dei servizi segreti che sembrano in un primo momento avvalorare l’ipotesi del rapimento. Al momento è possibile leggere e sostenere tutto e il contrario di tutto; una delegazione dei Ros è stata inviata a Kinshasa dalla procura di Roma, nel tentativo di fare chiarezza.

Ciò su cui non è possibile nutrire dubbi sono le qualità umane e personali di Luca Attanasio sia come uomo che come ambasciatore; le dimostrazioni di affetto e cordoglio giunte sia dai contesti professionali che da quelli più intimi di amici e parenti danno un’immagine di quello che dovrebbe sempre essere un ambasciatore: un cuore buono al servizio della diplomazia.


Il Centro studi AMIStaDeS si stringe al dolore delle famiglie di tutte le vittime di questo vile attacco: Luca Attanasio (Ambasciatore italiano a Kinshasa), Vittorio Iacovacci (Carabiniere di scorta all’Ambasciatore italiano), Mustapha Milambo (autista, World Food Programme).

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