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Iran a una svolta:tra instabilità economica e necessaria transizione rimane la ferita del terrorismo

Aggiornamento: 28 ago 2021

Come riportato da diversi media internazionali, il 22 settembre 2018 un attacco terroristico ha colpito una parata militare in corso ad Ahvaz, nel sud dell’Iran. Le vittime sono numerose (accertati 29 morti, nonché diverse decine di feriti) e hanno incluso membri della Guardia Rivoluzionaria (un corpo di élite, appartenente all’esercito iraniano), civili e giornalisti presenti sul posto. È uno dei più sanguinosi attentati nella storia recente dell’Iran, avvenuto proprio in una data di particolare importanza per la Repubblica Islamica.

La parata durante la quale è stato effettuato l’attentato, infatti, marca una importante ricorrenza, e celebra il triste anniversario dell’invasione dell’Iran da parte irachena. L’invasione, avviata proprio nel mese di settembre, nel 1980, diede inizio a una devastante guerra tra i due Stati, culminata soltanto otto anni dopo. Definita da alcuni uno tra i conflitti più inutili del Medio Oriente, la guerra tra Iran e Iraq fu senz’altro sanguinosa e portò devastazione in entrambi gli Stati coinvolti, come peraltro accade praticamente sempre nel caso di un conflitto armato.

Fu solo nell’agosto 1988 che il conflitto si chiudeva e il suo termine quasi coincideva con un periodo di importante transizione per la Repubblica Islamica, ossia il ‘passaggio’, fisico ed emotivo, dalla guida spirituale di Khomeini, considerato da moltissimi il padre della allora neonata Repubblica Islamica, a quella di Khamenei, un protetto di Khomeini, ma entrato nella rosa dei candidati al ruolo di Guida suprema solo pochi mesi prima della morte della guida spirituale in carica.

L’attentato del 22 settembre, dunque, costituisce un episodio significativo. Esso è un attacco meditato e portato a termine in un’occasione ben precisa, con lo scopo di colpire non soltanto i militari che partecipavano all’evento, ma anche gli avventori presenti alla parata. È un evento simbolico, di cui si cercherà di individuare alcuni tratti significativi in questa rubrica.

Il 22 settembre 2018

L’attentato, forse uno dei più sanguinosi e violenti degli ultimi anni, si è verificato poco più di un anno dopo l’attacco al parlamento iraniano e al mausoleo dedicato a Khomeini perpetrato a giugno 2017, che pure aveva causato almeno dodici vittime ed era allora stato rivendicato dall’ISIS. Il modus operandi dell’attacco, sfortunatamente, non consente di comprendere meglio chi potrebbe celarsi dietro la strage. Infatti, i terroristi hanno aperto il fuoco sulla folla, sparando da una lunga distanza, e colpendo indiscriminatamente sia i civili sia i membri dell’esercito presenti alla parata. Tuttavia, sono diversi gli spunti di riflessione che questo drammatico episodio può sollevare.

In primo luogo, la rivendicazione dell’attentato: questa volta, ben due gruppi hanno rivendicato la paternità dell’attacco, peraltro a distanza di poche ore l’uno dall’altro.

Da un lato, l’attentato è stato rivendicato da un gruppo separatista che combatte per l’autonomia della provincia meridionale del Khuzestan, ove è presente una significativa maggioranza araba di Ahwazi e, dall’altro, anche il sedicente Stato Islamico ha affermato che ad attaccare la parata sarebbero stati militanti appartenenti al gruppo.

Il fatto che si siano susseguite, l’una a poche ore dall’altra, due rivendicazioni di due gruppi sostanzialmente indipendenti, con ragioni “esistenziali” sostanzialmente differenti, testimonia quantomeno un fattore: spesso e volentieri, le rivendicazioni operate dai vari gruppi attivi in una determinata area si rivelano non soltanto irrilevanti, ma banalmente fasulle, e volte ad accrescere i proseliti e l’autorità del gruppo. Specialmente nel caso di un gruppo che opera in aree totalmente diverse rispetto a quelle che diventano teatro degli attentati, rivendicare la paternità di un attentato, infatti, può contribuire ad accrescerne la popolarità, nella speranza che, o per timore, o per effettiva simpatia, aumentino i proseliti e gli adepti a una particolare causa. Peraltro, vale la pena ricordare anche che, mentre un portavoce del movimento al-Ahwaz National Resistance ha rivendicato l’attentato, uno dei gruppi separatisti, come riportano alcuni media, ha poi negato qualunque coinvolgimento nell’attacco. Tale contrasto, naturalmente, non fa altro che gettare ulteriori dubbi sull’affidabilità di tale rivendicazione.

Inoltre, la rivendicazione dello Stato Islamico suffraga anche la tesi secondo cui quest’attore, come peraltro avevamo già evidenziato nella precedente rubrica, non sia affatto sconfitto in modo definitivo e si stia probabilmente evolvendo verso forme di attività meno sistematiche, ma altrettanto preoccupanti. Non perché l’attentato sia necessariamente da attribuire all’IS, quanto piuttosto perché il solo fatto che questi si sia preoccupato di rivendicare l’attentato dimostra un flusso di attività e di attenzione a quanto accade nella regione, che non avrebbe ragione né modo di esistere se l’IS fosse definitivamente scomparso dalla scena.

Un altro elemento va sottolineato e che talvolta si dà per scontato: l’Iran non è affatto immune dal fenomeno terroristico, che pure diverse volte è stato accusato di finanziare (si pensi alle vicende relative all’attività terroristica di Hezbollah nel sud del Libano), sebbene non siano sempre chiare le radici di tale fenomeno.

La risposta del regime, in ogni caso, non si è fatta attendere: al di là di alcune manifestazioni sui social, in cui diversi esponenti politici (tra cui il Ministro degli Affari Esteri) hanno proclamato l’intenzione di adottare esemplari punizioni per i responsabili, alcune fonti di intelligence hanno dichiarato di aver arrestato ben 22 persone in connessione all’attentato di pochi giorni prima.

Il conflitto Iran-Iraq: un evento simbolico

Come già detto, l’evento celebrativo del 22 settembre, culminato drammaticamente nell’attentato, aveva lo scopo di ricordare l’invasione irachena del 1980 e l’inizio del conflitto. Un evento in un certo senso catartico, che avrebbe in ogni caso accompagnato la Repubblica Islamica, nata da poco più di un anno, nei suoi anni di consolidamento, e che avrebbe avuto strascichi emotivi, nonché politici, di lungo periodo. Un conflitto, inoltre, che ha numerosi risvolti simbolici, e si vedrà tra breve perché.


Le cause del conflitto sono eterogenee e, tendenzialmente, non riconducibili a un'unica ragione. Per l’allora Iraq di Saddam Hussein, il fattore scatenante della guerra fu la contesa relativa al fiume Shatt al’-arab (in arabo) o Arvand Rud (in persiano), un importante corso d’acqua, che nasce dalla convergenza dei fiumi Tigri ed Eufrate e si trova in una posizione assolutamente peculiare, scorrendo sostanzialmente al confine tra i due Paesi e, in un certo senso, demarcando dal punto di vista storico anche le diverse zone di influenza, araba e persiana. Molto più praticamente, il corso d’acqua ha una posizione privilegiata, perché affacciandosi poi sul Golfo Persico è una via di trasporto strategica per i commerci di risorse petrolifere di cui la zona è ricca. Un dominio che dunque non ha esclusivamente valore simbolico, ma effettivamente geopolitico. Come, d’altra parte, sono spesso le relazioni di potere che si instaurano per il dominio dei corsi d’acqua, delle porzioni di mare e dei transiti fluviali in molti altri casi, come abbiamo avuto modo di vedere più volte nel nostro corso Blue Gold.


Tornando alla vicenda di Iran e Iraq, prima dell’avvio della guerra le relazioni fluviali tra i due Stati erano state disciplinate dal poco noto trattato del 1975, siglato dallo Scià Reza Pahlavi (al potere fino alla rivoluzione islamica del 1979) e da Saddam Hussein. L’accordo riconosceva come linea di confine il punto di massima profondità del fiume, lasciando dunque spazio anche alla possibilità di utilizzo da parte iraniana. Come noto, tuttavia, nel 1980, il conflitto tra i due Stati è esploso, ma le ragioni hanno certamente travalicato la questione del controllo sul fiume. Da un lato, infatti, Saddam sperava in una vittoria veloce, e in conquiste territoriali che avrebbero consentito una ulteriore espansione su territori ricchi di idrocarburi. Dall’altro, la resistenza iraniana fu vigorosa. L’esercito della Repubblica Islamica fu inizialmente preso in contropiede, anche a causa dell’interruzione del flusso di armi che fino a quel momento invece si era alimentato grazie al sostegno degli Stati Uniti alla monarchia di Reza Pahlavi. Tuttavia, a circa un anno dall’inizio del conflitto, la resistenza iraniana si rafforzò anche grazie al supporto di attori esterni e la controffensiva ha reso quello che doveva essere un conflitto lampo, una guerra lunga otto anni.

Il 20 agosto del 1988 entrava in vigore il cessate il fuoco tra i due Stati, a seguito dell’adozione della risoluzione n. 598 da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che fu accettata da entrambi i Paesi e consentì la conclusione del conflitto. I due Stati, sostanzialmente, non ebbero incrementi o perdite territoriali e le limitatissime conquiste territoriali che Saddam Hussein era riuscito a ottenere negli anni di guerra furono poi restituite all’Iran pochi mesi dopo la fine del conflitto.


A che punto è il regime, oggi?

Forse non nella stessa misura del 1989, tuttavia l’Iran si trova oggi in una situazione di evidente transizione, che mette alla prova la riuscita dell’esperimento della Repubblica Islamica, un unicum, nell’ambito dell’Islam sciita nella regione.

Ci sono diverse questioni da considerare sotto questo aspetto. Da un lato, alcuni dati essenzialmente pratici, ossia l’anzianità di Khamenei, nonché le incognite relative all’elezione della futura Guida suprema, e soprattutto il rapporto di quest’ultima figura con Rouhani, il presidente eletto, per il secondo mandato, nelle ultime elezioni di maggio 2017. Sul fronte interno, insomma, si profilano diverse incognite nei prossimi mesi e anni, che potrebbero naturalmente avere un’influenza non indifferente anche nella politica estera del Paese. Dall’altro lato, sul fronte internazionale, si profila un periodo altrettanto complesso per l’Iran.

In particolare, dopo il ritiro da parte statunitense dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), anche noto come Nuclear Deal, siglato da Obama nel 2015 con lo scopo di contenere la proliferazione iraniana in ambito nucleare, i rapporti tra i due Stati si sono fatti più tesi. Il ritiro degli Stati Uniti e l’imposizione progressiva di nuove sanzioni da parte USA sulle imprese iraniane, potrebbe avere effetti negativi non soltanto sullo stesso Iran, che naturalmente subirà perdite significative derivanti dalle esportazioni di idrocarburi e altre risorse energetiche verso i partner occidentali, ma anche sui partner commerciali che subirebbero perdite in termini di quote di esportazione verso questo importante acquirente.

Proprio in quest’ottica, l’Unione europea si è attivata allo scopo di evitare che le rinate sanzioni USA possano avere effetti negativi sui flussi commerciali tra i Paesi europei e l’Iran in ambiti fino a ora non colpiti dalle sanzioni. Questo è un passo molto importante, perché se anche i commerci con altri partner dovessero risultare inficiati, l’Iran potrebbe esso stesso decidere di abbandonare il Deal, non ritenendolo più un accordo conveniente anche per sé. L’accordo sul nucleare, infatti, si basa su un reciproco vantaggio (interruzione della proliferazione nucleare per scopi militari e rimozione di alcune sanzioni da parte dei Paesi coinvolti). Però, se l’Iran dovesse subire danni particolarmente ingenti in termini di rapporti commerciali, potrebbe anche decidere di non far più parte di un accordo i cui aspetti negativi superano i vantaggi.

Ma come si lega questo nuovo atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran agli eventi del 22 settembre scorso?

Immediatamente dopo l’attentato, il Ministro degli Affari Esteri, Zarif, ha condannato i gruppi terroristici armati e addestrati da un regime straniero responsabili per la strage e, poche ore dopo, ha rincarato la dose il presidente Rouhani, che ha tuttavia rivolto delle accuse molto più precise, sebbene non abbia mai nominato il Paese sospettato dell’attacco. Rouhani, infatti, ha sostenuto, secondo quanto riporta il New York Times, che un Paese del Golfo Persico, alleato con gli Stati Uniti, si posizionerebbe dietro l’attentato alla parata militare. Pur senza nominare lo Stato cui si riferisce, è evidente che il pensiero si focalizzi subito sulle monarchie del Golfo alleate degli USA, tra cui l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Questi Stati, che hanno un orientamento politico e religioso profondamente differente rispetto a quello iraniano, sono sostanzialmente nemici regionali di quest’ultimo e più volte si sono contrapposti per il predominio nella regione. Una profonda divergenza religiosa (mentre i Paesi del Golfo appartengono a un orientamento islamico sunnita, l’Iran è uno dei Paesi più importanti a netta maggioranza sciita), che si trasforma in pratica divergenza politica e strategica.

Naturalmente, la risposta del muscolare presidente statunitense si è avuta pochi giorni dopo: nel corso della riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, svoltasi il 26 settembre, ha usato parole dure per il regime di Teheran, accusando la Repubblica islamica di aver usato i fondi derivanti dall’alleggerimento delle sanzioni per supportare il terrorismo e ‘fomentare il caos’ nella regione. Ha inoltre avuto parole molto dure nei confronti di Iran e Russia, condannando il loro supporto al regime di Bashar al-Assad in Siria. Ma c’è forse un aspetto positivo in questo difficile e incerto quadro. Nella stessa sede, il primo ministro inglese, Theresa May, si è detta in favore del proseguimento dell’accordo: dopo aver provato altri metodi, tra cui le sanzioni, che sono state in vigore per anni senza dare un colpo decisivo alla politica ‘aggressiva’ di Teheran, vale la pena proseguire su questa strada, nella speranza di mitigare le minacce iraniane e mantenere in vita un accordo che dovrebbe portare reciproci vantaggi per le parti coinvolte.

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